piccolo dizionario marxista

felicità


Il termine giunge a Marx nella tradizione della filosofia romanticoidealista. Esso, infatti, secondo il modello idealista, significa il recupero della totalità da parte della particolarità, ottenuto mediante il superamento dell'ostacolo (il negativo).
La felicità veniva ad assumere cosi il carattere di una conquista coscienziale realizzata nella storia e dove il rapporto autocoscienza-felicità rappresentava la metafora romantica dell'individuo isolato nel sociale.
Marx critica invece questo quadro teorico servendosi degli strumenti dell'antropologia feuerbachiana. Egli perciò legge nella totalità religiosa solo una forma illusoria di felicità che l'uomo ottiene proiettando nel cielo dell'immaginario tanto le sue problematiche reali quanto le loro possibilità di risoluzione. Sopprimere la religione diviene allora la condizione tramite cui l'uomo che Marx simboleggia ancora hegelianamente nel popolo può riscoprire in se la propria totalità e quindi la felicità.
«Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuoi dire esigerne la felicità reale» (CDH, 191).
In quest'ottica, di fatto ancora idealistica, Marx concepisce la religione come un ostacolo coscienziale da superare per ottenere la vera totalità, che è poi il concetto ideale di umanesimo, l'uomo recuperato, astrattamente, a se stesso. Facendo della felicità un problema filosofico inscrivibile nel rapporto illusione-verità e irrealtà-realtà, Marx fa coincidere, nella felicità, sia la realtà che la verità.
Il termine rimane quindi ancorato ad un immaginario filosofico di cui seguirà tutti gli sviluppi.
Quando dunque il filosofico si risolverà nella rappresentazione ideologica di un immaginario di classe, il concetto di «felicità» pur non comparendo e più a livello testuale verrà assorbito dal concetto di «bisogno» acquistando una forte connotazione sociale.