Rossana Rossanda

Una comunista “ingraiana” racconta Ingrao

intervento inviato al convegno dedicato al compagno Pietro Ingrao in occasione dei suoi cento anni dalla Camera dei Deputati il 31 marzo 2015 e letto da Maria Luisa Boccia. Il video integrale del convegno lo trovate qui.


Nel centesimo anniversario di Pietro Ingrao non posso che ringraziare per essere stata invitata a partecipare.
Ingrao è rimasto, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte, il punto di riferimento nella mia parabola di comunista. Sono stata considerata una “ingraiana”, benchè egli abbia sempre rifiutato la definizione di leader di una corrente. Questo non per una sacrificale disciplina ma, credo, per una non piccola ambizione, che prende corpo quando, alla fine degli anni Trenta, decide di sé: avrebbe lavorato in una comunità militante, internazionalista.
Questo era il Partito comunista italiano.
Nulla di facile, ma neppure nulla di meno di questo. Non era una visione facile dello stare assieme. Ognuno vi prendeva parte con con una sua storia, teso però ad un obiettivo comune dal quale la propria storia prendeva senso, acquisiva un orizzonte così grande che non si sarebbe potuto coglierlo per schegge e frammenti. Oggi non si sa neppure che cosa potesse essere e non perché siamo diventati meno ingenui, più intelligenti. Siamo, piuttosto, rifluiti nei nostri personali confini; gli altri sono tornati “altri”, così diversi da non potere entrare in contatto, senza ferire o essere feriti. Quasi che non si possa neppure immaginare l’altro, se non come radicale differenza e totale autonomia. Ed un partito, allora, non può che ridurre tutti e tutte al minimo comun denominatore. E come se, all’interno di quel corpo vivente, non si possa darsi regole condivise, affidando una parte di sé al tutto, sentendosene rafforzati per affrontare il conflitto politico e sociale. Non era una nave di matti, ma un moltiplicatore di forze.
Avvertimmo il partito come limite e impaccio, dal 1956, dopo l’invasione di Praga da parte dell’URSS. E tuttavia finchè la percezione dell’errore non ne mise in causa il fine, l’errore non ci parve irrimediabile. A quelli di noi che scalpitavano, Ingrao raccomandava anzitutto “di non farla troppo semplice”. Era il rimprovero che rivolse a se stesso quando dovette cambiare parere sulla rivolta ungherese (rifiutando il giudizio di Togliatti, lieto che “fosse finita bene”) Ingrao ha sempre evitato giudizi sbrigativi, sia sull’URSS sia sulla storia del PCI. Ma non cercò di approfondire il tema, enorme, dei rapporti con l’URSS, che del resto non venne mai affrontato collettivamente. Poco prima di morire tentò di farlo Togliatti, ma gli mancò il tempo. Restano solo i cenni nel Memoriale di Yalta. Ma neppure su quel Memoriale il PCI, come collettivo, lavorò.
Dove non si sentiva sufficientemente certo Ingrao preferiva interrogare e riservarsi il giudizio. Un metodo poco diffuso nel partito, che ce lo rendeva caro. In ogni modo la prima differenza, per me che lavoravo nella più grande federazione del Nord, era quella fra chi, come Ingrao - conclusa la ricostruzione e iniziata dal 1958 la crescita - prestava attenzione ai mutamenti del capitalismo, in fabbrica e nella società, e chi temeva che anche solo annotarli fosse un modo di arrendersi ad essi. Questi ultimi insistevano sul permanere di un “super sfruttamento”, mentre i primi avvertivano che una parte del lavoro, anche per merito delle lotte operaie, sfuggiva ormai a questa definizione, ed era diversamente utilizzata.
I vertici del partito ci parevano divisi fra quelli che venivano da prima della guerra, e quelli che venivano dal presente. Senza storia e senza gloria, questi ultimi erano però più vicini alla condizione di chi sentiva passare sulla propria pelle il cambiamento. Venuta meno l’industria di guerra, senza una catastrofica disoccupazione, si andava compiendo una redistribuzione delle carte sociali che bisognava saper leggere. A Milano, a Torino e a Genova - il “triangolo industriale” - eravamo un gruppo di sindacalisti, politici ed economisti che si riconosceva in questa seconda ottica; contro un certo immobilismo del centro, più interessato alla narrazione del Sud che a noi settentrionali. Fatta eccezione per Giorgio Amendola, al quale non sfuggiva nulla del partito e temeva che il Nord producesse una fronda “modernista”, ed estremista. Affascinata dal neocapitalismo in atto, ci riteneva portati ad illuderci sulle reali tendenze del capitalismo italiano, da lui ritenuto irriducibilmente tentato da avventure autoritarie.
Non posso dire che Ingrao - del quale amavamo il parlare senza enfasi, e il riscoprire in pace un Nord infreddolito che aveva conosciuto in guerra - fosse allora particolarmente interessato a noi; ma ci incoraggiava a studiare, e ci ascoltava senza diffidenza alcuna. Interessato era invece Luigi Longo. Ma quello che a noi premeva, era il terreno di lavoro di Giorgio Amendola, il quale invece diffidava grandemente di noi, intrisi di “sociologismo settentrionale”. Nè Ingrao né Longo parlarono nel 1962 al Convegno dell’Istituto Gramsci sulle "Tendenze del capitalismo italiano" dove, appunto, l’incrinatura si rivelò più seria del previsto. Lucio Magri, Rodolfo Banfi, Ruggero Spesso e Ruggero Cominotti avanzarono riserve sulla posizione di Amendola e ricevettero da lui le prime sberle. Il gruppo dirigente del PCI si era scontrato altre volte; come su Secchia o prima ancora sulla volontà di Stalin di chiamare Togliatti a Praga. Ma quella al convegno del Gramsci fu la prima discussione pubblica, “sulla linea”. E non si chiuse allora.
Erano gli anni del centro sinistra che, ad ogni curva del suo modesto percorso, avrebbe riaperto il tema; e restò acceso a lungo. Nel PCI, dopo il convegno del ’62, la discussione si riaprì ad opera di Ingrao e Reichlin. Vi prendemmo parte in diversi, ma Togliatti la chiuse, dandoci torto.
Nel 1964 Togliatti morì d’improvviso. E dopo un ovvio interim di Longo, si pose la questione bruciante della successione. Un giorno Amendola, che non si accontentava dei rapporti formali in comitato centrale, mi chiese di colpo cosa ne pensavo. “Beh, o tu o Ingrao” risposi. Subito mi obbiettò: “No, divideremmo il partito; occorre qualcuno che riunisca” e fece il nome, per me inatteso, di Berlinguer. Non so come fu presa la decisione, ma è certo che nel partito si pensava che la scelta sarebbe stata fatta tra quei due nomi. E di certo fu deciso, in qualche sede, che Ingrao non era affidabile. Ne trovo conferma in quanto avvenne poche settimane dopo la morte di Togliatti. Amendola propose la riunificazione fra PCI e Psi, suscitando una reazione stupefatta e negativa nel partito, nel silenzio degli organismi dirigenti. Soltanto Ingrao intervenne sulla proposta. Riconoscendo che i mutamenti della società suggerivano una modifica del partito, egli proponeva, all’opposto di Amendola, che si unissero tutte le diverse sinistre, socialista, comunista cattolica - si era nel vivo del Vaticano secondo - ma anche quella sindacale con quel che vi affluiva della sinistra sociale, e la sinistra studentesca appoggiata dal PSIUP. Si costituì una commissione alla quale partecipò Longo, con un atteggiamento molto aperto. La commissione fu invece disertata dagli altri dirigenti, tra i quali Amendola. Credo che Amendola considerasse la proposta di Ingrao una provocazione. A conclusione dei lavori Ingrao preparò un documento, che, appena letto, sprofondò nell’indifferenza. La proposta di Amendola, pur non assunta ufficialmente dal partito, non fu certo censurata. Era quella di Ingrao, invece, che andava esplicitamente condannata. E la condanna maturò e divenne pubblica, un anno dopo, all’XI congresso del partito. Dopo averci raccomandato di non fare i matti e di limitarci a parlare del nostro lavoro, Ingrao accettò una prova, sul cui meccanismo niente poteva sfuggirgli. Fece un intervento di verità. Alla linea di benevola opposizione al centro sinistra contrappose un diverso, realmente alternativo, “modello di sviluppo”.
Ma soprattutto evocò il diritto a dissentire. Fu accolto con una ovazione; finchè la platea non si accorse dell’accoglienza glaciale da parte della Presidenza. Negli interventi successivi Ingrao fu criticato senza indulgenza alcuna. Il congresso si concluse affidandogli soltanto la responsabilità del gruppo parlamentare che allora era considerato un compito assai limitato. Ma Ingrao accettò, ci parve, volentieri. Come ha ricordato più volte, il lavoro alla Camera per molti aspetti lo interessava e gli corrispondeva più di quello a Botteghe oscure.
Da Presidente della Camera, è intervenuto, autorevolmente e liberamente, in varie situazioni pubbliche non istituzionali. Ed è stato sempre accolto calorosamente. Ed egIi era grato assieme di esserci, in quella veste, e di poter portare un suo accento senza creare scontri espliciti . Quello della Camera è stato un periodo importante, anche per la sua riflessione e la sua scrittura.
Faccio un passo indietro, al 1968. Sul quale vi fu un giudizio negativo di Amendola e di altri dirigenti, come Emilio Sereni, mentre richiamò l’attenzione di Longo, il quale invitò a colloquio alcuni leader del movimento. Il PCI non fu dunque né pro né contro, e le sedi del partito non erano né aperte né chiuse. Ingrao, invece non intervenne esplicitamente sul movimento degli studenti. Né intervenne in modo esplicito sulla politica di Berlinguer, ed in particolare sul compromesso storico.
Il dissenso esplicito con il partito vi fu di nuovo sulla questione dirimente della guerra. Poco prima aveva animato la mozione congressuale del “No” alla svolta di Achille Occhetto, che segnava la fine del PCI. Quando al congresso di Rimini una parte dell’opposizione si orientò per la rottura, una scelta che sembrava intrinseca al suo argomentare, Ingrao in un intervento teso e drammatico, riaffermò la sua fedeltà. Uscendo solitariamente, due anni dopo.