Luca Gorgolini

Il PCI e la “questione giovanile” nel secondo dopoguerra


Gli anni Cinquanta vengono comunemente definiti “gli anni della ricostruzione post-bellica e della transizione”, intendendo con ciò il passaggio da una società prevalentemente rurale e tradizionale ad una società industrializzata e moderna. Una fase di passaggio che si inscrive come uno dei momenti cruciali della storia d'Italia del Novecento e su cui si innesca il processo di affermazione dei giovani in quanto nuovo soggetto sociale. In coincidenza dell'avvio dell'intensa fase di modernizzazione accelerata che mette in moto modificazioni strutturali che investono l'intera architettura economica e sociale del paese, producendo profonde trasformazioni a livello delle mentalità e dei comportamenti collettivi, la gioventù irrompe sulla scena, affermando atteggiamenti, mode e proponendo linguaggi e simboli radicalmente differenti e, per molti versi, alternativi a quelli manifestati dalle precedenti generazioni.

Se è vero che le generalizzazioni sui giovani e le loro esperienze sono sempre fuorvianti - dato che in uno specifico luogo e tempo coesistono una molteplicità di diverse e contrastanti condizioni giovanili riconducibili a elementi quali l'appartenenza sociale, le differenze culturali o ancora lo spazio fisico in cui si cresce (si pensi alle differenze tra ambiente urbano e ambiente rurale) - possiamo comunque affermare che negli anni del “miracolo economico”, si fanno marcatamente sentire delle reali tendenze all'uniformità; i ragazzi e le ragazze del nostro paese, iniziano ad acquisire una consapevolezza generazionale e a riconoscersi come parte integrante di un “mondo a sé”. L'intensa mobilità che si verifica in quel periodo, unitamente al consolidarsi di un modello di socializzazione centrato sulla scolarizzazione diffusa, favorisce lo sviluppo tra i più giovani, aldilà delle differenze sociali e culturali iniziali, di atteggiamenti e gusti comuni, che trovano piena legittimazione all'interno del nascente mercato dei consumi di massa. Il diffuso, anche se non generalizzato, benessere che riguarda un numero crescente di famiglie, consente infatti agli adolescenti di avere a propria disposizione risorse finanziarie impensabili per le generazioni precedenti; a differenza di queste ultime, gli adolescenti cresciuti nel secondo dopoguerra, mostrano un sostanziale rifiuto dell'etica del risparmio, manifestando una forte propensione al consumo. Il mercato, che si accorge di questo nuovo gruppo di acquirenti-consumatori inizia a convogliare accortamente verso di loro tutta una serie di prodotti, in massima parte nuovi, che finiranno per essere strumenti indispensabili nella costruzione di un'identità generazionale da parte dei teenager italiani. A partire dagli anni Cinquanta, i giovani tendono ad appropriarsi di alcuni oggetti, i jeans, la musica rock, gli scooter , messi a loro disposizione dall'industria del loisir , allo scopo di mettere in scena comportamenti e stili di vita profondamente diversi da quelli rappresentati dai loro genitori. Il conflitto genitori-figli che ne deriva, dapprima confinato all'interno delle mura domestiche, invade le strade e le piazze a metà degli anni Sessanta per assumere di li a poco la dimensione di una vera e propria contestazione politica e sociale condotta dagli studenti nei confronti dell'intera società.





 

 

L'emersione dei giovani nel secondo dopoguerra come gruppo sociale autonomo, immediatamente riconoscibile, è un fenomeno che non riguarda solo l'Italia, ma che, accomuna, in buona sostanza, tutti i paesi dell'occidente, a partire dagli Stati Uniti. L'affermazione di una cultura giovanile, come sostiene Hobsbawm (1994, p. 388), con tratti fortemente “demotici” e “antinomiani”, in grado di mettere in discussione i codici linguistici, i simboli e i modelli virtuosi ereditati dai genitori, interessa l'intero insieme delle società capitalistiche; una cultura giovanile questa, che finisce per divenire la matrice di una più ampia rivoluzione culturale che modifica i costumi (si pensi a quelli sessuali) e le mentalità collettive delle generazioni successive. In Italia però, la presenza e i primi segni di ribellione (a partire dall'acuirsi dei fenomeni di teppismo e delinquenza giovanili durante gli anni del boom) di quella che viene comunemente riconosciuta come la “prima generazione”, secondo la definizione di S. Piccone Stella (1993), provoca turbamenti profondamente più pronunciati di quelli che si registrano altrove. L'opinione pubblica, disorientata da fenomeni giovanili nuovi e difficilmente comprensibili con i vecchi strumenti culturali a disposizione, discute della “gioventù bruciata” con toni preoccupati, ripiegando in alcune circostanze su posizioni di pura repressione.

Un'impreparazione culturale nel comprendere quanto sta accadendo che va ricondotta alle profonde modificazioni che attraversano l'Italia del secondo dopoguerra e che non riguardano solo la struttura economico-produttiva ma l'intero sistema politico-istituzionale sorto all'indomani della fine della seconda guerra mondiale. Come è noto, nel suo disegno di nazionalizzazione e inquadramento della società italiana, il fascismo aveva dedicato molta attenzione alla fascia giovanile della popolazione. La costruzione di una complessa architettura di strutture organizzative (dai Gruppi universitari fascisti all'Opera nazionale balilla, alle Piccole italiane, alla Gioventù italiana del littorio), unitamente ad una pressante liturgia politica che si attivava attraverso una serie di manifestazioni e riti istituzionalizzati (si pensi al “sabato fascista”), avevano avuto lo scopo di disciplinare i giovani, fornendo loro un'identità passiva ed il più possibile aderente al modello ideologico voluto da Mussolini. Una gioventù che doveva vedere nel Duce una guida indiscussa, il garante e il depositario autentico del bene della nazione: il principale simbolo delle virtù italiche. Una generazione quella nata nel Ventennio, che non aveva sostenuto e seguito Mussolini alla presa del potere, ma che in qualche modo può essere definita “naturalmente fascista”, perché cresciuta sotto lo sguardo censorio di quel padre collettivo, seguendo modelli ideologici e comportamentali obbligati, finalizzati alla formazione da un lato dei cittadini fascisti ideali (guerrieri, coraggiosi, virili, atletici e rispettosi delle gerarchie), dall'altro di madri sane e patriottiche.

Ora, con la fine della guerra e la nascita della Repubblica, l'immagine di una “gioventù in divisa”, tanto cara all'iconografia fascista, viene spazzata via. Con il venire meno dell'embargo ideologico voluto dal Regime, i consumi, dalla musica rock ai jeans - ma si pensi in questo senso anche al boogie-woogie, introdotto dall'esercito americano con il chewing-gum e la Coca-Cola - e i miti (da Humphrey Bogardt a James Dean, a Marlon Brando) provenienti da oltre oceano e veicolati attraverso il cinema, che con il ballo all'interno delle balere, diventa uno dei passatempi più graditi, forniscono ad una parte dei giovani di casa nostra un primo apparato di simboli attorno ai quali avviare un'azione di distacco dai modelli precedenti. Ancora secondo S. Piccone Stella, attraverso la musica e l'abbigliamento scatta “una convergenza metasociale e precollettiva” (1993, p. 11) che spinge gli adolescenti verso la definizione di un'identità comune. Accanto alla centralità dei consumi all'interno della vita quotidiana dei più giovani, i mass media, la carta stampata e soprattutto l'industria cinematografica nazionale, tendono a diffondere l'immagine di una “gioventù perduta” che manifesta comportamenti devianti. In particolare, l'industria cinematografica, nel periodo contrassegnata dai film della scuola neorealista, produce una serie di opere (citiamo I vinti - 1952 - di Michelangelo Antonioni, Febbre di vivere - 1953 - di Claudio Gora, Gioventù alla sbarra - 1953 - che si anima di un inedito desiderio di libertà, e che punta, con comportamenti anomali, a sovvertire le norme morali sulle quali si articola il tessuto sociale in cui questa si muove.

Contestualmente, tra gli studiosi delle scienze sociali - bandite dallo scenario nazionale del periodo fascista attraverso l'alleanza tra culture idealiste e spiritualiste - la comunità dei sociologi, in cerca di un riconoscimento scientifico ed accademico (l'istituzione nelle università delle prime cattedre di sociologia si ha nella seconda metà degli anni Sessanta), intercetta il crescente interesse da parte dell'opinione pubblica che si interroga sul presunto scadimento morale della gioventù italica. Un nutrito gruppo di sociologi promuovono così, autonomamente o su sollecitazione delle stesse istituzioni pubbliche e scientifiche, una serie considerevole di ricerche empiriche (55 nel periodo 1950-1967) che hanno come oggetto di indagine quella che inizialmente viene definita la condizione giovanile e che verrà successivamente a tramutarsi nella più problematica questione giovanile. Con la stampa, quotidiana e periodica, e il cinema, le ricerche sociali forniscono il materiale documentale che delinea le immagini di questa gioventù; rappresentazioni che rinviano a soggetti, fatti e contesti diversi, ma per la prima volta in qualche modo sovrapponibili per un comune modo di vestire, di atteggiarsi, di pensare, che fuoriesce dai canoni attraverso i quali gli adulti del tempo tendevano a riconoscere i più giovani.

Un quadro di rappresentazioni sociali che spingono verso un'inedita convergenza della cultura cattolica e di quella comunista, entrambe fortemente critiche nei confronti del presunto processo di americanizzazione della società italiana. Nell'Italia attraversata dal clima della guerra fredda, i gruppi dirigenti del Partito comunista e della Democrazia cristiana guardano anch'essi con profonda preoccupazione a quanto sta accadendo all'interno del complesso universo giovanile. Un'attenzione che segue il crescente allarmismo sociale, non giustificato peraltro da dati oggettivi, e che trova i presupposti nella funzione più generale che i partiti svolgono nell'Italia di allora. Come detto sopra, con la fine della guerra, la complessa architettura messa in piedi dal fascismo per irreggimentare la società italiana era venuta meno. All'interno di quella che successivamente verrà definita “la repubblica dei partiti”, le forze politiche per l'appunto si trovano a svolgere il ruolo di nuovi interlocutori fra le masse e il paese da ricostruire. In modo particolare la Democrazia cristiana e il Partito comunista, le formazioni politiche con carattere di massa, devono affrontare il problema di confrontarsi con l'eredità di un regime che in qualche modo aveva saputo usare strumenti nuovi per organizzare il consenso, cercando di dare un orientamento nuovo alle masse fino ad allora inserite in un sistema imperniato sul partito unico. Un vuoto che i due maggiori partiti tentano di colmare con un'imponente rete organizzativa in grado di aggregare una parte consistente della popolazione e di catturane il consenso in una direzione o nell'altra. Un impegno questo che attraversa varie attività, passando dallo sport ai circoli ricreativi, dal teatro al cinema, dalle feste alla musica popolare e che si articola attraverso una serie di luoghi e organizzazioni ben definiti: accanto alle sezioni e alle sedi dei sindacati, troviamo da un lato le parrocchie e gli oratori, le Acli, i Comitati civici, l'Azione cattolica, dall'altro le Case del popolo, i circoli Arci, il Fronte della gioventù, la Federazione giovani comunisti italiani (FGCI). E proprio l'organizzazione del consenso dei giovani costituisce un elemento centrale all'interno di questa operazione politica - culturale. Un controllo che deve però fare i conti con una nuova gioventù al la quale, come abbiamo accennato sopra, manifesta una certa insofferenza verso gli abiti mentali ricevuti in eredità, presentando un nuovo modo di comportarsi e di pensare che si alimenta di simboli e che si articola attraverso riti, inediti e in qualche caso estranei alla tradizione culturale nazionale. A preoccupare la gran parte della classe politica, seppur con motivazioni spesso differenti, è soprattutto l'emergere tra i più giovani (ma non solo) di uno stile di vita american oriented , accompagnato da una nascente tensione al consumo, assunto come luogo di conflitto tra generazioni sempre più diverse per gli orientamenti di valore.





 

 

In questa direzione, la prima vera battaglia viene condotta nei confronti del rock'n'roll, accusato di aver fornito agli adolescenti di casa nostra, una carica di ribellismo e di trasgressione mai registrata in precedenza. La Chiesa e il mondo cattolico per parte loro, ancor prima dell'arrivo del rock‘n'roll avevano bollato il ballo come fonte di peccato. Nella Lettera pastorale sul ballo del 1948, Mons. Giuseppe Siri, vescovo di Genova, sottolineava le “circostanze” che di fatto rendono il ballo un'occasione di peccato, prima fra tutte l'incontro fra sessi diversi:

la promiscuità è acuita dal contatto; questo a sua volta è esagerato dal movimento stesso, dal facile uso di poco pudore, dalla anche più facile esaltazione libidinosa dei sensi, dalla compiacente tolleranza, anzi dalla suggestione maliosa dell'ambiente (Tonelli 1998, p. 141).





 

 

Con lo scoppio della febbre del rock sul finire del 1956 - i bar dotatisi di juke-box e flipper mettono in crisi il modello associativo proposto dagli oratori, in cui si gioca a ping-pong e si mette su una squadra di calcio o una compagnia teatrale -, le gerarchie ecclesiastiche intensificano la loro azione di demonizzazione del ballo, facendo leva sulle loro organizzazioni, in particolare sull'azione dei gruppi giovanili di Azione cattolica. Le maggiori pressioni psicologiche vengono esercitate nei confronti delle giovani affinché decidano di disertare le sale da ballo dove possono compromettere la propria condotta morale e correre il rischio di perdere la propria illibatezza, e conseguentemente, ogni possibilità di matrimonio conveniente. Anche da parte dei settori più avanzati della Chiesa, prevarrà nei confronti del divertimento preferito dai giovani un giudizio chiaramente negativo. Emblematico il caso di Don Lorenzo Milani. Il celebre parroco di Barbiana, che con Lettera ad una professoressa (1967) rappresenterà una dura critica nei confronti dell'istituzione scolastica italiana, ripresa poi dagli studenti protagonisti della contestazione studentesca del Sessantotto, considera il ballo inutile e dannoso “perché fa perdere tempo”: un tempo che i giovani dovrebbero impiegare diversamente e in modo più proficuo, studiando, meditando o magari dedicandosi agli altri.

Sul fronte opposto, l'America, patria del capitalismo e del consumismo, rappresenta per il PCI di quegli anni “l'impero del male”: i prodotti e i simboli del divertimento confezionati negli Usa dovevano essere respinti in nome della lotta contro il capitale che sfrutta e condiziona i gusti e i comportamenti delle masse. Il pericolo della colonizzazione culturale viene così avvertito in tutta una serie di svaghi che interpretano l'idea di evasione: cinema, fumetti, fotoromanzi. Strumenti che, presentando mondi romanzati e irreali, creano pericoli di imitazione di uno stile di vita non in linea con la tradizione nazionale. Intervenendo in questo dibattito, lo stesso Togliatti (1950), segretario del PCI, rivolgendosi ai giovani comunisti, si schiera contro “la tendenza all'evasione”, intesa come “uscita dalla realtà della vita”, stigmatizzando “la letteratura a fumetti”, “la soluzione illusoria presentata dal cinema americano”: sogni ingannatori che spingono i più giovani ad abbandonare la battaglia per i loro diritti e per le rivendicazioni contro le ingiustizie sociali. Sulla base di queste considerazioni, tra il 1949 e il 1950 il settimanale “Vie Nuove” (secondo un'indagine condotta successivamente, un terzo dei lettori del settimanale comunista è costituito da individui che non hanno più di trent'anni) 1 promuove alcune “inchieste sui giovani”, rivolte perlopiù ai temi del lavoro e dell'occupazione, al fine di evitare che “la famosa spensieratezza della gioventù” venga usata come “inganno per distogliere l'attenzione dei giovani dai problemi della loro esistenza e della lotta per la conquista di un mondo migliore” 2. Partendo da questi presupposti, è facilmente intuibile l'accoglienza che la cultura comunista riserva al rock'n'roll che fa la sua comparsa sul suolo italiano a metà degli anni Cinquanta. Ricorda Miriam Mafai, una delle più rappresentative dirigenti comuniste: “l'America era il male e la cultura antiamericana toccava il cinema, i fumetti, l'abbigliamento, i balli. In quel periodo non potevamo ballare il rock'n'roll e bere la Coca-Cola” (Tonelli 2003, p. 198). Mentre in alcune parti d'Italia i vecchi militanti si battono perché il rock non entri nelle feste organizzate all'interno delle Case del popolo, ancora dalle pagine di “Vie Nuove”, alcuni commentatori, raccogliendo le indicazioni del gruppo dirigente comunista, lanciano una dura critica all'indirizzo delle “musica ribelle”. Alfredo Orecchio (1956) in un articolo intitolato I fianchi di Elvis, si esprime così a proposito dello stile adottato dalla prima icona della storia del rock:

Presley, infatti, ha inventato diciamo, una sorta di nuova mimica sporcacciona, ne sapremmo usare altro termine. Il suo segreto sta solo in questo, non certo nei ritmi presi in sé. Egli non si limita a saltellare per battere il tempo sincopato delle sue canzoni, ma fa molto di più: ne sottolinea il ritmo agitando le parti inferiori del corpo in un modo e con una tecnica che di solito si ritrovano nei varietà di infimo ordine e nelle maisons closes.

In seguito anche “Nuova Generazione”, l'organo della Fgci, pubblicherà alcune foto del rocker americano accompagnate da didascalie che denunciavano “l'isteria e il parossismo” 3 che questo sembrava provocare attraverso le sue performance. Sempre il periodico dei giovani comunisti, nel corso del 1958, si scaglia contro la figura-mito di James Dean, morto in un incidente stradale nel 1956 e divenuto popolare in Italia come altrove grazie al successo del film Gioventù bruciata (così viene tradotto Rebel without a cause, uscito negli Usa nel 1955) , contestato per i suoi ritratti di un giovane che invece di assumere un ruolo critico all'interno del contesto sociale in cui si trova immerso “ritarda con ogni mezzo la sua trasformazione in uomo” indugiando “in una prolungata evasione e rifiutando con le sue forze di diventare un'altra unità della grigia folla degli adulti che lo impaurisce e che egli detesta” 4. In precedenza, nella primavera del 1957, “Vie Nuove” aveva dedicato al massimo rappresentante dei “ribelli senza causa” una serie di articoli che avevano ricostruito la sua vicenda biografica allo scopo di dimostrare la necessità di una tutela pedagogica da attivare nei confronti di una gioventù, quella nata nel dopoguerra all'interno dei paesi capitalistici, costretta suo malgrado a formarsi in un contesto sociale dominato da valori e simboli di riferimento negativi. Se i giovani cresciuti prima della seconda guerra mondiale avevano formato “una generazione robusta”, che “aveva fatto la guerra e la resistenza” e che “aveva nutrito grandi speranze e quando le aveva viste cadere aveva virilmente sopportato la delusione”, la generazione nata dopo “ha ignorato quegli impeti, quei sentimenti, quelle speranze. S'affaccia alla vita in un'atmosfera abbondantemente depurata e sterilizzata di quei riferimenti: un'atmosfera pigra e senza ideali, ufficiale, retorica, frigida” 5.

E proprio il settimanale “Vie Nuove”, fondato nel 1946 da Luigi Longo, allora vicesegretario del Partito comunista italiano, offre un punto di analisi privilegiato per l'indagine del rapporto tra subcultura social-marxista e processo di modernizzazione in corso nell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Diversamente da altre riviste interne alla cultura comunista, si pensi in particolare a “Rinascita” che aveva compiti ben definiti riguardo alla elaborazione della dottrina politica del partito comunista più grande dell'Occidente, “Vie Nuove” aveva assunto immediatamente un carattere popolare: il periodico doveva orientare ed educare i propri lettori, traducendo in forma semplice e attraente i messaggi che i dirigenti del partito volevano comunicare. In questa direzione, alla vigilia del boom , uno spazio sempre più ampio viene dedicato all'analisi dei caratteri della nascente società dei consumi di massa e agli inediti comportamenti sociali che su di essa si innescano. In particolare, la cultura giovanile in via di definizione, viene a più riprese indagata, spesso con lo scopo più o meno dichiarato, come si è visto, di associare le devianze messe in campo dai più giovani con il crescente grado di influenza che la cultura americana era venuta ad assumere nel paese. In tal senso, i giudizi espressi nei confronti del nuovo genere musicale nato negli Usa, vengono riproposti con l'emergere del fenomeno del teppismo giovanile che si manifesta sul finire degli anni Cinquanta, in coincidenza dell'avvio della rapida e intensa fase di modernizzazione. Benché la quantità e la qualità (in gran parte si tratta di furti di automobili e motociclette, blocchi stradali, disordini nelle sale cinematografiche) dei reati commessi non siano tali da determinare una situazione di emergenza, il problema della devianza giovanile assume nel corso del 1959 agli occhi dell'opinione pubblica una rilevanza tale da dare il via a un intenso dibattito attorno alla questione giovanile (espressione che a partire da quel momento viene ripresa costantemente negli articoli che si occupano di quanto accade tra i più giovani), che coinvolge genitori, psicologi, giuristi e rappresentanti del mondo politico. Ancora dalle pagine di “Vie Nuove”, nel sottolineare il disinteresse dei giovani per la politica e più in generale per le vicende che riguardano la collettività, e al polo opposto, la ricerca del successo personale come unico obbiettivo, i commentatori chiamati ad intervenire, sono concordi nell'imputare alla noia, alla cattiva educazione che spinge a desiderare il successo facile, senza sacrifici, e alla mancanza di una vera famiglia, le colpe della violenza giovanile. Aspetti in massima parte, si afferma, “prodotti della società neocapitalista”. Si legga in questo senso, quanto scrive Renato Nicolai nell'estate del 1959 a proposito delle cause che stanno alla base del fenomeno:

è un'esplosione di violenza meschina, dettata da complessi di inferiorità, dall'incapacità di percorrere costruttivamente le varie fasi della propria esistenza, per cui si vuole quella automobile, subito senza lavorare, invece che a quarant'anni, magari, quand'è possibile, quando la somma è stata messa insieme. C'è poi una città [Milano, che risulta la città in cui si registra il numero maggiore di atti teppistici che hanno per protagonisti i giovani] tutta tesa, in modo febbrile e convulso alla conquista di primati sociali ed economici individuali, per cui chi è meno preparato alle lunghe gimcane della lotta per affermarsi, finisce per prendere le scorciatoie.

O ancora sull'aumento del lavoro femminile extrafamiliare che condurrebbe ad una disgregazione della famiglia tradizionalmente intesa, il settimanale comunista sottolinea come i ragazzi coinvolti siano quasi tutti

figli di lavoratori, o comunque di famiglia dove tutti e due i genitori, nella maggior parte dei casi, hanno una occupazione che li tiene impegnati per tutto il giorno, per cui i figli sono abbandonati a sé stessi, nei cortili e nelle strade, senza alcun controllo sui loro giochi e sulle loro letture.

Una società quella italiana, prosegue il giornalista, che

vuole essere a tutti i costi, e molto spesso in modo velleitario, europea o addirittura americana. C'è un episodio, a questo proposito, assi grave e sconcertante. La Casa Editrice Ricordi, quella stessa che stampò le partiture di Verdi, ha organizzato qualche mese fa un festival dei ‘juke-box' al Palazzo del ghiaccio [di Milano]. Sono accorsi cinquemila giovani, che si sono scatenati in modo furioso, arrivando a violenze impreviste dagli organizzatori, tanto che alla fine dell'urlo generale e dell'ossessione collettiva, si poté fare un elenco dei danni. Sedie distrutte, mobili deteriorati, lacerazioni di stoffe e di arredi, si poterono contare a decine andando a costituire un bilancio piuttosto scoraggiante. […] È un tipo di ‘cultura', fondata sull'esplosione della violenza più incontrollata, a dettare ai quei cinquemila giovani atteggiamenti non molto dissimili da quelli comuni dei teddy boy. E qui si risale all'aspetto più ‘benestante' di questo fenomeno, al comportamento violento dei ragazzi appartenenti alle famiglie agiate o ricche. La spinta al teppismo […] nasce da una rivolta fraintesa alla vita pignola o comunque grettamente abitudinaria di molte famiglie della borghesia milanese, per cui i personaggi modello diventano il ‘complessato' James Dean o il selvaggio Marlon Brando che hanno quel tanto di anarchismo violento quanto basta per sembrare antiborghesi 6.

Analogamente, Romano Ledda, su “Rinascita”, pur riconoscendo che si tratta di un fenomeno che richiede ulteriori studi e analisi in grado di evidenziare con puntualità le diverse componenti sulle quali esso si articola (l'effettiva portata numerica, le cause dell'esasperazione, la diffusione fra i vari strati sociali), afferma che ci si trova di fronte

ad un fenomeno tipico e congeniale nella sua tendenza, anche se non nelle sue conseguenze, al bagaglio ‘ideale' che non la società, ma questa società capitalistica, non la vita moderna, ma il modo con cui si vogliono falsare i dati della vita moderna, offre alle nuove generazioni.

Giudizi questi che riflettono, almeno in parte, un sentire comune che attraversa buona parte dell'opinione pubblica italiana dell'epoca, come dimostra un'inchiesta della Doxa condotta su un campione di 1200 adulti. Dalle risposte degli intervistati se ne ricava infatti che fra le principali cause della delinquenza minorile è indicata la troppa libertà lasciata dai genitori ai figli; accanto a questa, l'ozio, la poca voglia di lavorare, la cattiva stampa, i cattivi fumetti, e ancora i cattivi divertimenti e i cattivi film, in particolare quelli provenienti dagli Stati Uniti, accusati di esaltare il sesso e le violenza (va ricordato che gli adolescenti sono tra i più assidui frequentatori delle sale cinematografiche: nel 1958, dei 758 milioni di biglietti venduti, circa 250 mila sono stati acquistati dai giovanissimi). In tale clima, emerge un forte sentimento censorio nei confronti di alcuni film: c'è chi vorrebbe bandire dalle sale cinematografiche del nostro paese i film di James Dean e del regista francese Marcel Carné, autore di pellicole come Les enfants du Paradis (1944, Amanti Perduti) e soprattutto di Les Tricheurs (in italiano “i bari”), fatto uscire in Italia nel 1959 con il titolo di Peccatori in blue jeans, titolo al tempo stesso ammiccante e preoccupato. In quest'ultima opera (vietata ai minori di 16 anni), in cui a caratterizzare i giovani protagonisti non sono i jeans quanto un abbigliamento “all'esistenzialista”, si descrivono bande di giovani violenti delle periferie parigine, i cosiddetti blouson noir, non molto diverse da quelle che stanno provocando scompiglio in Italia. Alcuni presidi intanto passano alle vie di fatto, proibendo di indossare i jeans a scuola, mentre il ministero dell'Interno, vieta l'uso dei flipper lungo tutto il territorio nazionale perché generano una “morbosa attrazione all'ozio” e una “trascuranza dei doveri individuali e familiari”.

Una tensione generazionale, che in qualche caso sfocia anche in violenza, quella manifestata dai giovani che non viene presentata dal PCI solamente come il derivato della cultura e dei valori che animano le società capitalistiche ma anche come il presupposto su cui una parte dell'industria fa leva per incrementare i propri guadagni. Da qui la forte polemica nei confronti dei luoghi, dei forum e dei prodotti sui quali si innesca la rivolta estetica e al tempo stesso esistenziale che molti ragazzi italiani mettono in scena a metà degli anni Sessanta, nel corso della cosiddetta “epoca beat”. A partire dal Piper, il locale romano inaugurato il 18 febbraio del 1965, considerato allora il tempio della musica beat. Da un lato si denuncia con forza lo scadimento morale che si registra nel comportamento che i giovani adottano all'interno del locale: “l'atmosfera” scrive Gianfranco Calligarich (1965) pochi giorni dopo l'apertura del Piper, “è orgiastica, senso di gigantesca promiscuità. […] Negli angoli in ombra coppie solitarie danzano slacciate compiendo con le mani precostituiti gesti polinesiani” (niente di più lontano dalle innocue balere in cui “i danzatori sono raccolti in se stessi, intenti al ritmo, coscienti soltanto del gesto che devono compiere” 7); dall'altro si sottolinea come questi locali off-limts per gli adulti, in realtà non siano altro che “macchine da soldi” costruite da imprenditori interessati solo al profitto. “Noi Donne”, rivista delle donne comuniste, si esprime così a proposito del fenomeno beat:

il mondo dello ye-ye e dello shake sono popolati di falsi modelli, presi dal mondo dello spettacolo […] È questo un mondo dove l'indipendenza giovanile si realizza? Per carità: gli adulti ci infilano il loro subdolo zampino: sui gusti degli adolescenti, sulle loro mode, infatti i ‘grandi' hanno impiantato un mastodontico ingranaggio commerciale che rende miliardi 8.

(Già in precedenza Pasolini - 1964 - chiamato a commentare l'impennata nella vendita dei 45 giri sotto la pressante richiesta dei giovanissimi, aveva definito “il mondo delle canzonette” “un mondo sciocco e degenerato”, “non popolare ma piccolo-borghese” e come tale, “profondamente corruttore”). Analogamente, a proposito del successo riscosso dalla minigonna che indossata furtivamente, rappresenta assieme ai jeans e ai capelli lunghi uno dei simboli più forti della protesta beat, “Vie Nuove” si esprime ironicamente sul “riformismo” insito nel capo disegnato da Mary Quant:

si va verso il popolo, con la mano tesa, per spillare quattrini, naturalmente, e sedurre le figlie degli abitatori degli slums, degli iscritti alle Trade Unions, con la bandiera mozza della minigonna. D'altro canto lo slogan maggiore della socialdemocrazia europea è quello del famoso rinnovamento dei costumi, e Mary Quant e suo marito [Alexander Plunket], in quanto costumisti rinnovatori, sono gli Eleonora e Carlo Marx dell'egemonia socialista di oggi. E così la coppia sovvertitrice, andando alla conquista dei mercati con bandiere rosse in pugno, è seguita da un esercito sterminato di fanciulle, che, per loro vesti sopra il ginocchio, possono ricordare le legioni di Cesare 9.

La rapida carrellata di commenti e giudizi tratti da alcune delle riviste che si richiamano al fronte comunista, offrono un buon osservatorio per ricostruire la visione delle trasformazioni interne al mondo giovanile elaborata dal PCI nel secondo dopoguerra. L'atteggiamento manicheo nei confronti dei prodotti e simboli made in Usa - che, come ricordato, rivestono un ruolo centrale nel processo di definizione di un apparato di simboli e riti autonomi e ben definiti da parte dei ragazzi e della ragazze italiani -, e più in generale nei confronti della nascente società dei consumi di massa, spinge ad utilizzare una lente di indagine deformante che non favorisce la comprensione di quanto sta accadendo, ossia l'emergere dei giovani come gruppo sociale autonomo e immediatamente riconoscibile. D'altro canto, i giudizi espressi dai diversi commentatori che seguono in buona sostanza la linea editoriale voluta dagli stessi dirigenti comunisti (nel caso del settimanale “Vie Nuove”, sappiamo che, durante la segreteria di Luigi Longo, la redazione del settimanale incontrava ogni lunedì i responsabili delle diverse commissioni di lavoro della direzione del partito allo scopo di fissare in termini generali i temi che si sarebbero dovuti affrontare nel numero successivo della rivista), sono, come si è accennato sopra, strettamente riconducibili alle rappresentazioni sociali dei giovani diffuse all'interno dell'opinione pubblica italiana di allora: l'idea secondo cui, nei confronti di questi giovani che manifestano una conflittualità generazionale, considerata innaturale, vada attivata una tutela pedagogica allo scopo di recuperarli al loro giusto ruolo, quello di “apprendisti adulti”, con una formazione e una educazione che si sviluppino ancora in senso verticale, all'interno della famiglia, attraverso un confronto rispettoso con i padri, con il passato, con le tradizioni e, nel caso del PCI, con i dettami dell'ortodossia politica comunista.

La convinzione di dovere formare dei giovani rispettosi degli abiti mentali chiamati ad ereditare e dei valori e dei codici comportamentali propagandati dal partito, si scontra con una realtà mutata, di segno completamente diverso. I giovani militanti, come dimostra l'evidente declino degli iscritti alla Fgci negli anni del boom (secondo i dati raccolti da Serri - 1981 - nel 1962 l'organizzazione contava appena 183.000 iscritti, che nel 1956 erano 358.000 e 230.000 nel 1960), sono sempre meno disposti ad anteporre la loro adesione al partito e i principi della dottrina comunista ai nuovi generi di divertimento, alle nuove forme di socializzazione che li accomuna ai loro coetanei, prescindendo dalle appartenenze sociali ed ideologiche:

I giovani - secondo la testimonianza di un anziano militante del 1960 - vengono poco alle riunioni, è difficile mobilitarli per il lavoro politico […] I giovani rispondono che alle riunioni si annoiano, perché noi anziani non siamo al corrente di cose culturali, sportive, cinematografiche […]. A loro piace il rock‘n'roll a noi, invece, l'opera lirica (Giachetti 2002, p. 18).

All'interno del convulso e contraddittorio processo di modernizzazione in atto nell'Italia del secondo dopoguerra, la gioventù irrompe sulla scena, affermando comportamenti, culture, mode radicalmente differenti da quelle del passato. Essere giovani diviene da questo momento in avanti un valore da rivendicare; nasce così un soggetto sociale che fa della sua collocazione all'interno del ciclo biologico la discriminante e il punto di aggregazione. Come scrivono i Rockes in una lettera inviata alla redazione di “Vie Nuove” nell'estate del 1966, nel pieno delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, “noi siamo assolutamente diversi dalla maggior parte degli uomini delle generazioni che ci hanno preceduti; siamo diversi da loro e simili tra noi in ogni paese” (Contro chi protestano i Rockes, Vie Nuove”, 30 giugno 1966). Un riconoscimento generazionale che travalica i confini nazionali e che si manifesterà con forza dirompente durante la contestazione studentesca, arrivando a definire un nuovo rapporto tra giovani e militanza politica che investirà anche i giovani militanti comunisti.

Referenze fotografiche
Le immagini riprodotte provengono dal database di imaGo on line (www.imago.rimini.unibo.it). Laboratorio di ricerca storica e di documentazione iconografica sulla condizione giovanile nel XX secolo.
Università di Bologna, Polo scientifico Didattico di Rimini, Dipartimento Discipline Storiche, Responsabile scientifico prof. Paolo Sorcinelli.

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