Adriano Guerra

Dal referendum alla Costituzione: il ruolo del PCI e di Togliatti


Il 14 febbraio 1946 la direzione del PCI si è riunita per decidere l´atteggiamento da tenere di fronte a due distinte proposte di referendum: la prima riguardava la questione della monarchia e la seconda la natura e l´ampiezza dei poteri da assegnare all´Assemblea costituente. Pietro Nenni aveva accettato - e anzi proposto - che il referendum istituzionale avesse luogo il 2 giugno insieme all´elezione dei deputati della Costituente, ma Togliatti era pieno di dubbi. Per il segretario del PCI prioritario era dar vita alla Costituente e solo successivamente si sarebbe dovuto affrontare la questione monarchica. E questo per una serie di ragioni che riguardavano prima di tutto gli orientamenti della DC. Che voleva in realtà De Gasperi? Forse - sono le parole di Togliatti - «la Repubblica col crocefisso e col Papa presidente»?

Incertezza e diffidenza dunque. Né diverso era l'atteggiamento di De Gasperi verso il segretario del PCI.
I due uomini. Per il capo della DC egli era «l´uomo venuto da Mosca». Per Togliatti l'altro era «l´uomo venuto da Vienna e dal Vaticano». Ma le preoccupazioni di Togliatti non riguardavano soltanto De Gasperi e l´idea di Stato che a quest'ultimo veniva attribuita. Quel che il segretario del PCI temeva era che prima del referendum o subito dopo si potesse giungere, con la sollevazione di forze monarchiche ad un vero e proprio colpo di Stato. Né la minaccia veniva soltanto dai monarchici. Anche altre, e ben più importanti, erano infatti le forze presenti sul campo: come si sarebbero mossi gli alleati, «Come non pensare - si domandava Togliatti - che essi sceglieranno di stare con la monarchia?» E, giacché questo potrebbe accadere, «non può essere opportuno eleggere prima la Costituente così da aprire subito la strada alla nascita del nuovo Stato, e solo dopo 7 o 8 mesi dar vita al Referendum sulla monarchia?».

Pesanti interrogativi erano dunque nell´aria. D´altro canto non solo in Italia ma in tutto il mondo il 1946 si presentava come un anno di incertezze. Il fascismo era stato battuto e dunque una pagina nuova era stata aperta nella storia dell'umanità. Coalizioni di partiti antifascisti erano poi al governo in un´Europa ancora sostanzialmente unificata, nonostante la presenza delle forze di liberazione-occupazione angloamericane e sovietiche. Ma che cosa riservava il futuro all'Europa? Che ne sarebbe stato della «Grande alleanza antifascista»? Avrebbe retto, e sino a che punto, e sino a quando, nella nuova situazione?

Il discorso di Fulton di Churchill, quello sulla «cortina di ferro», è del 5 marzo e la prima grave rottura fra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica si sarebbe verificata pochi mesi dopo a Parigi sul trattato di pace con la Germania. Certo in Italia e in Francia nonché in una serie di altri paesi dell'Europa occidentalen i comunisti erano al governo insieme ai «partiti borghesi» e ad Est nella Cecoslovacchia Eduard Benes rimaneva presidente della Repubblica nonostante il successo dei comunisti alle elezioni del 26 maggio. Ma gli equilibrii apparivano sempre più fragili. Anche a Mosca gli interrogativi erano inquietanti. Nello stesso momento in cui avrebbe dovuto dare avvio alla ricostruzione, il paese era sconvolto da una paurosa siccità che fece un numero straordinariamente grave di vittime. Nell´Ucraina intanto, erano ancora in corso conflitti militari assai gravi e sanguinosi contro le formazioni nazionalistiche che i tedeschi avevano armato e poi abbandonato sul posto. Nel 1946 l'Urss - mentre già si annunciavano i primi segni di ritorno alla restaurazione dei metodi stalinisti - era un paese stremato. E di fronte aveva gli Stati Uniti che al culmine della loro potenza economica e militare, avevano acquisito il monopolio della bomba atomica. Come avrebbe risposto Stalin alla sfida? In particolare in Italia di fronte ad un colpo di Stato monarchico appoggiato dagli anglo-americani?

Le ragioni che hanno reso nervosa e incerta la giornata elettorale del 2 Giugno erano insomma più d´una e tutte motivate. Luciano Barca ha descritto nel suo Diario la «lunga notte» della redazione de l´Unità fra il 3 e il 4 giugno, con Togliatti nella stanza del direttore «attento e teso a ogni telefonata» e nei vari uffici e nel corridoio, confusi tra i redattori, Luchino Visconti, Renato Guttuso, Sergio Amidei, Massimo Girotti, Mario Mafai, Beppe de Santis, tutti in ansiosa attesa. La notizia della vittoria repubblicana divenne certa però solo nella notte tra il 4 e il 5, «dopo quarantott´ore di snervante attesa e incertezze con la prima pagina fatta e rifatta più volte».

Ma dove sarebbe andata l'Italia? Una risposta chiara non venne neppure dal risultato delle elezioni per la Costituente che videro la DC ottenere il 35,2% dei voti, il PSI il 20,7% e il PCI il 18,9%. I comunisti considerarono i risultati deludenti. Qualche tassello incominciava tuttavia a trovare una collocazione. Il 13 giugno Umberto II lasciava il paese per raggiungere il Portogallo e il successivo 25 l'Assemblea costituente apriva i lavori eleggendo alla Presidenza Giuseppe Saragat, che era ancora uno dei massimi dirigenti del Partito di Nenni (la scissione socialdemocratica sarebbe avvenuta pochi mesi dopo, nel gennaio 1947). Ma incertezze e preoccupazioni erano ovunque presenti. Le forze fasciste, in più di un caso con l´appoggio - in funzione antisovietica - dei «servizi» americani e del Vaticano, si riorganizzavano anche come «fascismo armato». Ed è stato allo scopo, definito prioritario, di impedire che la situazione potesse degenerare sino a coinvolgere in una vera e propria «guerra civile» l'intero paese con conseguenze drammatiche, che Togliatti spinse decisamente per la promulgazione dell´amnistia e per l'avvio di un dialogo con forze della destra, anche monarchiche, qualunquiste ed ex fasciste, orientate però a non dare il loro appoggio a politiche di restaurazione. Nello stesso periodo nella sinistra gruppi minoritari, ma non per questo trascurabili, parlavano di «Resistenza tradita» e nell´agosto circa 1.300 partigiani del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, ripresero le armi e tornarono alla macchia. (Per convincerli a tornare si mossero tra gli altri anche Pietro Secchia e Pietro Nenni). Non fu insomma una passeggiata tranquilla quella che portò alla nascita della Repubblica antifascista.

Nel corso della riunione della Direzione del PCI del 2 agosto dedicata anche ai temi da introdurre nella Costituzione, Togliatti pose la questione in termini che aiutano a capire la natura e la complessità dei problemi - di linea e anche di identità - che il PCI doveva affrontare. Scartata la «prospettiva greca» si trattava non solo di mettere radici in tutto il paese, ma di fare i conti con una serie di questioni che i comunisti non avevano prima d´allora affrontato: quelli riguardanti anzitutto le forme e le «regole del gioco» di quella democrazia che la tradizione comunista aveva definito, e ancora definiva, «borghese» e «limitata» perché inevitabilmente «di classe». Togliatti pose la questione nel modo più esplicito: «Dobbiamo proporre una Costituzione nostra o inserirci in quella che presentano i democristiani?» Per poi aggiungere: «Se presentiamo una Costituzione nostra dovremo poggiarla su dei principi socialisti: carattere laico della Costituzione, trasformazione della struttura economica del paese. Vi sono delle rivendicazioni regionali che possono avere carattere socialista…»

Il segretario del PCI pensava, certamente con interesse ma anche con preoccupazione per le inevitabili difficoltà che si sarebbero incontrate nel dare ad esse una risposta, alle spinte verso le nazionalizzazioni che venivano dalle città operaie del Nord ma anche alle richieste dei braccianti del Sud. Fausto Gullo si dichiarò d'accordo con l´idea di presentare da parte del PCI un progetto di Costituzione e Umberto Terracini - che poi firmerà insieme a De Nicola la Carta - contrario, ma ormai la Costituente con le sue commissioni era al lavoro. E avrebbe continuato a lavorare non per dare all´Italia una Costituzione comunista o democristiana, ma un documento, quello appunto che approvato il 22 dicembre entrerà in vigore il 1° gennaio 1948, nel quale tutte le forze antifasciste si sarebbero riconosciute. E questo nonostante il viaggio negli Stati uniti di de Gasperi (gennaio 1947), l´uscita nel successivo maggio dei comunisti e dei socialisti dal governo, l´avvio nel marzo con la «dottrina Truman» della politica americana del «contenimento», la nascita, nel settembre 1947 del Cominform con le critiche di Stalin al PCI. E tutto ciò nello stesso momento in cui nel paese più forte e lacerante si presentava il contrasto fra le forze politiche di governo e di opposizione.

Anche per essere nata nonostante gli elementi di rottura prima indicati, la Carta venne considerata in un primo tempo come un documento di compromesso. Un compromesso certamente positivo - come ebbe a dire ad esempio Meuccio Ruini presentando i lavori della commissione incaricata di stendere il progetto - perché realizzava il «sostanziale accordo circa gli obiettivi di fondo dei cattolici, dei liberali e dei marxisti», ma anche, incerto e congiunturale perché aderente - il giudizio è di Piero Calamandrei - «alle contingenze politiche dell´oggi e del prossimo domani», e dunque «poco lungimirante». Calamandrei rivide poi quel suo primo giudizio, ma forse, a mezzo secolo di distanza da quei giorni, può essere opportuno rileggere l´intervento pronunciato da Togliatti nel corso della seduta dell'Assemblea costituente dell'11 marzo 1947. Quel che bisognava evitare ad ogni costo, - disse il segretario del PCI - è di trascinare le ideologie all'interno della Costituzione, della sua scrittura e della sua lettura. E questo perché «l'ideologia non è dello Stato, l'ideologia è dei singoli o dei partiti». Per questo - continuò dando una risposta al quesito sulla questione posta, come si è visto, l'anno precedente - il PCI non pone il problema di una Costituzione socialista («La costruzione di uno Stato socialista - disse - non é il compito che sta oggi davanti alla nazione italiana») e invita a lavorare per redigere «la Costituzione di tutti i lavoratori italiani, di tutta la nazione». Nel momento in cui, avanzando la teoria dei «due tempi» Togliatti lasciava ancora socchiusa la porta a coloro che si attardavano ad aspettare l´«ora X» di una possibile successiva «Seconda Costituzione», venivano alla luce quelle che sarebbero state poi definite le «doppiezze» e le contraddizioni del PCI. Quel che colpisce è tuttavia che Togliatti evitasse di parlare di «compromesso». Alla base della Costituzione doveva esserci un «accordo». E un accordo che aveva il compito di assicurare al paese - disse - tre beni fondamentali: «la libertà e il rispetto della sovranità popolare, l'unità politica e morale della nazione, il progresso sociale, legato all'avvento di una nuova classe dirigente». Nel corso dei dibattiti sugli articoli della Carta le divergenze politiche e quelle ideologiche fra la sinistra e la DC, ma anche fra il PCI e i socialisti che insieme ai liberali, ai repubblicani e agli azionisti si muovevano talvolta a sostegno delle posizioni più radicali, si fecero sentire. Esse, come rilevò alla fine Ruini, non divennero mai però «conflitto e contrasto circa i contenuti della nuova democrazia».

Se su queste basi è stato possibile raggiungere un accordo di portata storica è certo in primo luogo perché le forze politiche presenti nell'Assemblea costituente hanno saputo guardare alla Costituzione da scrivere come a qualcosa che avrebbe dovuto essere patrimonio di tutti. E questo atteggiamento è stato dominante nello stesso momento in cui non solo queste stesse forze erano impegnate fuori dall´aula in una duro confronto politico, ma, dopo la rottura dell'unità antifascista, operavano con la crescente consapevolezza che il ritorno fra di esse a forme di collaborazione doveva essere, e per una fase storica che si preannunciava lunga, del tutto escluso.

Oggi, mentre il paese si trova di fronte al problema di difendere, bocciando le modifiche imposte a maggioranza dal centro-destra, quel che è nato il 2 Giugno 1946, siamo certamente in una situazione del tutto diversa. Ma è difficile non guardare alla lezione che viene a noi dai protagonisti di quella grande battaglia politica, come a qualcosa di attuale e di valido. Soprattutto se si vuole introdurre nella Carta - con lo stesso metodo adottato dai costituenti nel 1946-47 - quelle modifiche rese necessarie dai mutamenti intervenuti nella nostra vita nel mezzo secolo che ci separa da quei giorni.

Nicola Tranfaglia

Alle origini di una vittoria antifascista


La repubblica nasce sul piano istituzionale il due giugno 1946 quando dodici milioni di italiani votano al referendum per la nuova forma di stato e costringono Umberto II di Savoia, re da un mese, ad abdicare.

I tentativi, numerosi in questo sessantennio a livello politico più che storico, di dimostrare che i voti della repubblica furono meno di quelli della monarchia, sono regolarmente falliti. Ma se questo è l´epilogo finale della scelta popolare, rafforzata dall´adozione il primo gennaio 1948 di una costituzione democratica tra le più avanzate del continente europeo,bisogna ricordare che le origini dell´Italia repubblica furono difficili e tormentate. L´Italia usciva da vent´anni di una dittatura come quella fascista che si era rivelata nel corso degli anni sottile e crudele, caratterizzata da una politica estera sempre più tesa alla militarizzazione e alla guerra, governata da un sistema repressivo sempre più solido che prevedeva il Tribunale Speciale e il confino per chi non era d´accordo e nello stesso tempo da una martellante manipolazione delle coscienze, caratterizzata negli anni trenta dall´antisemitismo e dalla goffa imitazione del modello nazionalsocialista. Quella dittatura, affermatasi nel 1922 attraverso una dura reazione di classe che vedeva schierate,accanto a Mussolini, la Chiesa cattolica, la Confidustria, i proprietari terrieri e gran parte dell´aristocrazia, della grande e della piccola borghesia, aveva sciolto i partiti, chiuso i giornali liberi, sostituito un unico sindacato fascista ai sindacati cattolici e a quelli socialisti, abolito lo sciopero e ogni altra arma di difesa dei lavoratori. Dove c'era stata una cultura libera e pluralista, pur nei limiti di un´aspra divisione tra le classi sociali, il fascismo al potere aveva introdotto nell´esercito come nella scuola testi di stato e discriminanti tutti gli insegnanti che non accettavano di giurare fedeltà al governo fascista.

Le nuove generazioni, cresciute senza conoscere la società liberale del passato, erano passate quasi tutte attraverso una fase più o meno lunga di entusiarmo per il regime ed erano state educate alla guerra e all'esaltazione del Duce, Benito Mussolini. Fu soltanto di fronte allo scoppio del secondo conflitto mondiale, al fallimento della guerra parallela che il dittatore tentò di condurre accanto alla Germania nazista, andando incontro a disastrose sconfitte in Grecia e nell'Unione Sovietica, che una parte dei giovani incominciò a comprendere l´abisso che c´era tra l´ideologia e le immagini mirabolanti della dittatura e la realtà sempre più misera di fronte a cui si trovavano. Basta leggere le tante lettere di giovani pubblicate e commentate in quel libro straordinario che ha scritto all´inizio degli anni novanta Claudio Pavone sulla moralità nella resistenza (Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991) per rendersi conto del cammino tormentato di quelli che erano cresciuti negli anni della dittatura e a poco a poco, attraverso l´esperienza diretta della guerra o quella della fase totalitaria del regime, si erano allontanati dalla retorica dell'impero, del Duce e della «rivoluzione fascista» ed erano giunti a pronunciare parole che in Italia avevano perduto il loro significato, a cominciare dalla libertà e dalla democrazia. Oppure seguire il percorso difficile di Giovanni Pirelli che nel 1938 si era arruolato volontario per combattere con l´esercito che andava alla conquista della Francia e poi della Grecia e della Russia, aveva sperimentato la colpevole incoscienza con la quale i regime e i comandi militari mandarono centinaia di migliaia di soldati e di ufficiali a morire ed era arrivato, nella tragica ritirata di Russia a scrivere ai genitori frasi pesanti di significato come quella del gennaio del 1943 dal fronte: «Gennaio....crollo di tutte le illusioni, di tutte le speranze... Terribile fardello di responsabilità di tutti». (Giovanni Pirelli, Un mondo che crolla, a cura di Nicola Tranfaglia, Rosellina Archinto editore, 1988).
Gli esempi, le testimonianze sono così numerosi che si potrebbe continuare per molte pagine ma il processo di allontanamento dal regime e dall´ideologia fascista è ormai evidente: il fascismo li aveva educati senza possibilità di confronto con altre realtà che essi non conoscevano o a cui si avvicinavano con la lente deformante della propaganda e soltanto la conoscenza di altri giovani che avevano avuto, nonostante tutto, un´altra formazione o la diretta esperienza delle menzogne della dittatura attraverso la guerra poteva condurli a un esame di coscienza e una scelta di vita quale fu quella della resistenza alla Repubblica sociale italiana e al suo alleato-padrone nazista. Sappiamo, non da oggi, che ci furono anche giovani che conclusero il proprio esame di coscienza, o non ebbero la forza di farlo ,e decisero di confermare la propria fedeltà al fascismo alleato alla Germania di Hitler. Scelsero in questo modo di condividere gli obbiettivi di quell'Asse nazifascista che aveva tentato di conquistare il mondo con la parola d'ordine della razza e del primato ariano ma anche dello sterminio degli ebrei e dei diversi (zingari, omosessuali, slavi). Questi sono i fatti consegnati alla storia e il rispetto che si deve alle vittime e ai caduti di ogni colore non può in nessun modo modificarli.
Quando vediamo che l'amministrazione di destra di Trieste ha riportato negli anni scorsi agli onori la figura di un collaborazionista o addirittura di un ufficiale delle SS o in qualche comune italiano si vuole intitolare ancora una strada al ricordo del Duce, non possiamo che constatare la perdita di memoria di un paese e chiederci di chi siano le responsabilità di un simile, clamoroso passo indietro. Certo é che per venti mesi l'Italia fu percorsa da un´occupazione brutale come quella delle truppe fasciste e naziste, dallo sviluppo di un sistema di campi di concentramento e di prigionia di cui soltanto negli ultimi anni si sta cercando di ricostruire la mappa e la storia, da una serie di stragi compiute soprattutto dalle SS e dalla Wermacht con la complicità a volte attiva, a volte passiva e non per questo meno colpevole, delle Brigate Nere e degli altri corpi militari che composero l´esercito di Salò. Un paese martoriato dalla guerra e dalla miseria che doveva contare i suoi lutti quotidiani provocati dalle rappresaglie naziste, le case e le strade distrutte, le rovine di una classe dirigente che aveva portato il paese al disastro, l´esistenza difficile e al limite della sopravvivenza delle classi popolari, dei contadini e degli operai che per vent´anni avevano perduto ogni possibilità di parlare e di far valere i propri diritti.

Ci fu una resistenza combattente che nelle città e nelle campagne non sconfisse da sola gli occupanti ma che rese loro difficile la vita e preparò in maniera costante ed efficace la sollevazione finale delle masse e l'arrivo degli alleati. E, accanto ad essa,ci fu la resistenza civile di tanti donne e uomini che non combatterono sulle montagne ma che cercarono di difendere la propria vita e la propria libertà preparando un avvenire diverso. Si sono fatti, soprattutto negli ultimi anni, calcoli complicati per dimostrare che la maggioranza degli italiani stesse a guardare senza parteggiare per l'una o l´altra parte che combatteva, qualcuno ha parlato di una non meglio definita «morte della patria» ma nessuno ha potuto negare, a cominciare da Renzo De Felice nella sua ponderosa biografia di Mussolini, che la scelta di abbandonare il fascismo, di impegnarsi nella lotta contro l´occupazione fascista e nazista per costruire un paese democratico, fu una tappa decisiva per l'avvenire democratico dell'Italia. A ripercorrere i giornali e le riviste clandestina della resistenza, pur differenti e a volta in polemica tra loro, si ha ancora oggi la sensazione di una pagina nuova della nostra storia, di un ritorno agli ideali di libertà e democrazia che gli antifascisti, in carcere o in esilio, avevano difeso e sostenuto per un ventennio e che ora finalmente erano vittoriosi e costituivano anzi la base dello Stato che sarebbe succeduto alla dittatura fascista. Ed é da quelle idee, da quella battaglia contro i totalitarismi che nacque nei venti mesi della guerra sul nostro territorio ed ebbe origine una nuova Italia, finalmente vicina ai paesi che non avevano conosciuto il fascismo e il nazismo e che avevano mantenuto le proprie libertà nel periodo tra le due guerre mondiali. Comunisti, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani, cattolici seppero dalla conclusione della guerra e della resistenza al referendum e poi al varo della Costituzione repubblicana infondere negli italiani la forza e l´entusiamo necessari per fondare un nuovo Stato. L´eredità del fascismo era difficile e molti tra i vizi di quel regime trasmigrarono nell´Italia repubblicana - dobbiamo riconoscerlo - ma si trattò in ogni caso di un grande cambiamento, di una pagina della quale tutti gli italiani dovrebbero, a distanza di sessanta anni, conservare e trasmettere alle nuove generazioni il valore e il significato. Tanto più oggi che ci troviamo di fronte a un partito nato da un calcolo personale e aziendale come Forza Italia, che si è fatta erede di fatto della tradizione fascista e che tenta di impedire al governo delle forze di centro-sinistra che hanno vinto le elezioni di governare e cancellare le controriforme dell´ultimo quinquennio.

l'Unità, 30.05.06

Giovanni Visone

La retorica dei brogli e dell'Italia divisa

Si cominciò a parlare di brogli prima ancora che arrivassero i definitivi risultati elettorali. Se ne continuò a parlare nei dieci, caldissimi, giorni successivi al voto, fino alla partenza di Umberto II per il Portogallo. E ancora oggi i monarchici italiani non ci stanno: per loro la sconfitta della monarchia sabauda nel referendum istituzionale del 2 giugno fu una truffa, un´usurpazione della volontà degli elettori, un gigantesco inganno. Praticamente un colpo di Stato.

«I ricorsi per brogli furono 30 mila e non vennero esaminati – accusa per il sessantesimo anno consecutivo l´Unione monarchica italiana - un miilione e 500 mila schede nulle e bianche furono distrutte. Gli italiani delle colonie ed ex centinaia di migliaia di prigionieri di guerra che non avevano voluto aderire alla Repubblica sociale italiana non votarono, insieme ad intere province, come Bolzano, Trieste, Fiume, Pola e Zara».

I numeri a cui guardare, però, sono altri. Non fu plebiscitaria la vittoria della Repubblica. Ma neanche risicata. Un margine di due milioni di voti: 12.717.923 contro i 10.719.284 per la Monarchia. Una percentuale superiore al 54%. Insomma, un risultato netto. Tanto più che la Corte di Cassazione alla fine delle operazioni di controllo delle schede contestate e dei verbali assegnò 45mila voti in più alla Repubblica, 30 mila in più alla monarchia.

Il primo a non accettare la realtà della sconfitta fu tuttavia proprio il principale sconfitto, il re Umberto II. Segno che l´abdicazione di Vittorio Emanuele III e il suo esilio volontario in Egitto, con l´ascesa al trono del figlio, non mirava e non poteva mirare ad una transizione morbida della monarchia verso un nuovo assetto costituzionale. Ma puntava, semplicemente, alla difesa dello status quo: una simbolica continuità istituzionale che cancellasse la lacerazione dell´8 settembre e le ragioni profonde del rinnovamento portato dal fronte antifascista.


Il re si ribellò ai numeri subito dopo la diffusione dei risultati provvisori che assegnavano un´inconfutabile vittoria alla Repubblica. Per dieci giorni si rifiutò di trasferire i suoi poteri di capo dello Stato al presidente del consiglio Alcide De Gasperi, così come previsto dalla legge che lui stesso aveva firmato. Fu il governo, in assenza di un passo del sovrano, a prendere atto dei risultati proclamati dalla corte di Cassazione e, nella notte fra il 12 e il 13 giugno, a nominare capo dello Stato provvisorio il leader della Democrazia cristiana. Umberto II lasciò l´Italia il 13 giugno senza abdicare e lanciando un proclama nel quale invocava ulteriori verifiche sui voti ancora contestati e sui ricorsi presentati da parte monarchica, chiedeva di sospendere la proclamazione dei risultati ufficiali, e gridava contro il «gesto rivoluzionario» compiuto dal governo, un «atto unilaterale e arbitario».

Così dal giugno 1946 il mito dei brogli alimenta la retorica di una vittoria sofferta, lacerante, dimezzata. È la retorica parallela di un´Italia sofferente, lacerata, spaccata in due. Una retorica intrisa di rancore, che tuttavia, rivista a sessant´anni di distanza, non cambia il bilancio della storia: gettando poco più di una breve ombra di delegittimazione sui vincitori ma condannando all´oblio e alla progressiva marginalizzazione gli sconfitti.