Giorgio Ferigo

Vedi alla voce ‘cumunist’…

Ho scritto quest’intervento per accompagnare la presentazione, a Villa Santina (UD) il 19 marzo 2004, di un libro di Luca Marin, Vita, ideali, anni di galera di Milio Cristian comunista, che noi di CjargneCulture avevamo appena edito.
Il libro ripercorre la vicenda di un uomo di Villa, Emilio Cristian, che nel 1947, con forti motivazioni ideologiche, emigrò insieme al padre e al fratello Risieri, in Jugoslavia; incappò nel conflitto tra Stalin e Tito; si schierò dalla parte di Stalin; e subì sei anni di campi di lavoro forzato, dal febbraio 1950 all’ottobre 1956, tra Sušak, Sveti Grgur, Ugljan, Bileča e Stremska Mitrovica – i nomi sono meno celebri di Goli Otok, ma il regime di prigionia era altrettanto duro.
Della vicenda si conosceva ben poco: perché Emilio Cristian era riservato, e perché si trattava di un  uomo per il quale la militanza rasentava la ‘fede’. «Una fede ci è nata in cuor…» - come si cantava allora. A Luca Marin va il merito di aver restituito alla memoria di tutti noi il racconto della tragedia e il ricordo del compagno.
Io ho avuto una piccolissima parte in tutto questo. Sono, infatti e soltanto, l’autore del titolo: «Vita, ideali, anni di galera / di Milio Cristian comunista». Il titolo mi suonava (e mi suona) bene; un endecasillabo e un novenario, con tutti gli accenti giusti al posto giusto. Inoltre, è giusto anche come «contenuti»: infatti, dice in estrema sintesi, il percorso di vita di un comunista; e i drammi che vi sono narrati sono accaduti proprio perché si trattava di un comunista.
Comunista, insomma, non è una parola accidentale, in questo titolo.
E tuttavia ho avuto una lieve esitazione. Era opportuno stampare sul frontespizio di un libro la parola comunista, che oggi non è un aggettivo qualificativo, denotativo o connotativo, ma poco meno (o poco più) che un insulto? In fin dei conti, CjargneCulture deve anche vendere; o, per lo meno, rientrare nelle spese.
La mia esitazione è durata pochissimo; percepita appena, e con fastidio, e subito allontanata; e tuttavia c’è stata.
Così, ho deciso che alla sera della presentazione avrei chiarito a me stesso e agli intervenuti le ragioni di una perplessità che vent’anni prima non mi avrebbe nemmeno sfiorato; avrei raccontato non la storia del «comunismo» (non so farlo) ma la storia delle parole ‘comunista, comunismo’ (o, in friulano, cumunist) e delle varie accezioni che esse hanno avuto nei molti anni della loro durata, fino all’approdo «squalificato» di oggi.

1. Qualche anno dopo il 1550 (non sappiamo di preciso quando), alcune decine di contadini della zona di Latisana, Trivignano, Oderzo, Cinto Caomaggiore emigrarono, con le masserizie caricate sul carretto, con mogli figli e bestie, verso la Moravia, a Pouzdrany, Slavkov, Mikulov (allora, in tedesco, rispettivamente: Pausram, Austerlitz, Nikolsburg).
Emigravano per motivi di fede. Avevano aderito all’anabattismo: non ammettevano il battesimo degli infanti («et si battezano i grandi se bene sono stati battezati da picoli et quei che nascono là non si battezano se non quando sono grandi, perché dicono che bisogna che i sappino quel che fa bisogno»); non ammettevano la comunione tradizionale («et qui spezzano del pane et se ne dà un pezzetto per uno in mano et si mangia, dapoi un poco da bever et questo si fa in commemoration del signor Giesù Christo»); non obbedivano ad alcuna autorità, predicavano e praticavano un pacifismo totale, opponendosi all’uso delle armi; si aiutavano reciprocamente, attuando in concreto il comandamento cristiano dell’amore. Perseguitati come la più pericolosa delle sette - essere riconosciuti anabattisti, significava la certa condanna a morte, di solito per annegamento - da tutt’Europa gli anabattisti emigravano verso terre più ospitali, dove praticavano (o tentavano di praticare) la comunione dei beni; tra le poche terre disposte ad accoglierli, la Moravia.

«...Hanno detto che in quel paese sono certe chiese di ostralici, che si governano con gran carità et grande amore, et in questo loco a tutti è licito a viver secondo Christo et tegnir qual opinione li pare et piace senza spavento, et quelli che sono in qualche bisogno dalli fratelli sempre sono aiutati...»

Una delle prime attestazioni della parola «comunista» si trova in un testo religioso anonimo, ma di un anabattista anticomunitario, stampato in Polonia nel 1569, e scritto in latino. Il termine serviva a connotare le forme di vita dei Fratelli Moravi; ed era usato in accezione negativa.
(Quando, due secoli dopo, il termine ormai si era diffuso ed anche gli storici avevano cominciato ad usarlo - dunque a posteriori - esso servì a denotare per via analogica movimenti simili - o fondati su principi simili - come quello di Thomas Münzer e della guerra dei contadini - vedi il grande libro di Ernst Bloch; oppure quello degli «Zappatori», i Diggers, durante la rivoluzione puritana; oppure quello delle Reducciones dei gesuiti in Paraguay).
Dunque, «comunista» nasce come aggettivo qualificativo di matrice teologica. Il «comunismo» veniva invocato come un imperativo morale o religioso.

2. Poi, o prima, e a lungo, in molte lingue europee «comunista» serviva semplicemente a connotare ‘colui che gode dei beni comuni del villaggio’; non diversamente da «villano», ‘colui che vive in villa’, e da «borghese», ‘colui che abita il borgo’.
Chiunque ha familiarità con le carte d’archivio (atti notarili, processi, divisioni testamentarie, memoriali delle nostre antiche comunità) ha trovato il termine centinaia di volte, per definire semplicemente gli abitanti dei nostri paesi.
C’erano, anche nelle nostre ville, almeno tre modi di possedere: la proprietà privata, che riguardava la casa, e i piccoli prati e campi in taviela; la proprietà comune (non comunale, si badi bene), che era di tutti gli «originari» e riguardava le grandi estensioni di pascoli e boschi posseduti comunitariamente; e la proprietà feudale, sulla quale i «villani» avevano comunque diritti (d’uso, di legnatico, di pascolo, di compascuo, di raccolta di bacche e di frutti, eccetera).
Era proprio in quanto partecipi della proprietà comune, che gli abitanti del villaggio venivano definiti «comunisti».
La proprietà comune a noi sembra un’eresia, il frutto perverso di esperimenti malati, l’utopia malata dei comunisti. Ci sembra un disvalore. Dimentichiamo che è diventata un disvalore, a seguito di un lungo processo di denigrazione, di svalutazione, di svillanamento (è il caso di dirlo): è stata a lungo osteggiata, combattuta e soprattutto rosicchiata dai privati cittadini, e – per convenienza o per ideologia – dallo Stato (da qualsiasi Stato, si noti: qui da noi, da uno Stato ancien régime, come la Serenissima; dallo Stato sorto dalla volontà rivoluzionaria di combattere l’ancien régime, come il Regno d’Italia; da uno Stato che aveva come scopo la «restaurazione» degli antichi ordinamenti, come l’Impero asburgico; e buon ultimo, dallo Stato che nasceva dalla guerra all’«oppressore» asburgico, lo Stato italiano, regnicolo o repubblicano che fosse).
Così, per esempio, quando a Maddalena vedova di Sebastiano Candotto di Mione, nel 1804, fu tolto il diritto di godere dei privilegi degli originari in quella comune, si scrisse a verbale che Maddalena «fu cassata dal diritto di comunista».
E quando, con Sovrana Risoluzione 16 aprile 1839, il K. & K. ordinò l’alienazione dei beni comunali, gli abitanti di Forni di Sotto scrissero nelle loro petizioni: «I loro titoli irrefragabili assicuravano gli originari che nulla si sarebbe mai tentato contro di loro; ma purtroppo si avvidero dappoi del loro errore quando, a pretesto della tutela del Comune, si spogliarono i comunisti dei loro beni, si ridusse il proprietario in lavoratore prezzolato del proprio fondo».
Questi «comunisti» erano, con ogni evidenza, dei conservatori: tutelavano la tradizione e gli antichi ordinamenti; e tuttavia passavano «per sovvertitori e per rivoluzionari e che dovranno un giorno soffrire qualche gran dispiacere».
Porto un terzo ed ultimo esempio: sul Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana del 19 febbraio 1861 comparve una memoria dal titolo: «I boschi della Carnia, il Tagliamento e il basso Friuli». Lo scritto è anonimo; ma, data la sede di stampa, di non equivoco indirizzo di pensiero. Il passato regime boschivo è così descritto: «Quando poteasi utilizzare un bosco che non fosse occorso agli speciali bisogni dei comunisti proprietari, gli uomini del Comune lo alienavano in quel modo che fosse tornato il più acconcio agli interessi di tutti»; il presente, così: «Privato il comunista della compartecipazione degli utili, esso cangiò la divisa di guardia in quella di contrabbandiere...»; ed i rimedi, così: «Vorrei che si dividessero i boschi del Comune in due parti; l’uno a pro dei singoli comunisti, l’altro a provvedere ai bisogni del Comune».
Al giorno d’oggi, in Carnia (e in Friuli e in tutt’Italia) ci sono ancora delle «proprietà comuni», quelle che hanno resistito ai tentativi di annientamento dell’ente che le dovrebbe tutelare, l’«Ente per la liquidazione degli usi civici». In questo senso, in Carnia al giorno d’oggi ci sono ancora dei «comunisti»: i comunisti di Tualis, di Liariis, di Ovasta, di Forni di Sotto, di Zovello, di Priola, di Fielis...; e poi, in Carso, i comunisti delle Jusov / Srenj, le comunelle; e, in Friuli, i comunisti di Bressa, di Carlino, di Villanova di San Giorgio di Nogaro, delle lagune...; e poi, in Italia, i comunisti delle Regole cadorine, della Reggenza dei Sette Comuni (sull’altipiano di Asiago)...; e poi, nel mondo, le terre collettive dei Mapuche della Patagonia...

3. Col significato di ‘sostenitore della comunione dei beni’, il termine «communiste» veniva usato anche in Francia, per esempio da Restif de la Bretonne (forse ricorderete i suoi romanzi, un tantino scollacciati, ma così utili per capire il mondo degli amori contadini) nel 1785; ma nel 1797 lo stesso Restif attribuiva a «communisme» un altro significato: quello di ‘miglior forma di governo’. Non la ‘miglior forma di governo’ per la Francia, beninteso; bensì ‘miglior forma di governo’ per gli indigeni d’America, dai quali era praticato spontaneamente; dunque, soltanto in senso etnologico ed esotico, nonché polemico nei confronti dell’appropriazione indebita del termine da parte dei gesuiti (e dei loro esperimenti di «comunismo» nelle Reducciones).
Intanto compariva un’altra parola, destinata a sovrapporsi, a coincidere, a sostituire, a collidere col «comunismo» e con i «comunisti»: il nome «socialismo» e l’aggettivo «socialista».
Noi carnici dovremmo conoscere il monaco benedettino Anselm Desing, lo spericolato architetto dell’osservatorio astronomico di Kremsmünster, che principiò a costruire nel 1749 come «Torre del Tempo» o «Torre Matematica», e che si sgretolò crollando fragorosamente al suolo nel 1755 (ma Desing lo reinnalzò dalle fondamenta, e da allora - 1759 - è lì, coi suoi nove piani e le ricche collezioni di storia naturale disposte nelle sale combinando simbolo, ascensione/ascesi e mnemotecnica - dalla geologia al pianterreno alla teologia sul colmo del tetto).
Desing è, infatti, l’autore degli Auxilia storica, oder Historicher Behülff… in cui è contenuta una delle testimonianze letterarie più antiche sull’emigrazione nei paesi tedeschi dei nostri cramari, i materialisten della Carnia: «... in Baviera e nelle regioni contermini non vi era borgo o centro con diritto di mercato dove un italiano, o un cosiddetto ‘materialista’, non si fosse stabilito per attendere al suo traffico».
In un altro suo libro, Juris naturae larva detracta compluribus libris sub titulo juris naturae prodeuntibus..., pubblicato a München nel 1753, se la prendeva con i Pufferdorfianis, Heineccianis, Wolffianis et aliis... (vale a dire i seguaci delle dottrine giusnaturaliste di Pufendorff, Heinecke, Wolff). Costoro ardivano pensare che gli uomini vivessero in società non perché ispirati dalla religione cristiana e dal diritto divino, ma grazie all’esistenza di una legge di natura: pensavano che il contratto politico tra gli uomini fosse dovuto a quegli stessi uomini che lo pattuivano, che si facevano così artefici del proprio destino. Li incolpava di anteporre l’interesse della società ai valori dello spirito.
Desing li chiamava, spregiativamente, «socialistae»: «Naturales socialistae nequidem quid eorum causae intersit intelligunt».
Nel 1764, un altro frate, il corfiota Ferdinando Facchinei, usò il termine come sinonimo di seguace di Rousseau. Quell’anno era comparso sulle bancarelle veneziane un libro sovversivo, e peggio che sovversivo, e cioè Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria: uno che credeva (anche lui!) all’origine contrattualistica di una società di uomini liberi ed uguali; un illuso; e un terribile sovvertitore - insomma, un socialista:
«Egli è della più assoluta certezza che non v’è mai stata nel nostro globo una società perfetta che sia stata formata originariamente dal consenso espresso e determinato di uomini liberi, conforme se l’immagina il nostro autore, e sfido tutti i socialisti, e chiunque altro, che mi trovino un solo esempio in tutte le storie e in tutti gli annali del mondo di società formate in quella maniera…»
Insomma, il termine aveva una circolazione nei monasteri e nelle università, non solo in Italia, ma in Germania, in Francia. Ma non aveva una precisa connotazione «politica».
Rispuntò in Inghilterra nel 1822, non più per indicare i seguaci del giusnaturalismo di Pufendorff, ma tra i seguaci del cooperativismo collettivista di Robert Owen, in antitesi ai valori dell’individualismo degli economisti liberali. Il termine socialist comparve nelle pagine di The Cooperative Magazine and Monthly Herald e nei resoconti delle vertenze giudiziarie; trapassò poi a Lausanne, discusso nella rivista evangelica Le Semeur; nei giornali francesi, La Réforme industrielle ou le Phalanstère, L’ami de la Charte, Le Bloisois; e nel 1834 sulla Révue Encyclopédique Pierre Leroux pubblicò un articolo famoso, dove la parola socialisme era usata come sinonimo di quel ‘principio cooperativo’ che doveva redimere la società, diventata una «mischia paurosa, dove i più soccombono».

Infine «comunista» ricompare, nel romanzo subito celeberrimo di Etienne Cabet, Viaggio in Icaria, che racconta la spedizione di Lord William Carisdale in un mondo liberato dal lavoro, in cui il dilettevole viene dopo l’utile, e l’utile dopo il necessario; nel quale - aboliti i negozi - lo Stato provvede a tutto, compresi i cappellini con la veletta ed i profumi. Una frase di questo romanzo divenne proverbio e slogan: «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue possibilità» (ma non era originale: c’era già nella Città del Sole di fra Tommaso Campanella); libro e frase ebbero enorme successo; il movimento «icariano» raggiunse dimensioni di tutta consistenza, epicentro Lyon; anche gli «icariani» (come gli oweniani a New Harmony) tentarono la traduzione in pratica dei principi teorici, e alla vigilia del fatidico Quarantotto, un gruppo di loro partì per il Texas, a fondare la città ideale.

Nel 1848 esce il Manifesto dei comunisti di Karl Marx e Friedrich Engels, col suo incipit subito celeberrimo:
«Uno spettro s’aggira per l’Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi»;
e il suo celeberrimo finale:
«I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.
Proletari di tutti i paesi unitevi!»

La parola «comunista» vi era usata in polemica con le concezioni del socialismo utopistico, contro quelli che «cercano di smussare di nuovo la lotta di classe, e di conciliare gli antagonismi», che «continuano sempre a sognare la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, l’istituzione di singoli falansteri, la fondazione di colonie in patria, la creazione di una piccola Icaria - edizione in dodicesimo della nuova Gerusalemme - e per la costruzione di tutti questi castelli in Ispagna debbono far appello alla filantropia dei cuori e delle borse borghesi».
Il progetto di auto-emancipazione dei lavoratori passava per altre strade, sostenevano Engels e Marx; e queste strade erano meglio descritte dal nuovo termine «comunista».
Ma c’erano anche - come dire - delle «precisazioni terminologiche»; si trovano nella Critica del programma di Gotha (scritto da Marx nel 1875, ma pubblicato solo nel 1891); e riguardano lo Stato. Sosteneva Marx:
Nel sistema capitalistico lo Stato è il «Comitato d’affari» della borghesia e agente dell’oppressione del proletariato («il potere politico è il potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra»), ed è chiamato a gestire la contraddizione intrinseca tra sistema sociale e forze produttive; a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione, della scarsità di beni e della lotta di classe - a causa, insomma, delle imperfezioni del sistema sociale.
Il socialismo è quella fase dello sviluppo in cui la contraddizione tra sistema sociale e forze produttive viene superato; in questa fase lo Stato non può essere altro, e sia pure transitoriamente,  che la dittatura del proletariato.
Ma con la scomparsa delle imperfezioni sociali; con la scomparsa dell’alienazione, prodotto della divisione del lavoro e dello sfruttamento; con l’abbondanza dei beni, anche lo Stato «si estingue», di esso non c’è più necessità; si re-instaura la primitiva innocenza dell’uomo e si dissolve il mondo presente. Questo è il «comunismo».
(Come milioni di persone - compreso chi scrive - abbiano potuto credere a queste sciocchezze come a dei dogmi «scientifici», è un mistero; tuttavia, la prospettiva escatologica e millenaristica di Marx è uno dei tratti più affascinanti di quest’ebreo senza ebraismo e di questo comunista senza marxismo: je ne suis pas marxiste - diceva Marx; lo diceva in più lingue, o almeno così ci è stato tramandato; in tedesco lo diceva così: «Ich kann nur eins sagen, daß ich kein Marxist bin…»).
Dopo il 1852, il termine comunista passò rapidamente di voga; e nel 1894 l’ormai vecchio Engels, in una lettera a Kautsky, lo considerava «incomprensibile». Era tornato in auge il termine socialista, aggettivo qualificativo dei nomi che si davano ai partiti operai, di solito coniugato con «democratico»: che si chiamavano, dunque, «Partiti socialdemocratici».

5. E «socialdemocratico» era il nome del partito «bolscevico» (cioè, «maggioritario») che conquistò il potere in Russia nel 1917, e che soltanto nel 1918 cambiò il nome in «Partito comunista». (Un amico mi ricorda che Lenin scelse la denominazione di «comunista» proprio per rimarcare la distanza da quei partiti - i partiti socialdemocratici europei, e principalmente quello francese e tedesco - che avevano votato i crediti di guerra:
«Noi dobbiamo chiamarci partito comunista… Bisogna tener conto della situazione oggettiva del socialismo nel mondo intero. Essa non è più quella che era nel 1871-1914, quando Marx ed Engels si rassegnavano scientemente alla parola opportunista e falsa di “socialdemocrazia”… La necessità oggettiva del capitalismo trasformatosi in imperialismo ha generato la guerra imperialista. La guerra ha condotto l’umanità intera sull’orlo del baratro, alla rovina di ogni cultura, all’abbrutimento e alla morte di milioni di uomini, milioni senza numero. Non c’è via d’uscita, all’infuori della rivoluzione del proletariato. È tempo di gettare via la camicia sudicia, è tempo di mettersi della biancheria pulita».
Dunque: Partito comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Pcus).
La Rivoluzione di Ottobre fu uno spartiacque, per la parola e anche per la «cosa»; e anche chi si limita a raccontare le vicende della parola, non può dimenticare il dolore e il sangue di cui la cosa si impregnò in quegli anni: gli anni dell’abbandono della Nep e della collettivizzazione forzata delle campagne; gli anni dell’internazionalismo ridotto a puro artifizio retorico e della costruzione del «socialismo in un solo paese»; gli anni della «ežòvščina», dopo l’assassinio di Kirov, delle «purghe», dei gulag; gli anni, insomma, dell’autocrazia sanguinaria di Giuseppe del fu Vissarion Giugasvili, Koba il terribile, Acciaio Stalin.
Pochi traguardi e molti massacri; e poiché una parola si pronuncia con rispetto o con orrore, adesso era arrivato il tempo dell’orrore, se si fosse saputo; ma troppi non sapevano, e quelli che sapevano non parlavano, e quelli che parlavano non venivano creduti.
Era venuto in voga uno strano accoppiamento, per nulla giudizioso: l’accoppiamento del termine socialismo col termine realtà. Non stava a significare che in Urss il socialismo fosse diventato realtà; ma, e soltanto, che ci si doveva accontentare, nella realtà, del socialismo che c’era (il socialismo reale); e, in arte, di quel che ordinava il convento, e Zdanov suo padre priore, il realismo socialista.
Quel fenomeno criminale obliterò tutto, si gonfiò fino ad oscurare il sole - il sole dell’avvenire, e ogni altro principio di illuminazione, di comprensione e di distinzione. Quando implose e si afflosciò; quando le «cortine» si rivelarono per quel che erano (latta insofferenza piombo e polizia); e i muri per quel che erano (malta fracida viltà e corruzione) - nella notte che ancora adesso dura, tutte le vacche divennero nere.

6. Oggi - mentre più subdoli ma altrettanto feroci autocrati sono diventati campioni di libertà e di democrazia; e la parola «socialista» è termine così vacuo da designare indifferentemente chi taglia il welfare, chi bombarda la Serbia e chi aggredisce l’Iraq; e il dileggio e l’insulto investono il nemico finito e dissolto - oggi l’asino dà il calcio al vecchio leone.
L’asino dichiara legittima soltanto la sua ideologia; anzi, afferma che non ci sono più ideologie, cosicché viviamo in un mondo «naturale», che è «naturalmente» liberale; e ricorda i crimini altrui soltanto per poter meglio perpetrare i suoi.
Raglia, tronfio e sonoro, tra scoppi di mine anti-uomo e fragore di bombe intelligenti, tra guerre per il petrolio, genocidi, massacri e morti per denutrizione. Gabella per conquiste graduali ritardi insopportabili. Presenta oppressioni indicibili come gli inevitabili cascami del nobile meccanismo. Compatisce truffe colossali, e anche planetarie, quali imprevedibili deviazioni da una norma trionfalmente «razionale» - anzi, l’unica norma che c’è. Insozza la terra, prosciuga i fiumi, sommerge i villaggi, in un delirio di fatua onnipotenza. Ingrassa l’occidente già obeso, e rapina i morti di fame.
Tutti coloro che ieri si indignavano per il «Partito unico», oggi plaudono giocondi al Candidato Unico, e chiedono invidiosi all’amico Vladimir come si fa ad ottenere il 70% dei voti. Tutti coloro che ieri (giustamente) si indignavano per l’invasione della Cecoslovacchia di Dubcek, oggi plaudono all’altrettanto illegale invasione dell’Iraq di Saddam, senza un dubbio.
Il calcio finale dell’asino al vecchio leone è dunque questo: le parole «comunista, comunismo» non indicano più un futuro, temuto o auspicato, ma sono ridotte, soltanto, a dire di un passato totalitario e insieme di una Traumfabrick – una fabbrica di sogni presto trasformati in incubi.
Allora - non per giustificare, ma per capire - allora, caparbiamente, noi re-impareremo tutte le declinazioni di quelle parole...

7. Ma la parola non rimanda soltanto alla cosa - anzi, come si è visto: alle cose; rimanda, inevitabilmente, alle persone che quelle cose hanno pensate, e poi sillabate, e infine proclamate.
Così, mentre cerco documenti e libri per raccontare la parola, come mi sono proposto, ed accompagnare il ricordo di Emilio Cristian e il libro di Luca Marin, una folla di compagni, che non vedevo più da tempo, esce dall’ombra; sono ormai nella stanza, mi attorniano; sono scesi dalla soffitta, sono sgusciati dal cartolare, chiamano dalla libreria. Si fanno avanti; chiedono perché sono stati così a lungo scordati; alzano le braccia.
La loro voce, all’inizio, è flebile; ma diventa a mano a mano più forte; la loro figura è indistinta all’inizio; ma diventa a mano a mano più chiara.

Così mi viene incontro il curato Jean Meslier. È il 1729; sente avvicinarsi la fine. Perciò si affretta a vergare il suo Testamento, trecento pagine fitte fitte. Quando l’ha terminato, lo ricopia, una, due, tre volte, a mano; lo consegna ad amici fidati; raccomanda di farlo circolare in segreto. Vuol far sapere ai suoi parrocchiani di Etrépigny che, in quarant’anni di ministero pastorale, è diventato ateo, anticlericale, e comunista avant-lettre. Ha scoperto che le religioni sono il travestimento dell’inganno e dello sfruttamento di padroni e preti:
«Costoro, col pretesto di darvi beni spirituali di una grazia e di un favore interamente divino, vi rapinano con destrezza dei vostri beni temporali, che sono incomparabilmente più reali e più solidi di quelli che fanno finta di volervi dare. Costoro, col pretesto di volervi condurre in cielo e di procurarvi un’eterna felicità, vi impediscono di godere tranquillamente di qualsiasi vero bene sulla terra. Costoro, infine, vi riducono a soffrire nell’unica vita che avete, le pene ben reali di un vero e proprio inferno, col pretesto di volervi garantire e preservare, in un’altra vita che non esiste affatto, dalle pene immaginarie di un inferno che non c’è per nulla, più di quanto non esista quell’altra vita eterna sulla quale alimentano - vanamente per voi, ma non inutilmente per loro - i vostri timori e le vostre speranze».

Se i contadini vogliono diventare artefici del proprio destino, debbono fare la rivoluzione, e mettere in comune i beni e le terre, parrocchia per parrocchia:
«Sollevatevi, unitevi contro i vostri nemici, contro coloro che vi riempiono di miseria e di ignoranza. Rifiutate del tutto le vane e superstiziose pratiche delle religioni. Non prestate fede alcuna ai falsi misteri, burlatevi di tutto quello che i preti interessati vi dicono, perché sta in questo la causa funesta e vera di tutti i vostri mali. La vostra salvezza è nelle vostre mani, la vostra liberazione non dipende che da voi, perché è soltanto da voi che i tiranni traggono la loro forza e la loro potenza... Unitevi dunque, o popoli! Unitevi, se avete ardire, per liberarvi delle vostre comuni miserie».

Mi viene incontro Franz Heinrich Ziegenhagen. Abita due case, che mi sono sembrate a lungo lontane e separate. Abita le note sontuose, solenni, commosse, inarrivabili della Kleine Teutsche Kantate per voce e pianoforte Kv 619 Die ihr des unermeßlichen Weltalls Schöpfer ehrt di Wolgang Amadé Mozart, del 1791, della quale ha composto il testo. È un lungo inno alla tolleranza e alla fraternità:
«Datevi la mano fraterna dell’eterna amicizia
che solo l’errore – e mai la verità – vi ha così a lungo sottratto.
Rompete le catene di questa follia!
Strappate il velo di questo pregiudizio!
Spogliatevi della veste che impedisce all’umanità
Di vedere il maleficio della superstizione!
Il ferro che ha sparso finora il sangue degli uomini e dei fratelli
viene riforgiato in lama di aratro!
Fate scoppiare la roccia con la polvere nera
che spesso ha diretto il piombo
nel cuore del fratello uccidendolo»

Ed abita un’altra casa, che per lungo tempo ho creduto stesse in qualche contrada di qualche capitolo dell’Ideologia tedesca. O dell’Antidhüring. Ma ricordavo male. E dunque dove ho letto la storia di questo ricco commerciante di Strasburgo, affiliato agli Illuminati di Baviera, fondatore a Salzburg di comunità di «amici della natura», sostenitore dell’emancipazione femminile, delle rivendicazioni salariali e dell’acculturazione dei poveri? Dove ho letto dell’acquisto di Billwärder, la grande tenuta presso Hamburg, per fondarvi - era il fatale 1789 - una comunità contadina, retta da criteri di eguaglianza economica e sociale, che non prevedeva la proprietà privata? E dove ho letto della tragica bancarotta, della vendita di Billwärder, della fuga precipitosa, e della sua morte misteriosa (un suicidio?) a Steinthal, tra le dolci colline di Alsazia?
(Le due case, ad ogni modo, erano comunicanti; ed è soltanto perché abbiamo a lungo venerato il santino di marzapane propinatoci dai bottegai della Salzach che non lo sapevamo).

Mi viene incontro Robert Owen nella notte gonfia di attese e di sfide del primo gennaio 1800: sta per inaugurare New Lanark, la fabbrica tessile modello, con i macchinari più moderni, gli alti salari, le abitazioni salubri per gli operai, l’asilo infantile per i loro figli (il primo d’Inghilterra). È un eroe di Charles Dickens; un Adriano Olivetti di duecent’anni fa; un indomito fondatore di «colonie» che regolarmente falliscono e che caparbiamente rifonda, poiché quest’«uomo dal carattere di fanciullo, semplice sino al sublime e, ad un tempo, dirigente nato come pochi» non sa arrendersi allo scacco della realtà: e sono New Harmony nell’Indiana, Orbiton in Scozia, Ralahine in Irlanda, Queenswood nell’Hampshire. Lo guardo mentre scrive fervido, al lume della lampada a olio, l’idea inusitata e inconcepibile (e che difatti la signora Brichetti ancor oggi non riesce a concepire):
«nelle nostre fabbriche, che sono tutte più o meno nocive per la salute, si fanno lavorare bambini piccolissimi. Li si condanna alla ripetizione di un interminabile e invariabile lavoro al chiuso, in un’età in cui il loro tempo dovrebbe essere spartito esclusivamente tra salubri esercizi all’aria aperta ed educazione scolastica. In tal modo… si blocca e si paralizza tanto la loro forza intellettuale, quanto quella fisica, invece di permettere il corretto e naturale sviluppo; mentre, intorno a loro, ogni cosa cospira a rendere depravato e pericoloso il loro carattere morale».

mentre «con una giudiziosa educazione i bambini di qualsiasi classe sociale possono diventare in breve tempo uomini appartenenti a qualsiasi altra classe.»

Mi viene incontro Georg Büchner, col viso scavato dal tifo. Non è (ancora) l’autore del Woyzzek, di La morte di Danton, di Leonce e Lena. È soltanto uno studente di medicina di vent’anni; ha da poco fondato, tra Gießen e Darmstadt, la «Gesellschaft der Menschenrechte»; ammira Robespierre, Babeuf, Filippo Buonarroti; prova compassione per gli umani e per gli strani meccanismi che li governano, ira per i potenti che li opprimono. È soltanto un giovanissimo agitatore sociale con gli sbirri del margravio alle calcagna, un febbricitante Messaggero nelle campagne dell’Assia:
«Pace alle capanne! Guerra ai palazzi! ... La vita dei nobili è una lunga domenica: abitano in belle case, portano vesti eleganti, hanno facce ben pasciute e parlano una lingua raffinata; il popolo, però, giace innanzi a loro come letame sul campo. Il contadino va dietro all’aratro; il nobile, però ... si prende il grano e gli lascia gli stocchi. La vita del contadino è una lunga giornata di lavoro; estranei gli mangiano i campi davanti agli occhi, il suo corpo è un callo, il suo sudore è sale sulla tavola del nobile.»

Mi viene incontro, col suo passo altero e dolente, sprezzante e definitivo, i pugni stretti nelle tasche sfondate, il vagabondo dalle suole di vento. È scappato dalla sua casa nelle Ardenne ormai per la terza volta, in questa primavera parigina di ciliegie e di bombarde, in questo anno di grazia e di massacro 1871. Ha diciassette anni nemmeno compiuti, Rimbaud il ribaldo; mira dritto al cuore dell’ardente segreto delle cose, piscia verso i cieli bruni con una parabola molto alta e molto lontana, col consenso convinto dei grandi girasoli (avec l’assentiment des grandes héliotropes); celebra in versi adirati e inteneriti le mani delle pétroleuses, le donne della Commune, le combattenti delle barricate:
«Le dos de ces Mains est la place
Qu’en baisa tout Révolté fier!
Elles ont pâli, merveilleuses
Au grand soleil d’amour chargé,
Sur le bronze des mitrailleuses
À travers Paris insurgé.»

Mi viene incontro trascinando i piedi, nell’interminabile fila davanti alla prigione dei Krestý di Leningrado, Anna Achmàtova. Porta la sua pena e il suo pacco con i 15 rubli quotidiani al figlio Lev Gumilëv, incarcerato con un’accusa qualunque, o forse senza accusa. Se le rifiuteranno il pacco alla guardiola, significherà che il giorno avanti Lev è stato fucilato. Sta in fila da diciassette lunghissimi mesi, ogni giorno: questo accadeva
«… allorché a sorridere
era solo chi è morto - lieto della sua pace.
E, appendice inutile, si sbatteva
Leningrado intorno alle sue carceri.
E allorché, impazzite di tormento
condannate ormai, andavano le schiere
e i fischi delle locomotive cantavano
una breve canzone di distacco.
Stelle di morte incombevano su di noi  
e innocente la Russia si torceva  
sotto stivali sanguinosi  
e copertoni di neri cellulari.»

Mi viene incontro Secondo Tranquilli, poi - in clandestinità e in arte - Ignazio Silone. Batte con la Remington sui fogli carta-riso la sua lucida testimonianza di militante inorridito dalle trappole di Mosca, la ricerca della sua uscita di sicurezza:
«La mia fiducia nel socialismo (di ciò, oso dire, testimonia la mia condotta successiva) mi è rimasta più viva che mai. Nel suo nucleo essenziale essa è tornata ad essere quella che era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un’affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l’opprimono. Col passare degli anni vi si è aggiunto un reverente sentimento verso ciò che nell’uomo incessantemente tende a sorpassarsi ed è alla radice della sua inappagabile inquietudine...»

E, naturalmente, mi viene incontro il ragazzo confuso e un po’ eccitato che, negli anni Settanta, incontrava per la prima volta tutte queste persone e i loro sogni - assieme ai suoi compagni, ragazzi confusi e un po’ eccitati come lui; e bevevano i loro racconti e le loro teorie, e anche molto e pessimo vino; distinguevano, sottolineavano, discutevano, litigavano, si turbavano, in un’allegra baraonda di ardimento, di esperimenti, di delusioni; in una nuvola d’ira e di indignazione.
Certo, vi era anche una non trascurabile componente di vigliaccheria intellettuale; un persistente relegare tra le rimozioni i 30 milioni di morti dell’industrializzazione forzata, i deportati dei Gulag,  i 40 milioni di morti del Grande Balzo; certo, troppo presto vennero inghiottite le lacrime amare di agosto (1968) sulla sorte di Praga, e le lacrime di gennaio (1969) sul rogo di Václavské Námeští, e le lacrime di dicembre (1970) sugli assassinati ai cantieri di Gdansk…; e troppo presto abbiamo accettato le frottole dei «critici letterari» su Solgenitsin campione della reazione internazionale, e non invece grande scrittore, com’era - anche se i suoi libri stavano lì a testimoniarlo, sotto i nostri occhi, Una giornata di Ivan Denisovic, Il primo cerchio, Divisione cancro, e si leggevano e ci appassionavano e ci turbavano.
E via così, anno dopo anno, viltà dopo viltà.
Non è rammarico: è un’irrimediabile colpa non aver dato alle vittime di là la stessa solidarietà che si dava alle vittime di qua; non aver dedicato alla sorte degli oppressi del mondo in cui speravamo gli stessi puntuti pensieri che si dedicavano alla sorte degli oppressi del mondo in cui ci trovavamo.
Anche loro, e altri ancora, vengono avanti; tutti portano una storia, una fatica, un pensiero; tutti chiedono ascolto, attenzione e - se è possibile - un giudizio non sommario.
Non dobbiamo lasciare che questi volti sbiadiscano, e poi svaniscano sul fondo dello specchio, sul fondo del secchio, o del tempo.
Fintantoché possiederemo queste memorie, ricorderemo questi uomini, e ricorderemo quel che pensarono e quel che dissero, chi li piegò e che cosa li spezzò; fintantoché avremo memoria di coloro che per i loro sogni hanno combattuto e sono caduti; allora difficilmente potrà succedere che - in questo prolungato crepuscolo della ragione - tutte le vacche continuino ad essere nere.

Ho citato:

Anonimo, I boschi della Carnia, il Tagliamento e il basso Friuli, «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», 19 febbraio 1861, pp. 53-55.

Anna Achmàtova, Poema senza eroe e altre poesie (traduzione di Carlo Riccio), Giulio Einaudi Editore, Torino 1966. I versi sono tratti dall’Introduzione alla raccolta Requiem.

Stefano Barbacetto, “Tanto del ricco, quanto del povero”. Proprietà collettive ed usi civici in Carnia tra Antico regime ed età contemporanea, Edizioni del Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia, Cercivento 2000.

Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, (traduzione italiana periclitante di Simona Krasnovky e Stefano Zecchi), Feltrinelli, Milano 1980.

Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, Bruno Mondadori, Milano 2005.

Georg Büchner, Opere (versione italiana, note e appendici di notizie sull’autore e sulle opere di Giorgio Dolfini), Adelphi, Milano 1963. (Il Messaggero Assiano è datato: «Darmstadt, luglio 1834»).

Étienne Cabet, Viaggio in Icaria (traduzione italiana di Roberto Tumminelli), Guida editore, Napoli 1983.

Anselm Desing, Juris naturae larva detracta compluribus libris sub titulo ‘Juris naturae’ prodeuntibus, ut Puffendorfianis, Heineccianis, Wolffianis etc. aliis, quorum principia juris naturae falsa ostenduntur, Monachii apud Joannes Urbanus Gastl, 1753.

Vladimir Ilić Ulianov Lenin, Progetto di piattaforma del partito del proletariato, in Id., Opere scelte, Mosca 1948, vol. II, pag. 36.

Luca Marin, Vita, ideali, anni di galera di Emilio Cristian comunista, CjargneCulture, Cercivento 2004.

Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista (traduzione italiana di Emma Cantimori Mezzomonti) Einaudi, Torino, 1998; questa nuova edizione reca un’introduzione di Lorenzo Riberi, ed una splendida postfazione di Bruno Bongiovanni - in copertina erroneamente: ‘Bongioanni’, a dire lo scadimento di livello editoriale della casa editrice torinese - che è servita da guida per buona parte di queste note - salvo che Bongiovanni racconta infinitamente meglio).

Jean Meslier, Textes, extraits du Mémoire et des Lettres aux curés du voisinage (a cura di R. Desné), Millau, Paris 1973.

Robert Owen, Per una nuova concezione della società [1813], Laterza, Bari 1971.

Giovanna Paolin, I contadini anabattisti di Cinto, «Il Noncello», 50 (1980), pp. 91-124.

Barbara Richter, Franz Heinrich Ziegenhauer. Leben, Werk und Wirken eines engagierten Kaufmanns und Philanthropen im Zeitalter der Aufklärung, Lit-Verlag, Münster - Hamburg 2003.

Arthur Rimbaud, Oeuvres / Opere (a cura di Ivos Margoni), Feltrinelli, Milano 1964 (i versi sono tratti da Les mains de Jeanne-Marie: «È sul dorso di queste mani / che ogni fiero Ribelle ha posto un bacio. // Esse sono impallidite, meravigliose / al gran sole carico d’amore / sopra il bronzo delle mitraglie / attraverso Parigi insorta»).

Ignazio Silone, Uscita di sicurezza, Vallecchi, Firenze 1965.

Giorgio Spini, Sulle origini dei termini “socialista” e “socialismo”, «Rivista Storica Italiana», 3 (1993), pp. 679-697.

Franco Venturi, Contributi ad un dizionario storico. “Socialista” e “socialismo” nell’Italia del Settecento, «Rivista Storica Italiana», I (1963), pp. 129-140.


Questo scritto coltissimo, accorato e brillante non è condivisibile quando l'amico - e compagno, naturalmente - Giorgio afferma che "come milioni di persone - compreso chi scrive - abbiano potuto credere a queste sciocchezze come a dei dogmi «scientifici», è un mistero." Che sia un fenomeno di non facile decifrazione è fuori di dubbio, e questo stesso sito - con le sue pagine dedicate alla storia del movimento operaio, al PCI, al marxismo, allo stalinismo - è appunto un tentativo di mettere a fuoco le tante, inevitabili, contraddizioni che hanno segnato la lotta dei comunisti.

Giorgio ci ha lasciato nel novembre 2007.