John Reed

Dieci giorni che sconvolsero il mondo

2. La tempesta si avvicina


In settembre il generale Kornilov marciava su Pietrogrado con l'intenzione di proclamarsi dittatore militare della Russia. Si riconobbe presto dietro di lui il pugno ferrato della borghesia, pronto ad abbattersi sulla rivoluzione. Alcuni ministri socialisti erano compromessi; lo stesso Kerenski era sospettato. Savinkov si rifiutò di dare le spiegazioni richiestegli dal Comitato centrale del partito S.R. al quale apparteneva. Fu espulso dal partito. Kornilov fu fermato dai Consigli dei soldati. Parecchi generali furono licenziati dall'esercito. Alcuni ministri furono sospesi dalle loro funzioni: il ministero cadde.

Kerenski tentò allora di formare un nuovo governo comprendendovi il partito borghese dei cadetti. Il partito S.R. di cui egli era membro, gli ordinò di escludere i cadetti. Si rifiutò di obbedire, minacciando di dare le dimissioni se i socialisti insistevano. L'esasperazione popolare era però tale, che egli esitò allora ad urtarla direttamente. Un Direttorio, composto di cinque degli ex ministri e presieduto da Kerenski stesso, assunse allora il potere.

L'affare Kornilov riunì tutti i gruppi socialisti, i «moderati» come quelli veramente rivoluzionari, in uno stesso slancio di difesa. Dei Kornilov non se ne volevano più. Si voleva un nuovo governo, responsabile davanti agli elementi che sostenevano la rivoluzione. Lo Tzik invitò dunque le organizzazioni popolari a mandare dei delegati ad una Conferenza democratica che doveva riunirsi a Pietrogrado in settembre.


Tre frazioni si manifestarono presto nello Tzik. I bolscevichi domandavano le riunioni del Congresso panrusso dei Soviet e la presa del potere da parte di questi ultimi. Il «centro» S.R., sotto la direzione di Cernov, fece blocco coi S.R. di sinistra, guidati da Kamkov e dalla Spiridonova, coi menscevichi internazionalisti, guidati da Martov e con il centro menscevico, rappresentato da Bogdanov e da Skobelev, reclamando un governo puramente socialista; Zeretelli, Dan, e Liber, alla testa dell'ala destra menscevica, insistevano, con Avxentiev e Gotz, rappresentanti i S.R. di destra, sulla necessità della partecipazione delle classi possidenti al nuovo governo.

Quasi subito i bolscevichi conquistarono la maggioranza nel Soviet di Pietrogrado e ben presto fu così anche nei Soviet di Mosca, di Kiev, di Odessa e di altre città.

Allarmati, i menscevichi e i S.R., che dominavano nello Tzik, pensarono che in fondo Kornilov era meno pericoloso di Lenin. Essi modificarono dunque la ripartizione dei delegati alla Conferenza democratica, aumentando il numero dei rappresentanti delle società cooperative e delle organizzazioni conservatrici. Ma, anche dopo questa fabbricazione di deputati, l'Assemblea votò per un governo di coalizione, senza i cadetti. Solamente in seguito alla minaccia di dimissioni di Kerenski e davanti alle grida d'allarme dei socialisti «moderati», che dichiaravano la repubblica in pericolo, la Conferenza finì per pronunciarsi, con una debole maggioranza, in favore del principio della coalizione con la borghesia e per approvare la costituzione di una specie di Parlamento consultivo. Sorse così il Consiglio provvisorio della repubblica russa. Nel nuovo ministero le classi possidenti ebbero, di fatto, il potere. Al Consiglio della Repubblica esse ebbero un numero di seggi del tutto sproporzionato.

Di fatto lo Tzik aveva cessato di rappresentare realmente i Soviet. Si era illegalmente opposto alla convocazione del nuovo Congresso panrusso dei Soviet che avrebbe dovuto riunirsi in settembre. Non pensava affatto né a riunire il congresso né ad autorizzarne la convocazione. Il suo giornale ufficiale, Izvestia (Le notizie), lasciava anche comprendere che l'attività dei Soviet stava per finire e che presto si sarebbe potuto scioglierli. Difatti il nuovo governo annunciava, come uno degli articoli dei suo programma, la liquidazione delle «organizzazioni irresponsabili», cioè dei Soviet.

I bolscevichi risposero convocando i Soviet a Pietrogrado per il 2 novembre ed invitandoli a prendere il potere. Nello stesso tempo si ritiravano dal Consiglio della Repubblica, dichiarando di non voler far parte di un governo che tradiva il popolo.

Ma il disgraziato Consiglio non ebbe pace neppure dal fatto che i bolscevichi ne erano usciti. Le classi possidenti, ormai in condizioni di agire, divennero arroganti. I cadetti dichiararono che il governo non aveva legalmente il diritto di proclamare la repubblica in Russia. Essi reclamavano dei provvedimenti severi contro i Consigli dei soldati e dei marinai e lanciavano ogni sorta di accuse contro i Soviet. Dall'altra estremità dell'Assemblea i menscevichi internazionalisti e i S.R. di sinistra domandavano la conclusione immediata della pace, la consegna della terra ai contadini, il controllo operaio sull'industria… cioè il programma bolscevico.

Ero presente durante la risposta data da Martov ai cadetti. Mortalmente colpito dalla malattia, con una voce che non era più che un soffio, egli diceva, curvo sulla tribuna ed agitando il dito verso i banchi della destra:

"Voi ci chiamate disfattisti. Ma i veri disfattisti sono coloro che attendono un momento più favorevole per concludere la pace, che vogliono rinviare la pace a più tardi, quando nulla più resterà dell'esercito, quando la Russia sarà diventata un oggetto di mercanteggiamento tra i diversi gruppi imperialisti... Voi tentate di imporre al popolo russo una politica secondo gli interessi della borghesia. La questione della pace è urgente... voi imparerete che non invano hanno lavorato gli zimmerwaldiani, quelli che voi chiamate «agenti della Germania» e che hanno invece preparato in tutti i paesi il risveglio della coscienza delle masse democratiche...

I menscevichi e i S.R. oscillavano tra questi due estremi, irresistibilmente spinti verso sinistra dal malcontento crescente delle masse. Una ostilità profonda divideva il Consiglio in gruppi irreconciliabili.

Tale era la situazione quando si pose la questione della politica estera, in seguito all'annuncio della tanto attesa Conferenza interalleata di Parigi.


In teoria tutti i partiti socialisti di Russia erano favorevoli ad una pace su una base democratica, il più presto che fosse possibile. Nel maggio 1917 il Soviet di Pietrogrado, ove dominavano allora i menscevichi e i S.R., aveva proclamato le famose condizioni russe di pace. Aveva reclamato una Conferenza interalleata per la discussione degli scopi della guerra. La conferenza era stata promessa per agosto, poi rinviata a settembre, in seguito ad ottobre ed infine era stata fissata per il 10 novembre.

Il governo provvisorio aveva proposto due delegati: il generale Alexeiev, militare reazionario, e Teresctscenko, ministro degli affari esteri. I Soviet scelsero Skobelev e gli diedero delle istruzioni particolareggiate: il famoso nakaz. Il governo provvisorio fece delle obiezioni alla scelta di Skobelev ed al nakaz. Gli ambasciatori esteri protestarono. E finalmente, ad una interrogazione alla Camera dei Comuni, Bonar Law rispose freddamente: «Per quanto io so, la Conferenza di Parigi non discuterà degli scopi della guerra, ma solamente dei metodi per continuare la guerra...».

La stampa conservatrice russa esultò ed i bolscevichi gridarono: «Guardate ove i menscevichi e i S.R. sono stati condotti dalla loro tattica di compromesso!».

Lungo tutto il fronte, per più di un migliaio di chilometri, i milioni di uomini degli eserciti russi si agitavano, come una marea crescente, e rovesciavano sulla capitale centinaia e centinaia di delegazioni che avevano un solo grido: «la pace! la pace!».

Attraversai il fiume per andare al Circolo Moderno, ad uno di quei grandi comizi popolari che si riunivano, in tutta la città ed in numero sempre maggiore, ogni notte. In un anfiteatro nudo e lugubre, rischiarato da cinque piccole lampade sospese ad un filo sottile, si ammassavano fin sotto il tetto, sulle scale sudice, soldati, marinai, operai, donne, attenti come se le loro vite fossero state in giuoco. Parlava un soldato della 548a Divisione:

"Compagni - gridava, e i suoi lineamenti tirati, i suoi gesti disperati esprimevano una sincera angoscia - quelli che sono al potere reclamano da noi sacrificio su sacrificio, ma quelli che posseggono tutto sono lasciati tranquilli.
Noi siamo in guerra con la Germania. Forse che noi domandiamo ai generali tedeschi di servire nel nostro Stato Maggiore? Ebbene, noi siamo in guerra con i capitalisti, eppure noi domandiamo loro di governarci...
Il soldato vuol sapere perché e per chi si batte. Per Costantinopoli, per la liberazione della Russia, per la democrazia, o per i banditi capitalisti? Provatemi che io lotto per la Rivoluzione; allora io marcerò e mi batterò senza che vi sia bisogno di minacciarmi della pena di morte.
Quando la terra apparterrà ai contadini, le officine agli operai ed il potere ai Soviet, allora noi sappiamo che abbiamo qualche cosa da difendere e ci batteremo per salvarlo
."

Nelle caserme, nelle officine, agli angoli delle strade, dei soldati, oratori instancabili, reclamavano la fine della guerra e dichiaravano che se il governo non avesse fatto uno sforzo energico per la pace, i soldati avrebbero abbandonato le trincee e se ne sarebbero tornati a casa.

Il rappresentante dell'VIII Armata si espresse così:

"Noi siamo deboli, noi non abbiamo più che pochi uomini per ogni compagnia; ci si diano dei viveri, delle scarpe e dei rinforzi, altrimenti le trincee saranno ben presto vuote. Si faccia la pace oppure ci si rifornisca... Il governo finisca la guerra, oppure mantenga gli eserciti... "

Un altro parlò a nome del 46° di artiglieria siberiana:

"Gli ufficiali non vogliono lavorare coi nostri Consigli; ci vendono al nemico; applicano la pena di morte ai nostri agitatori e questo governo di controrivoluzionari li sostiene.
Noi speravamo che la rivoluzione avrebbe portato la pace. Ma adesso il governo ci proibisce perfino di parlarne. Eppure non ci da né da mangiare né il necessario per combattere
..."

Dall'Europa arrivavano voci di una pace conclusa a spese della Russia.

Le notizie sul trattamento fatto alle truppe in Francia aumentavano il malcontento. La I Brigata aveva voluto sostituire gli ufficiali con dei Consigli di soldati come i compagni di Russia ed aveva rifiutato di partire per Salonicco, domandando di essere rimpatriata. Era stata circondata, affamata e poi cannoneggiata. Molti erano stati uccisi...

Il 29 ottobre mi recai al Palazzo Marinsky, nella sala di marmo bianco, decorato di rosso, dove sedeva il Consiglio della Repubblica, per assistere alla dichiarazione di Teresctscenko sulla politica estera del governo. Tutto il paese, spossato ed avido di pace, la attendeva con una terribile ansietà.

Un uomo, giovane, di alta statura, coi vestiti impeccabili, il viso dolce e gli zigomi sporgenti, leggeva con una voce soave un discorso accurato, prudente e perfettamente vuoto... Sempre gli stessi luoghi comuni sullo schiacciamento del militarismo tedesco, con l'aiuto degli alleati, sugli «interessi nazionali» della Russia, sull'imbarazzo suscitato dal nakaz consegnato a Skobelev. Terminò con il solito ritornello:

"La Russia è una grande potenza. È dovere nostro, di tutti, di difenderla, di mostrare che noi siamo i difensori di un grande ideale, i figli di una grande nazione..."

Nessuno era soddisfatto. I reazionari volevano una politica imperialista di forza, i partiti democratici esigevano dal governo l'assicurazione che avrebbe affrettato la pace.

Tuttavia, all'ultimo piano della scena politica, cominciava a sorgere, dall'ombra, una forza sinistra: i cosacchi. Kaledin. ataman dei cosacchi del Don, era stato destituito dal governo provvisorio per la sua complicità nell'affare Kornilov. Egli rifiutò nettamente di andarsene e si installò a Novocerkassk, in mezzo a tre immensi eserciti di cosacchi, complottando e minacciando. Era tanto il suo potere che il governo chiuse gli occhi sulla sua insubordinazione e dovette anche riconoscere formalmente il Consiglio dell'Unione degli eserciti cosacchi e dichiarare illegale la sezione cosacca dei Soviet, recentemente costituita.

Nella prima metà di ottobre, una delegazione cosacca venne a trovare Kerenski, esigendo con arroganza il ritiro delle accuse fatte a Kaledin, e rimproverando al Presidente del Consiglio di cedere ai Soviet. Kerenski acconsentì a non disturbare Kaledin; egli avrebbe anche aggiunto:

"Agli occhi dei capi dei Soviet, io sono un despota ed un tiranno... Il governo provvisorio non solo non si appoggia sui Soviet, ma considera come molto increscioso il solo fatto della loro esistenza.
Nello stesso tempo un'altra missione cosacca si recò dall'ambasciatore inglese e trattò arditamente con lui in nome del «libero popolo cosacco
».

Sul Don si era creata una specie di repubblica cosacca. Il Kuban si dichiarò Stato autonomo. I Soviet di Rostov sul Don e di Ekaterinenburg furono dispersi dai cosacchi e la sede del sindacato dei minatori a Karkov, saccheggiata. In tutte le sue manifestazioni, il movimento cosacco era antisocialista e militarista. I suoi capi erano nobili e grandi proprietari fondiari come Kaledin, Kornilov, i generali Deutov, Karaulov e Bardije, sostenuti dai potenti commercianti e banchieri di Mosca.

La vecchia Russia si decomponeva rapidamente. In Ucraina, in Finlandia, in Polonia e nella Russia bianca, i movimenti nazionalisti si rafforzavano e diventavano più audaci. I governi locali, dominati dalle classi possidenti, reclamavano l'autonomia e rifiutavano di obbedire agli ordini di Pietrogrado. A Helsingfors, la Camera finlandese rifiutò di prestare del denaro al governo provvisorio, proclamò l'autonomia della Finlandia e domandò il ritiro delle truppe russe. A Kiev la Rada borghese spinse lontano verso l'est, fino ai monti Urali, le frontiere dell'Ucraina, comprendendo così in questa i più ricchi tenitori agricoli del sud della Russia, e iniziò l'organizzazione di un esercito nazionale. Il primo ministro Vinnicenko fece delle allusioni a una pace separata con la Germania. Il governo provvisorio era impotente. La Siberia ed il Caucaso esigevano le proprie assemblee costituenti. In tutti questi paesi cominciava una lotta accanita tra il potere centrale ed i Soviet locali dei deputati operai e soldati.

La situazione diventava di giorno in giorno più caotica. I soldati, che disertavano il fronte a centinaia di migliaia, rifluivano come una vasta marea ed erravano senza meta per tutto il paese. I contadini dei governatorati di Tambov e di Tver, stanchi di attendere le terre ed esasperati dai provvedimenti repressivi del governo, incendiavano i castelli e massacravano gli agrari. Serrate e scioperi immensi scuotevano Mosca, Odessa ed il distretto minerario del Donez. I trasporti erano paralizzati, l'esercito moriva di fame e le grandi masse mancavano di pane.

Il governo, stiracchiato tra i democratici ed i reazionari, era nell'impossibilità di agire. Se prendeva un provvedimento, lo faceva nell'interesse delle classi possidenti. Mandò i cosacchi a ristabilire l'ordine fra i contadini ed a schiacciare gli scioperi. A Tasckent i Soviet furono soppressi dalle autorità governative. A Pietrogrado il Consiglio Economico, istituito per riorganizzare la vita economica del paese, si trovò preso fra le forze nemiche del capitale e del lavoro e ridotto così all'impotenza. Fu sciolto da Kerenski. I militari del vecchio regime, appoggiati ai cadetti, reclamavano provvedimenti energici per ristabilire la disciplina nell'esercito e nella marina. Invano l'ammiraglio Verderevski, il venerabile ministro della marina, ed il generale Verkhovski, ministro della guerra, ripetevano che solo una nuova disciplina morale, democratica, volontariamente accettata e basata sulla cooperazione con i Consigli dei soldati e dei marinai, poteva salvare l'esercito e la marina. I loro consigli non furono ascoltati.

I reazionari sembravano risoluti a sfidare la collera popolare. Il processo di Kornilov si avvicinava. La stampa borghese difendeva Kornilov sempre più apertamente definendolo il «grande patriota russo». Il giornale di Burtzev, Obsctsceie Dielo (La causa comune), reclamava una dittatura di Kornilov, Kaledin e Kerenski.

Un giorno, nella tribuna della stampa del Consiglio della Repubblica ebbi un colloquio con Burtzev, un piccolo uomo curvo con la faccia rugosa, gli occhi miopi riparati dietro un paio di occhiali spessi, i capelli e la barba grigiastri ed in disordine.

" Ricordatevi delle mie parole, giovanotto. Ciò che manca alla Russia è l'uomo forte. Bisognerebbe adesso finirla col pensare alla Rivoluzione e concentrare la nostra attenzione sulla Germania. Kornilov avrebbe dovuto vincere..."

All'estrema destra, giornali quasi dichiaratamente monarchici, il Narodni Tributi (Il tribuno del popolo) di Purisckevic, la Novaia Russ (La nuova Russia), ed il Jìvoie Slovo (La parola vivente), propugnavano apertamente la liquidazione della democrazia rivoluzionaria...

Il 23 ottobre si svolse la battaglia navale del golfo di Riga contro una squadra tedesca. Con il pretesto che Pietrogrado era in pericolo, il governo provvisorio preparò la evacuazione della capitale. Dovevano anzitutto partire le grandi fabbriche di munizioni che si volevano disperdere in tutta la Russia. Il governo stesso doveva trasferirsi a Mosca. Ma i bolscevichi smascherarono subito i veri motivi della decisione del governo che voleva abbandonare la capitale rossa per indebolire la rivoluzione. Si era già abbandonata Riga ai tedeschi; adesso si consegnava Pietrogrado.

La stampa borghese esultava. A Mosca, diceva il giornale cadetto Riec (La parola), il governo potrà continuare la sua opera in un'atmosfera di calma senza essere minacciato dai nemici dello Stato. Rodzianko, il capo dell'ala destra del partito cadetto, dichiarò nell'Utro Rosii (L'alba della Russia), che la presa di Pietrogrado da parte dei tedeschi sarebbe stata un vantaggio perché avrebbe avuto per conseguenza la caduta dei Soviet e avrebbe sbarazzato la Russia della flotta rivoluzionaria del Baltico.

" Pietrogrado è in pericolo - scriveva - ebbene, lasciamo a Dio la cura di proteggere Pietrogrado! Si teme che la perdita di Pietrogrado causi la morte delle organizzazioni centrali rivoluzionarie. Per conto mio rispondo che mi rallegrerò della loro disparizione perché esse non apporteranno alla Russia che il disastro...
La presa di Pietrogrado provocherà, si dice, la liquidazione della flotta del Baltico. Ma non vi sarà là nulla da rimpiangere. La maggioranza degli equipaggi è completamente demoralizzata
..."

Lo sdegno popolare scoppiò così violento che i progetti di evacuazione dovettero essere abbandonati.

Il Congresso dei Soviet appariva intanto all'orizzonte, come una nube burrascosa percorsa da lampi. Vi si opponevano non solo il governo, ma tutti i socialisti «moderati». I Comitati centrali dell'esercito e della flotta, quelli di alcuni sindacati, i Soviet contadini e soprattutto lo Tzik stesso, nulla risparmiavano per impedirne la riunione. Le Isvestia ed il Golos Soldata (Voce del soldato), giornali fondati dal Soviet di Pietrogrado e passati nelle mani dello Tzik, l'attaccavano accanitamente. Così pure il partito socialista rivoluzionario nei suoi due organi, Dielo Naroda (La causa del popolo) e Volia Naroda (La volontà del popolo).

Si inviarono in tutto il paese dei delegati, si lanciarono ordini telegrafici ai Comitati dei Soviet locali e ai Consigli dell'esercito per sospendere o per ritardare le elezioni. Risoluzioni solenni venivano votate contro il Congresso; si dichiarava che la riunione del Congresso a una data così vicina a quella dell'Assemblea Costituente era in opposizione coi principi democratici. Ovunque si elevavano le proteste di delegati del fronte, della Unione degli zemstvo, dell'Unione dei contadini, dell'Unione degli eserciti cosacchi, dell'Unione degli ufficiali, dei Cavalieri di San Giorgio, dei Battaglioni della morte ecc. Il Consiglio della repubblica russa non aveva che un grido unanime di disapprovazione. Tutto l'apparato sorto dalla rivoluzione di Marzo, era mobilitato contro la riunione del Congresso dei Soviet.

Contro questa opposizione si elevava la volontà ancora informe del proletariato - operai, semplici soldati e contadini poveri. Molti dei Soviet locali erano già bolscevichi. Vi erano poi le organizzazioni degli operai industriali, i Consigli di fabbrica e le organizzazioni rivoluzionarie dell'esercito e della flotta. In alcuni luoghi il popolo, cui si impediva di eleggere regolarmente i propri delegati, improvvisava dei comizi parziali ed eleggeva un rappresentante da inviare a Pietrogrado. In altri luoghi disperdeva gli antichi Comitati che facevano l'ostruzionismo e li sostituiva con nuovi organi. Come un'ondata la rivolta montava; la crosta che si era lentamente formata sulla lava rivoluzionaria, durante i mesi precedenti, cominciava a spezzarsi. Solo un movimento spontaneo delle masse poteva assicurare la riuscita del Congresso panrusso dei Soviet.

Ogni giorno gli oratori bolscevichi giravano le caserme e le fabbriche, denunciando con violenza «il governo di guerra civile». Una domenica ci recammo ad un comizio alle officine di Obukhovo, fabbrica di munizioni dello Stato, posta fuori della città sulla strada di Schlusselburg. Il nostro tram, con il suo tetto pesante, avanzava penosamente tra grandi mura di officine e di chiese immense, attraverso oceani di fango.

Il comizio si svolse tra gli alti muri di mattoni di un enorme edificio incompiuto: diecimila uditori, uomini e donne, vestiti di nero, arrampicati sui mucchi di legna e di mattoni o appollaiati sulle traverse, si affollavano attorno ad un palco drappeggiato di rosso, appassionatamente attenti e manifestanti con una voce di tuono. A tratti il sole rompeva le nubi pesanti e scure, inondando di una luce rossastra, attraverso i buchi delle finestre, quella massa di visi semplici rivolta verso di noi.

Lunaciarski, dalla svelta sagoma di studente e dal fine viso d'artista, spiegò perché il potere doveva essere preso dai Soviet. Niente altro poteva garantire la rivoluzione contro i suoi nemici che rovinavano deliberatamente il paese e l'esercito, preparando la via a un nuovo Kornilov.

Un soldato del fronte rumeno, magro, tragico, appassionato gridò:

"Compagni, al fronte noi moriamo di fame e di freddo. Ci si fa morire senza ragione. Prego i compagni americani di dire in America che i russi abbandoneranno la loro Rivoluzione, solo quando saranno tutti morti. Noi difenderemo la nostra fortezza con tutte le nostre forze fino a che tutti i popoli si leveranno e ci verranno in aiuto. Dite agli operai americani di alzarsi e di combattere per la rivoluzione sociale."

Dopo di lui parlò lo svelto Petrovski, con una piccola voce lenta, implacabile:

"Non è più l'ora delle parole, ma è quella dell'azione! La situazione economica è cattiva; bisogna fronteggiarla. I nostri avversari tentano di prenderci per fame e per freddo; essi vogliono provocarci. Ma sappiano che andrà loro male. Se essi osano toccare le nostre organizzazioni, noi li spazzeremo come immondizie dalla faccia della terra."

La stampa bolscevica ebbe, di colpo, un nuovo slancio. Oltre ai giornali del partito, La voce degli operai ed il Soldato, cominciarono a pubblicarsi due nuovi organi: l'uno per i contadini, I contadini poveri (Deverenscaia Biednota), che stampava tutti i giornali mezzo milione di copie, e l'altro intitolato L'operaio ed il soldato (Raboci i Soldat). Quest'ultimo riassumeva nel suo primo numero, il 17 ottobre, il programma bolscevico:

"Un quarto anno di guerra significherebbe l'annientamento dell'esercito e del paese... Pietrogrado rivoluzionaria è in pericolò. I controrivoluzionari si rallegrano dei mali del popolo e si preparano a colpirlo mortalmente. I contadini, disperati, sono entrati in aperta rivolta; i proprietari ed il governo li fanno massacrare dalle spedizioni punitive. Le fabbriche e le miniere cessano il lavoro; gli operai sono minacciati dalla fame. La borghesia ed i suoi generali vogliono ristabilire con provvedimenti implacabili una disciplina cieca nell'esercito. Sostenuti dalla borghesia, i partigiani di Kornilov si preparano apertamente a disperdere l'Assemblea Costituente.
Il governo di Kerenski è il governo della borghesia. Tutta la sua politica è diretta contro gli operai, i soldati ed i contadini. Rovinerà il paese... Il nostro giornale compare in giorni gravidi di minacce. Sarà la voce del proletario e della guarnigione di Pietrogrado. Sarà il difensore instancabile dei contadini poveri... Bisogna che il popolo sia salvato, che la rivoluzione sia condotta al suo termine. Bisogna che il potere sia strappato dalle mani criminali della borghesia e rimesso alle organizzazioni degli operai, dei soldati e dei contadini rivoluzionari. Bisogna che la guerra maledetta finisca.


Il programma del Raboci i Soldat è quello del Soviet dei Deputati operai e soldati di Pietrogrado, cioè:

Tutto il potere ai Soviet nella capitale come in provincia.
Tregua immediata su tutti i fronti, pace leale fra i popoli.
La terra ai contadini, senza indennità ai proprietari.
Un'assemblea Costituente eletta con onestà
."

Riproduciamo ancora un altro brano interessante dello stesso giornale - l'organo dei bolscevichi che erano definiti da tutto il mondo come gli agenti della Germania:

"L'imperatore tedesco, sporco del sangue di milioni di uomini, vuole spingere il suo esercito fino a Pietrogrado. Rivolgiamoci agli operai, ai soldati, ed ai contadini tedeschi che desiderano la pace non meno di noi, affinché essi insorgano contro questa guerra maledetta.
Questo potrà essere fatto solo da un governo rivoluzionario, che parlerà veramente a nome degli operai, dei soldati e dei contadini russi, che si rivolgerà, al disopra dei diplomatici, direttamente agli eserciti tedeschi e riempirà le loro trincee di proclami in lingua tedesca... I nostri aviatori inonderanno tutta la Germania con questi proclami
..."

Al Consiglio della Repubblica, l'abisso tra i due estremi si faceva sempre più profondo.

Le classi possidenti, gridava Karelin, a nome dei S.R. di sinistra, vogliono servirsi dell'apparato rivoluzionario dello Stato per legare la Russia al carro di guerra degli alleati! I partiti rivoluzionari si oppongono risolutamente a tale politica.

Il vecchio Nicola Ciaikovski, rappresentante dei socialisti popolari (trudoviki), parlò contro la divisione delle terre tra i contadini e si mise con i cadetti.

"Noi dobbiamo immediatamente ristabilire una salda disciplina nell'esercito. All'inizio della guerra non ho cessato di ripetere che è criminale iniziare delle riforme economiche e sociali in tempo di guerra. ’È questo il delitto che noi commettiamo. Eppure io non sono nemico di queste riforme, perché sono socialiste. (Grida a sinistra) Non vi crediamo!" (Tempesta di applausi a destra).

Adijemov dichiarò a nome dei cadetti che non era affatto necessario dire all'esercito perché esso combatteva: ciascun soldato doveva comprendere che suo primo dovere era di cacciare il nemico dal territorio russo.

Lo stesso Kerenski venne due volte a perorare appassionatamente per l'Unione Nazionale e si sciolse in lagrime alla fine dei suoi discorsi. L'Assemblea lo ascoltò freddamente, interrompendolo con osservazioni ironiche.

L'Istituto Smolni, quartiere generale dello Tzik e dei Soviet di Pietrogrado, si trova ad alcune miglia dal centro, alla fine della città, sulla riva dell'ampia Neva. Presi un tram ricolmo di viaggiatori, che serpeggiava gemendo lungo strade fangose e mal selciate. Alla fine della linea si innalzavano le graziose cupole azzurrine, filettate d'oro smorto del Convento Smolni, così belle, e di fianco la grande facciata, in stile da caserma, dell'Istituto Smolni, lungo circa duecento metri ed alto tre piani, che portava, sopra l'entrata, un enorme ed insolente stemma imperiale, scolpito nella pietra.

Le organizzazioni rivoluzionarie dei soldati e degli operai si erano installate in quell'istituto, celebre pensionato per giovanette nobili sotto il vecchio regime, sotto il patronato della zarina. Aveva più di un centinaio di vaste camere, bianche e nude; sulle porte alcune placche smaltate indicavano ancora ai visitatori la «quarta classe», e la «sala dei professori». Ma altre scritte, tracciate frettolosamente, testimoniavano della nuova attività che regnava nell'edificio: «Comitato centrale del Soviet di Pietrogrado», «Tzik», «Commissione degli Affari Esteri», «Unione dei soldati socialisti», «Consigli di fabbrica», «Comitato centrale dell'esercito»; altre stanze erano occupate dagli uffici centrali e servivano per le riunioni dei partiti politici.

Nei lunghi corridoi, dal soffitto ricurvo, rischiarati di tanto in tanto da lampade elettriche, circolava una folla affaccendata di operai e di soldati. Qualcuno era piegato sotto il peso di enormi pacchi di giornali, di proclami, di propaganda stampata di ogni genere. Il rumore delle loro scarpe pesanti sul pavimento sembrava un incessante brontolio di tuono. Ovunque erano poste delle scritte: «Compagni, nell'interesse della vostra stessa salute, osservate da pulizia!». A ciascun piano, alla cima delle scale e sui pianerottoli erano installate delle lunghe tavole dove si vendevano dei mucchi di opuscoli e di pubblicazione politiche.

Il vasto refettorio, dal soffitto basso, che si trovava al pianterreno rialzato, era diventato una sala di ristorante. Per due rubli mi si diede uno scontrino che dava diritto ad un pasto; poi presi posto tra un migliaio di altri che attendevano di poter accedere ad uno dei lunghi tavoli dove una ventina di uomini e di donne servivano la zuppa coi cavoli, presa in immense caldaie insieme con dei pezzi di carne e distribuivano delle montagne di kascia e delle fette di pane nero. Per cinque copechi si riceveva una porzione di the in tazza di stagno. Si prendeva da sé stessi, in un paniere, un cucchiaio di legno poco pulito. Sulle panche, lungo le tavole di legno, proletari affamati inghiottivano il loro pasto, pur chiacchierando fra di loro e lanciandosi attraverso la sala delle frasi scherzose.

Al primo piano vi era un altro buffet, riservato allo Tzik, ma dove andavano tutti. Vi si potevano avere delle tartine generosamente imburrate e dei bicchieri di the a volontà.

Nell'ala sud, al secondo piano, si trovava la grande sala delle riunioni, l'antica sala da ballo dell'istituto. Una stanza alta, con i muri tutti bianchi, rischiarata da centinaia di globi elettrici lavorati, fissati su candelabri verniciati e divisa da due file di colonne massicce. Ad un'estremità un baldacchino fiancheggiato da due alte lampade a molti bracci, e, dietro, un quadro d'oro da cui si era tolto il ritratto dello zar. Qui nei giorni di festa campeggiavano le sontuose uniforme militari ed ecclesiastiche; era un ambiente fatto per le granduchesse.

Dall'altro lato del corridoio, dinanzi alla sala delle riunioni, si verificavano i mandati dei delegati al Congresso dei Soviet. Osservai l'arrivo dei nuovi delegati: vigorosi soldati barbuti, operai in blusa nera, alcuni contadini con i capelli lunghi. Una giovane donna, aderente all’Edinstvo di Plekhanov, dirigeva l'operazione. Sorrideva sdegnosa:

«Non rassomigliano affatto ai delegati al primo Congresso diceva. Guardate che aria grossolana ed ignorante! Che massa incolta...».

Era esatto. La Russia era stata scossa fin nel più profondo e gli strati bassi erano venuti alla superficie. Il Comitato di verifica, nominato dall'antico Tzik, contestava a ciascun delegato la legalità del suo mandato. Karakhan, membro del comitato bolscevico, sorrideva.
"Non inquietatevi - diceva - al momento buono vi faremo riconoscere."

Era evidente che il numero legale non sarebbe stato raggiunto per il 2 novembre e si rinviò quindi il Congresso al 7. Ma tutto il paese era già in agitazione ed i menscevichi ed i socialisti rivoluzionari, comprendendo di essere battuti, cambiarono improvvisamente tattica. Telegrafarono ovunque a tutte le loro organizzazioni provinciali di eleggere il maggior numero possibile di socialisti «moderati». Nel medesimo tempo il Comitato esecutivo dei Soviet contadini convocò, d'urgenza, un Congresso per il 13 dicembre in modo da rendere vana ogni eventuale azione degli operai e dei soldati.

Che cosa avrebbero fatto i bolscevichi? In città correva la voce che gli operai ed i soldati preparavano una dimostrazione armata. La stampa borghese e reazionaria profetizzava l'insurrezione e reclamava dal governo l'arresto del Soviet di Pietrogrado od almeno la proibizione del Congresso. Alcuni giornali, come la Novaia Russ, predicavano il massacro generale dei bolscevichi.

Il giornale di Gorki, la Novaja Zhìzn, riconosceva, d'accordo con i bolscevichi, che i reazionari tentavano di soffocare la rivoluzione e che, se necessario, bisognava loro opporre la forza delle armi; ma, prima di tutto, era necessario che tutti i partiti della democrazia rivoluzionaria presentassero un fronte unico. Gorki faceva osservare che sia i giornali reazionari, sia quelli del governo eccitavano i bolscevichi alla violenza; e che una insurrezione avrebbe aperto la via ad un nuovo Kornilov. Gorki scongiurava i bolscevichi a smentire le voci messe in circolazione. Nell'organo menscevico il Den' (II giorno), Potressov pubblicò una informazione sensazionale, con una carta, pretendendo svelare il piano segreto dei bolscevichi.

Come per incanto le mura si coprirono di avvisi, di proclami, di appelli dei Comitati centrali dei «moderati» e dei conservatori. Lo Tzik denunciava qualsiasi «dimostrazione» da qualunque parte fosse promossa e scongiurava i soldati e gli operai di non dare ascolto agli agitatori.

Il 28 ottobre mi trattenni nei corridoi di Smolni con Kamenev, un piccolo uomo dalla barbetta rossastra, tagliata a punta e dal gestire latino. Egli non era affatto sicuro che vi sarebbe stato un numero sufficiente di delegati.

"Se il congresso avrà luogo - mi disse - rappresenterà la volontà della maggioranza del popolo. Se, come penso, la maggioranza sarà bolscevica, noi domanderemo che il potere sia rimesso ai Soviet ed il governo provvisorio dovrà ritirarsi."

Volodarski, un giovanottone pallido, colorito malsano ed occhiali, era più categorico:

"I Liber, i Dan e gli altri opportunisti stanno sabotando il Congresso. Ma se essi riusciranno ad impedirne la riunione, noi saremo abbastanza realisti, da non farci fermare egualmente."

Nel mio taccuino trovo, sotto la data del 29 ottobre, questi brani di giornali:

Moghilev (Gran Quartiere generale). Là sono concentrati i reggimenti lealisti della Guardia, la Divisione Selvaggia, i cosacchi ed i Battaglioni della Morte.
Gli junker di Pavlovsk, di Sarkoie Selo e di Petergof hanno ricevuto dal governo l'ordine di tenersi pronti a partire per Pietrogrado. Gli junker d'Oranienbaum arrivano nella capitale.
Una parte della divisione delle automobili blindate della guarnigione di Pietrogrado è accasermata al Palazzo d'Inverno.
In seguito ad un ordine firmato da Trotski parecchie migliaia di fucili sono stati consegnati dalla fabbrica d'armi di Sestroretsk a delegati operai di Pietrogrado.
Ad un comizio della milizia municipale di Pietrogrado, nel quartiere di Bas-Liteini, una risoluzione ha reclamato il passaggio del potere ai Soviet.
Tutto questo è solo un esempio della confusione che regnava in quei giorni febbrili, quando tutti sapevano che qualche cosa stava per succedere e nessuno poteva dire esattamente che cosa.

Durante una riunione del Soviet di Pietrogrado a Smolni, nella notte del 30 ottobre, Trotski smentì le affermazioni della stampa borghese circa i progetti di insurrezione dei Soviet, definendole un «tentativo reazionario per screditare e per far fallire il Congresso dei Soviet».

"Il Soviet di Pietrogrado - dichiarò a nome del Soviet stesso - non ha dato alcun ordine di insurrezione. Se sarà necessario noi daremo tale ordine, e noi avremo l'appoggio della guarnigione di Pietrogrado... Il governo prepara un movimento controrivoluzionario; noi risponderemo con una offensiva, che sarà decisiva e senza pietà."

Era esatto che il Soviet di Pietrogrado non aveva ordinato alcuna dimostrazione armata, ma il Comitato centrale del partito bolscevico stava esaminando la eventualità della insurrezione. La notte del 23 sedette in permanenza. Tutti gli intellettuali del partito, tutti i capi, e così pure parecchi delegati degli operai e della guarnigione di Pietrogrado erano presenti. Tra gli intellettuali solo Lenin e Trotski erano per l'insurrezione. Anche i militari erano contrari. Si votò. La insurrezione fu battuta.

Allora un operaio si levò, il viso contratto per il furore:

"Parlo a nome del proletariato di Pietrogrado - disse rudemente - Noi siamo per l'insurrezione. Fate quello che volete, ma io vi dichiaro che se voi lasciate schiacciare i Soviet, voi siete finiti per noi."

Alcuni soldati lo appoggiarono... Si rimise ai voti la insurrezione... Trionfò.

Tuttavia l'ala destra dei bolscevichi, guidata dai Riazanov, Kamenev e Zinoviev, continuava la sua campagna contro la sollevazione armata. Il mattino del 31 dicembre il Raboci Put cominciò la pubblicazione della «Lettera ai compagni» di Lenin, uno dei più audaci scritti di agitazione politica che il mondo abbia conosciuto. Lenin vi esponeva tutti gli argomenti in favore dell'insurrezione, partendo dalle obiezioni di Kamenev e di Riazanov.

"O noi passeremo nel campo di Liber e di Dan ed abbandoneremo la nostra parola d'ordine Tutto il potere ai Soviet - scriveva - o noi faremo l'insurrezione. Non c'è via di mezzo..."

Nel pomeriggio dello stesso giorno, il capo dei cadetti, Miliukov, pronunciò un brillante ed agro discorso al Consiglio della Repubblica. Vi stigmatizzava la germanofilia del nakaz a Skobelev, dichiarava che la «democrazia rivoluzionaria» stava rovinando la Russia, e, schernendo Teresctscenko, non esitava ad affermare che preferiva la diplomazia tedesca a quella russa... Un tumulto violento scosse tutta la sinistra.

Il governo, da parte sua, non poteva misconoscere la importanza dei successi della propaganda bolscevica. Il 29, una commissione mista di rappresentanti del governo e del Consiglio della Repubblica redigeva affrettatamente due progetti di legge: l'uno accordava temporaneamente la terra ai contadini, l'altro gettava le basi di una energica politica di pace. L'indomani Kerenski sospendeva la pena di morte nell'esercito. Nello stesso giorno si apriva solennemente la prima seduta della nuova «Commissione per il rafforzamento del regime repubblicano e per la lotta contro l'anarchia e la contro-rivoluzione», di cui la storia non doveva registrare in seguito la più piccola traccia... Il mattino seguente intervistai Kerenski, in compagnia di altri due giornalisti; fummo gli ultimi corrispondenti di giornali ricevuti da lui.

"Il popolo russo - disse con amarezza - soffre di spossamento e di disillusione nei riguardi degli alleati. Il mondo pensa che la rivoluzione sta per finire. Non ingannatevi, la rivoluzione è appena cominciata.
Parole più profetiche, senza dubbio, di quanto egli pensasse
."

La riunione dei Soviet di Pietrogrado, alla quale assistei, durò tutta la notte del 30 ottobre e fu molto tempestosa. Socialisti «moderati», intellettuali, ufficiali, membri dei Consigli dell'esercito e dello Tzik vi erano venuti numerosi. Dinanzi ad essi operai, contadini, soldati, semplici ed ardenti.

Un contadino raccontò i disordini di Tver, provocati, secondo lui, dall'arresto dei Comitati agrari.

"Questo Kerenski non è che lo «scudo» dei grossi proprietari agrari! - gridò - Essi sanno bene che all'Assemblea Costituente noi prenderemo egualmente le terre ed è per questo che si sforzano oggi di ammazzarla."

Un meccanico delle officine Putilov spiegò che i direttori chiudevano ad una ad una tutte le officine, con il pretesto che mancavano o il carbone o le materie prime; invece il Consiglio di fabbrica ne aveva scoperte delle enormi riserve nascoste.

"È una provocazione - disse - vogliono affamarci per spingerci alla violenza."

Un soldato cominciò:

"Compagni, vi porto il saluto di quelli che, laggiù, scavano le loro tombe, che si chiamano trincee."

Seguì un giovane soldato, grande, alto, lo sguardo scintillante; una vampata di entusiasmo lo accolse. Era Ciudnovski, dato morto nei combattimenti di luglio, che risuscitava...

"La massa dei soldati non ha più fiducia nei suoi capi. Anche i Comitati dell'esercito, che hanno rifiutato di riunire il nostro Soviet, hanno tradito. I soldati vogliono che l'Assemblea Costituente si riunisca alla data fissata. Guai a coloro che oseranno rinviarla. E questa non è una minaccia platonica: l'esercito ha dei cannoni!"

Parlò poi della campagna elettorale che infuriava nella quinta armata.

"Gli ufficiali, soprattutto i menscevichi e i S.R. lavorano sistematicamente a liquidare il partito bolscevico. Si proibisce la circolazione dei nostri giornali nelle trincee. Si arrestano i nostri oratori..."

" Perché non parlate anche della mancanza di pane? "interruppe un altro soldato.

"L'uomo non vive di solo pane"  rispose gravemente Ciudnovski.

Dopo di lui prese la parola un ufficiale, un menscevico guerrafondaio, delegato del Soviet di Vitebsk:

" Poco importa chi attualmente detenga il potere. Non si tratta del governo, si tratta della guerra. Nessun cambiamento è possibile; bisogna prima di tutto vincere la guerra. (Fischi ed esclamazioni ironiche). Gli agitatori bolscevichi sono dei demagoghi!"

A queste parole la sala scoppiò dalle risate.

" Dimentichiamo per un momento la lotta di classe... - Non potè proseguire. Una voce lanciò:

" Potete contarci... "

Pietrogrado presentava allora uno spettacolo curioso. Nelle officine le sale dei Consigli erano piene di fucili; corrieri; andavano e venivano; la Guardia Rossa si addestrava. In tutte caserme si svolgevano ogni notte dei comizi e le giornate scorrevano in discussioni interminabili ed appassionate. Nelle strade la folla si addensava verso sera; si spandeva in lente ondate sulla prospettiva Nevski, disputandosi i giornali. Nella Sadovaia ho visto, in pieno pomeriggio!, una folla di parecchie centinaia di persone inseguire e battere un soldato preso in flagrante reato di furto... individui misteriosi s'aggiravano attorno alle donne, tremanti per il freddo nelle code per il pane e per il latte, sussurrando che gli ebrei avevano accaparrato le provviste di viveri e che i membri dei Soviet vivevano nell'opulenza, mentre il popolo moriva di fame...

A Smolni, all'entrata ed alla cancellata esterna, un posto di guardia verificava minuziosamente i lascia-passare. Nelle sale di riunione, vi era (giorno e notte), un rumore ininterrotto; centinaia di operai e di soldati dormivano sui pavimenti, come potevano. Al primo piano, un migliaio di uditori si affollavano alle sedute tumultuose del Soviet di Pietrogrado...

Dal crepuscolo all'alba si giocava febbrilmente nei club, lo champagne scorreva a fiotti, le poste raggiungevano i ventimila rubli. Le strade ed i caffè del centro rigurgitavano di prostitute coperte di brillanti e di pellicce lussuose...

Complotti monarchici, spioni tedeschi, contrabbandieri che facevano dei progetti...

Nel freddo e sotto la pioggia, che un cielo grigiastro rovesciava senza sosta, la grande città, tutta palpitante, accelerava la sua corsa... Verso dove?