Luigi Longo

I centri dirigenti del PCI nella Resistenza

(Introduzione a I centri dirigenti deI PCI nella Resistenza, Ed. Riuniti, 1973)


Pubblichiamo le lettere ed i documenti scambiati durante la Resistenza tra i centri di direzione di Milano e di Roma del PCI. Con questa pubblicazione pensiamo di fornire un nuovo contributo per la migliore comprensione della recente storia d'Italia e dello spirito antifascista attuale, del valore della Resistenza più vivo che mai, le cui radici più profonde risalgono a quel periodo.

La maggior parte di questi documenti è inedita. Elaborati e scritti nella più stretta clandestinità, essi riflettono con grande vivacità il travaglio politico ed il fervore di lotta degli anni 1943-45 ed anche le condizioni drammatiche nelle quali operavamo.

Le stesse traversie, passate da questi documenti per tornare a noi dopo trent'anni, potrebbero fare storia a sé. Via via che venivano raccolti in Italia, i documenti furono inoltrati all'archivio dell'Istituto del marxismo-leninismo di Mosca, che pensavamo fosse, a ragione, il luogo più sicuro per custodirli. Infatti è li che, approfittando di una permanenza nella capitale sovietica, li abbiamo ritrovati e riportati alla luce.

Perché rendiamo pubblico questo carteggio? La pubblicazione si iscrive nel solco della decisione, presa in occasione del 50° anniversario del PCI, di portare a conoscenza del partito, del movimento operaio, dell'opinione pubblica e degli studiosi la storia nostra. Su questa strada molto abbiamo fatto negli ultimi anni meritandoci anche il riconoscimento di studiosi, storici e ricercatori non comunisti. Molti ed importanti sono i documenti di interesse storico-politico già pubblicati da nostri editori e da altri. Sulla base di questo materiale, negli ultimi anni, c'è stata una fioritura di memorie, di studi, di contributi regionali e locali che hanno reso più ricco e completo il quadro della storia del nostro grande partito.
Non può sfuggire l'importanza che assume, sotto tutti gli aspetti, la pubblicazione dei documenti raccolti in questo volume. In essi, infatti, si trovano le motivazioni politiche, ideali e organizzative del ruolo che il PCI ebbe nella Resistenza contro i nazifascisti, nella quale operò come la forza più decisa, più unitaria e più consapevole della propria funzione nazionale.

Ci sono anche gli elementi necessari per comprendere il processo di sviluppo politico ed organizzativo del PCI in uno dei momenti più importanti della sua storia, quando esso usciva dalla cospirazione e riprendeva a «fare politica». Il carteggio infatti illumina i modi di lavoro, di direzione degli organismi centrali del partito nel periodo chiave della Resistenza, i loro rapporti con la base, il modo in cui i quadri dirigenti comunisti si sono formati e temprati, nella lotta e nel dibattito politico ed ideologico.

Tutto ciò dimostra, a nostro avviso: primo, che se il nostro partito, già in quel breve periodo, è passato da pochi nuclei di quadri con esperienze e preparazione diverse ad un grande partito di massa è perché ha saputo «fare politica», ha saputo cioè affrontare tutti i molteplici problemi che gli eventi ponevano al paese ed alle masse, con il contributo di tutto il partito; secondo, è perché ha appreso nella lotta che non si fa politica verso l'«esterno» senza una vivace vita e dialettica interna, senza cioè un continuo dibattito politico, al quale partecipino attivamente tutti i militanti; terzo, è perché ha dimostrato con l'esempio che il centralismo democratico e la disciplina di partito non devono impedire il dibattito, neppure nelle condizioni più dure della illegalità e della lotta armata.

Naturalmente, a distanza di trent'anni, le varie affermazioni e posizioni contenute in questo carteggio possono essere oggi suscettibili di un riesame critico da parte degli stessi compagni che allora le formularono. In ogni caso, esse non possono essere invocate per avvalorare o negare impostazioni e posizioni assunte in altre condizioni e situazioni. Sarebbe poi del tutto vano ed ozioso voler stabilire una coerenza puramente verbale tra posizioni assunte in situazioni e tempi diversi, astraendo dalle concrete realtà a cui, di volta in volta, ciascuna di esse si riferisce. Ogni posizione politica deve essere valutata, appunto, in rapporto agli obiettivi ogni volta propostici, nonché all'incidenza avuta dalla nostra azione nel fare avanzare concretamente una linea in coerenza con gli scopi generali perseguiti, anche se per motivi vari non sempre e non tutti sono stati ogni volta raggiunti.

Ma sul carteggio qui pubblicato ci proponiamo di ritornare ancora in un prossimo lavoro, in cui esamineremo singolarmente le varie questioni di orientamento politico e di lavoro pratico risultati dalle lettere, proponendoci di trarre da questo esame riflessioni e considerazioni più approfondite.

Il carteggio ha inizio dall'indimenticabile 1943. Dopo la caduta di Mussolini e col governo Badoglio, il PCI venne a trovarsi all'improvviso in una situazione e in condizioni di lavoro del tutto nuove, nonostante fosse ancora costretto alla illegalità e alla osservanza rigorosa delle norme cospirative. Si sa infatti che la repressione anticomunista non solo non disarmò subito, dopo la caduta di Mussolini, ma per un po' crebbe ancora di brutalità e di ferocia. Si ricordi a questo proposito la famosa circolare Roatta, la quale ordinava che contro «qualsiasi perturbamento dell'ordine pubblico» le truppe «procedano in formazioni di combattimento», come se si procedesse contro il nemico, senza «tirare in aria mai». Caduto il fascismo, per lunghe settimane si pretese di non liberare dal carcere e dai luoghi di deportazione i comunisti, mentre tutti gli antifascisti di altro orientamento, eccezione fatta per gli anarchici, venivano rimessi immediatamente in libertà.

Il partito, nonostante tutto, avvertì subito le nuove possibilità di lavoro che si aprivano e si dette a sfruttarle con il massimo impegno. Stabilì perciò un rapporto più vasto ed immediato con le grandi masse che, col precipitare degli eventi, apparivano ben disposte a corrispondere all'iniziativa nostra.

C'era del nuovo in Italia. La situazione non era più immobile. L'azione dei comunisti veniva ad assumere un'incidenza reale sugli orientamenti e sull'azione delle masse popolari. Ciò accadeva per la prima volta dopo il breve periodo del delitto Matteotti e dell'Aventino. Saltavano gli argini dell'«ordine» fascista imposto e mantenuto col terrore per un ventennio, ed irrompeva la piena popolare.

I partiti, i movimenti politici tradizionali, che erano scomparsi nel gorgo del ventennio nero, riemergevano per iniziativa di vecchi militanti e personalità che l'ondata fascista non aveva travolto o per iniziativa di giovani che si richiamavano a valori ed insegnamenti del passato.

Noi comunisti raccoglievamo nella nuova situazione i frutti della dura cospirazione e del lavoro clandestino svolto per vent'anni sotto la dittatura fascista.

In quel lungo periodo si erano maturati, temprati ideologicamente e politicamente, nel paese, nelle fabbriche, nelle carceri e nei luoghi di deportazione o in esilio, solidi nuclei di compagni che lo studio ed il lavoro illegale avevano preparato ai compiti dell'auspicato e previsto postfascismo. Anche se le forme e i modi in cui si giunse a questo sbocco furono tanto diversi da quelli immaginati in carcere, ciò non tolse che i comunisti, appena usciti dai luoghi di detenzione o rientrati dall'esilio, e quelli che erano rimasti in libertà in Italia, si ritrovassero insieme, anche se con qualche sfasatura politica, pronti a riprendere in pieno la loro attività di militanti. Certo, in quei giorni, la situazione in cui si doveva operare era del tutto nuova e più complessa di quanto si fosse potuto immaginare. Ma l'importante era che ci si poteva muovere, che si poteva «fare politica» anche se, subito dopo il 25 luglio e per qualche mese ancora, restarono evidenti negli orientamenti e nel modo di pensare di strati consistenti della popolazione le tracce deleterie della ventennale propaganda fascista contro comunisti, socialisti, Unione Sovietica e le conseguenze delle selezioni a rovescio e della fascistizzazione, compiuta dal regime, del personale degli apparati e dei cosiddetti corpi separati dello Stato.

Riflessi di queste conseguenze si potevano notare persino fra quei gruppi sociali e politici che, di fronte alla catastrofe provocata dal fascismo, stavano prendendo coscienza della necessità di liberare l'Italia dal regime che l'aveva trascinata così in basso. L'incontro tra tutte le componenti politiche e sociali antifasciste, infatti, non fu immediato e spontaneo. All'inizio, in varie località, alcuni pretendevano di escludere i comunisti dalle prime formazioni unitarie antifasciste che stavano sorgendo.

Non ci fu facile farci riconoscere dai vari esponenti del CLN l'autorità che ci derivava dalla nostra forza, dal nostro passato e dalla nostra azione; negli atteggiamenti e nei rapporti con noi prevalevano spesso diffidenza e prevenzione.

Nelle lettere, soprattutto in quelle del centro di Milano, si trovavano spesso attacchi violenti anche contro rappresentanti dei partiti di sinistra del CLN accusati di legami con forze conservatrici e reazionarie. La nostra era certo una risposta irata alla diffidenza di cui ci sentivamo circondati. Oggi, forse, questi attacchi possono sembrare esagerati o ingiusti, e in buona parte lo sono. Essi però vanno collocati nell'atmosfera di cui abbiamo detto e nel contesto della linea che seguivamo al Nord. Dovevamo aprire una strada alla partecipazione delle masse operaie e popolari fino ad allora escluse dalla vita politica e dalla direzione del paese con l'inganno e la violenza e che con ogni mezzo e pretesto si volevano ancora tenere in uno stato di soggezione politica e sociale. Per questo si voleva porre in condizioni di inferiorità il partito comunista, che in tutti gli anni della dittatura era stato il più valido interprete e difensore dei lavoratori, degli oppressi e perseguitati dal regime.

Questa lotta, per conquistare alla parte pila numerosa e decisiva della popolazione il posto che le spettava per la sua importanza e funzione nella vita nazionale, faceva tutt'uno con la campagna che conducevamo di recisa opposizione ad ogni forma, aperta o mascherata, di attendismo o anche solo di neutralità nei confronti di chi osteggiava questa lotta. Erano le due facce di una stessa esigenza.

Non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere oggi che alcuni di quegli attacchi qualche volta siano andati oltre il limite del giusto e che spesso, oltre il fatto singolo o le singole persone, si intendeva colpire determinate correnti dell'antifascismo moderato le quali, per le loro origini politiche e sociali, costituivano a nostro avviso pericoli mortali per lo sviluppo ed il trionfo della lotta contro il fascismo e l'occupante nazista.

Del resto, nella stessa linea di affermazione caparbia ed aspra della necessità della lotta antifascista e antinazista condotta senza tentennamenti e concessioni di sorta rientrano anche alcune gravi misure disciplinari prese dal centro di Milano contro compagni che nei primi giorni di vita del risorto governo fascista (di fronte ai suoi tentativi – fatti soprattutto al Nord – di darsi un volto nuovo, popolare, di «unione nazionale», chiamando a posti di responsabilità personalità non fasciste o anche conosciute per il loro antifascismo) avevano assunto posizioni che potevano apparire di cedimento e perciò capaci di disorientare l'opinione pubblica sulla necessità di un netto atteggiamento di opposizione da prendere nei confronti del governo repubblichino.

Al rigorismo nel lavoro e nella disciplina di partito si accompagnava allora anche un rigore di analisi e di elaborazione politica ed ideologica. Non si dimentichi che tutti noi allora eravamo ancora freschi dell'esperienza di lavoro nel partito e nell'Internazionale comunista, dove dominava una tendenza al dottrinarismo astratto e ai dibattiti sottili e spesso formali, caratteristiche che le discussioni in carcere e al confino avevano ancora accentuato. Di questi tratti della nostra formazione politica e mentale si possono trovare tracce notevoli nelle lettere, soprattutto nelle prime, dove spesso si tende ad incasellare in schemi e categorie prestabilite anche i dati concreti e nuovi della situazione presi in esame. Dalle stesse lettere si può vedere che i giudizi su posizioni di avversari, di compagni sono spesso trinciati con estrema durezza e sicurezza, senza andare tanto per il sottile. In tutto ciò è evidente il riflesso di vecchi schemi polemici, nei quali ogni differenza di opinioni e di posizioni è subito riportata alle più radicali differenze di classe e di orientamento.

Il linguaggio tra compagni appare spesso scanzonato e irriverente, come accade frequentemente tra i componenti di una stessa comunità di lavoro. Ma al di là di questa franchezza e brutalità, vi è sempre una sostanziale e reciproca stima, derivante dal comune lavoro, dal comune interesse di partito e dai comuni pericoli che si correvano. Tutto questo faceva si che anche con i compagni con cui più aspramente si discuteva, si lavorasse cordialmente, senza acredine, assegnando a ciascuno il lavoro più confacente alle sue attitudini e il posto di responsabilità e di direzione corrispondente alla sua effettiva capacità e al suo passato politico. Significativo a questo proposito è il fatto che, tornato Togliatti alla direzione effettiva del partito, la totalità dei compagni, che durante la Resistenza avevano avuto posti di grande responsabilità al Nord o al Sud, ebbe nella direzione del partito ricostituito una collocazione adeguata al proprio passato, alla propria preparazione e alle funzioni svolte nella guerra di liberazione nazionale. Persino compagni - come Terracini e la Ravera - che al confino erano stati espulsi da quella organizzazione di partito, furono riammessi non solo nel partito, ma anche nei suoi organismi dirigenti, col preventivo consenso degli stessi compagni che al confino avevano approvato quelle misure disciplinari.

Dobbiamo constatare che il gruppo dirigente del partito, nei momenti più difficili della Resistenza e del dibattito interno, non ebbe rotture, ma anzi collaborò a sviluppare unitariamente l'azione del partito e a fare avanzare nuovi quadri dirigenti, che via via hanno allargato e ringiovanito la direzione del partito al centro e alla base. I contrasti e gli aspri dibattiti di allora non hanno portato, né allora né poi, a lacerazioni insanabili, ma anzi a una unità che ha sfidato l'usura e la prova del tempo. Si ricordi che quando, attorno al 1954, si procedette a una operazione, come si disse allora, di rinnovamento e di ringiovanimento del partito essa venne posta sotto la massima: rinnovamento nella continuità. Credo che possiamo dire che anche oggi quella abitudine alla franchezza non disgiunta da una certa asprezza – rivelata dalle lettere che qui pubblichiamo – dura tuttora. La stessa pubblicazione di questo carteggio di tanti anni fa dimostra che non temiamo affatto di portare a conoscenza del partito alcuni momenti di contrasto della nostra vita interna. Ci guida in questo l'intento appunto di non far morire l'abitudine di quel tempo al dibattito franco ed esplicito che consideriamo essenziale per un partito comunista. In tutto questo vi è la più decisa smentita a quanti cianciano che nel partito comunista non vi è libertà di dibattito, non è possibile avere una personalità propria, poiché tutti sono sempre tenuti a dire le stesse cose.

Va collocato in questo quadro di rigore disciplinare anche il caso del compagno Concetto Marchesi. Egli aveva accettato in un primo tempo la carica di rettore dell'Università di Padova. In quell'occasione fu aspramente criticato dalla direzione di Milano del partito, e colpito da grave misura disciplinare, perché quell'accettazione contravveniva alla disposizione di boicottare in tutti i modi il tentativo del governo repubblichino di darsi una faccia nuova rispetto al vecchio governo fascista. Ma subito il compagno Marchesi seppe trarsi dalla falsa posizione assunta, accettando la carica di rettore, con il fermo e coraggioso discorso antifascista pronunciato di fronte al senato accademico, agli studenti dell'università, allo stesso ministro dell'istruzione pubblica, discorso che noi stessi diffondemmo poi largamente nelle scuole e nelle università.

Ricordiamo anche che al Nord ci trovammo di fronte ad altri casi del genere, alla fine del 1943, e che per riaffermare con forza e brutalità la nostra politica ricorremmo anche a misure disciplinari contro bravi compagni che poi, corretto l'errore e riammessi subito nel partito, si comportarono con coraggio ed onore in tutto il corso della lotta. Certo in tutto il carteggio corre uno spirito di partito rigoroso e duro che richiama sempre tutti i militanti e i dirigenti al dovere e al rispetto della disciplina, spirito intransigente che non tollera debolezze né politiche né umane nell'adempimento del proprio lavoro di partito. Questo rigore non solo rispondeva alla durezza dei tempi, ma anche alla gravità ed importanza dei compiti che ci eravamo assegnati e di fronte ai quali ogni lassismo diventava delitto; aggiungiamo pure che tutto questo rispondeva anche ad un costume di partito che si era formato nell'ambito dell'Internazionale comunista nella più dura illegalità e che le difficoltà della lotta armata e l'importanza della posta in gioco non potevano che rafforzare ancora.

A tanto tempo da quegli anni in condizioni e di fronte ad esigenze ben diverse noi crediamo ancora che la serietà e la rigidità con cui furono amministrate allora la politica e la disciplina di partito contribuirono non poco al fatto che durante tutta la Resistenza, nelle nostre file, non dovemmo mai lamentare sbandamenti, debolezze o tradimenti di sorta.

Non si deve dimenticare che in quella situazione incandescente, dominata da immani difficoltà materiali e nella quale, tra i fermenti nuovi, operavano ancora remore tradizionali, pregiudiziali anticomuniste e antipopolari, non solo dovevamo costruire le prime solide basi organizzative del partito comunista, da cui muovere per sviluppare un'azione politica, ma anche fare opera di chiarificazione presso i militanti e l'opinione pubblica, per definire la reale fisionomia del nostro partito e delle forze politiche e sociali in campo, precisando convergenze e divergenze, e fissando con nettezza gli obiettivi primari da perseguire per trarre il paese dal disastro in cui era stato gettato.

Per quello che ci riguardava, il carattere del nostro partito, come partito della classe operaia che più coerentemente e più a fondo si era battuto contro il fascismo, risultava in modo chiaro dal numero stesso e dalla qualità dei compagni che uscivano dai luoghi di pena dove il fascismo li aveva chiusi per lunghi anni a causa della loro tenace lotta per la libertà, per la pace e gli interessi dei lavoratori. Il ruolo stesso che l'URSS, i suoi popoli, il suo esercito, i suoi valorosi partigiani avevano assunto nella lotta di tutta l'umanità contro la barbarie nazifascista e per il trionfo del mondo della libertà e della democrazia, faceva giustizia delle calunnie e delle menzogne sparse a piene mani dal fascismo contro i comunisti e l'Unione Sovietica.

Come sul piano internazionale era emersa ed era stata alfine soddisfatta l'esigenza della cooperazione e di uno sforzo militare unito delle potenze alleate contro il nazifascismo, così, nel nostro paese, nel ribollire di tutte le forze nazionali scaturito dalla caduta di Mussolini, veniva emergendo l'esigenza di unità di tutte le forze interessate alla sconfitta del fascismo e alla sua radicale eliminazione dalla vita nazionale, per far posto ad un nuovo regime di convivenza sociale e politica. Ma nello stesso tempo e parallelamente tornavano a raccogliersi insieme i rottami di quei gruppi che il fascismo aveva legati alle proprie sorti e che la disfatta militare e la caduta di Mussolini avevano gettato nello smarrimento e nella disperazione, ma che non erano ancora disposti a rinunciare senza resistenza al loro potere e ai loro privilegi.

Si viveva, dunque, come abbiamo detto, in una situazione in movimento ma anche piena di contraddizioni, nella quale ciascuna forza democratica e progressiva non poteva porsi soltanto il problema di darsi una base organizzata ed una linea di azione, ma doveva cercare, in primo luogo, di fare politica e di fare una politica che, superando gli interessi immediati di gruppo, giungesse ad una visione più generale ed organica dei problemi nazionali nella quale inserire ed affermare le proprie istanze particolari.

A questo improvviso e tumultuoso rinascere alla vita politica attiva del paese, del movimento operaio e popolare, del partito nostro e degli altri movimenti democratici, noi non arrivavamo impreparati. Per ciò che riguardava l'impegno militante ed organizzativo, recuperammo subito all'attività organizzata del partito la quasi totalità delle forze che uscivano dalle carceri e dal confino dove avevano maturato un elevato spirito di partito e di disciplina di lavoro collettivo.

Per quanto riguardava la nostra linea d'azione eravamo forti dell'insegnamento di Gramsci del periodo del delitto Matteotti e dell'Aventino, delle «Tesi» del nostro congresso di Lione, oltre che delle analisi e delle lucide indicazioni del VII Congresso dell'Internazionale comunista, che aveva riscattato le colpe e gli errori compiuti dal movimento comunista nel periodo caratterizzato dalla teoria sul cosiddetto «socialfascismo».

Sulla nuova linea del fronte popolare e dell'unità d'azione col partito socialista, inoltre, avevamo l'esperienza direttamente vissuta in Francia e in Spagna attraverso la partecipazione dei nostri emigrati alle lotte del fronte popolare in Francia e dei combattenti della brigata Garibaldi alla guerra di Spagna.

La nostra partecipazione a queste lotte si era realizzata sulla base dell'unità d'azione con il partito socialista, unità d'azione che in Francia, in Spagna, si cercò di estendere ai gruppi di Giustizia e libertà e ai repubblicani, e, in Italia, ancora sotto la dittatura fascista e nel periodo badogliano, anche ad altre forze politiche e sociali.

Si può dire che, proprio nell'arco di tempo fra il 1943 e il 1945 si compie e giunge a felice conclusione il processo di unificazione ideologica e dei suoi quadri dirigenti sulla base dell'esperienza politica già iniziata sotto la guida di Gramsci e che trovò poi organica sistemazione nelle Tesi di Lione, le quali avevano alimentato per lunghi anni dibattiti vivaci ed anche aspri tra i compagni incarcerati o emigrati. Quelle Tesi, ora, dovevano essere messe alla prova del fuoco nelle condizioni create dalla caduta di Mussolini.

È in quella situazione che emergeranno fin dai primi giorni e si preciseranno, tutti i problemi di orientamento del partito e del suo modo di fare politica e che si rivelerà anche la fecondità delle iniziative unitarie da noi prese nel periodo dell'attività antifascista clandestina in Italia e nell'emigrazione. In questa fase, l'unità (sia pure tra i contrasti) che caratterizza l'azione degli eserciti alleati contro il nazifascismo e in particolare l'eroica lotta dell'esercito sovietico costituiscono l'elemento propulsivo della lotta dei popoli in appoggio a quella degli eserciti. Ma essa ha anche un importante riflesso all'interno di ciascun paese nel senso che stimola l'unità di ciascun popolo nella lotta contro l'occupante straniero e contro i governanti che si sono legati al carro di guerra di Hitler e ne seguono le direttive ed i piani aggressivi. In Italia, dove Mussolini per seguire Hitler aveva portato il paese alla guerra ed alla disfatta, si fa sentire più che mai l'esigenza di condurre la lotta contro l'occupante tedesco ed il ricostituito governo fascista repubblichino con uno schieramento unitario il più ampio possibile.

La corrispondenza fra i centri dirigenti del partito prende il via, appunto, dal momento dell'armistizio (annunciato l'8 settembre), dell'occupazione tedesca dell'Italia, dell'abbandono di Roma e della fuga a Pescara della monarchia, della costituzione del partito fascista-repubblichino, dell'avanzata degli eserciti alleati sul nostro territorio, della nascita nelle città, nelle fabbriche, nelle campagne e sulle montagne della lotta partigiana e della guerra di liberazione nazionale: tutti avvenimenti strettamente connessi l'uno all'altro e succedutisi nel breve giro di pochi giorni. Tutti questi avvenimenti portano ad un affollarsi di problemi politici, organizzativi, tecnici, tattici, di lotta militare e di sviluppo del movimento operaio dentro e fuori delle fabbriche; problemi che dovevano essere affrontati e risolti, nel quadro di esigenze politiche generali, di corretti rapporti da instaurare non solo con gli alleati, i cui eserciti cominciavano a risalire la penisola, ma con tutte le altre forze politiche tornate a vivere e ad operare in Italia, dopo la lunga notte fascista.

Nella soluzione che la direzione del partito era chiamata a dare ai vari problemi, si doveva tener conto di esigenze diverse. In primo luogo della necessità, da una parte, di realizzare un'unità operante con il maggior numero possibile di forze mobilitabili contro l'occupante nazista ed il fascismo, e dall'altra, della necessità di costituire rapporti di collaborazione tra gli alleati e il fronte di liberazione nazionale, salvaguardando ad ogni costo però l'autonomia di azione e di iniziativa di quest'ultimo. In secondo luogo, occorreva realizzare la più larga unità nazionale tra le forze in campo contro i nazisti ed i fascisti, sviluppando, nell'ambito di questa unità, la lotta di classe delle masse lavoratrici e la base organizzata del partito. Lo scopo era quello di allargare, anche da questo lato, il fronte di attacco antifascista, con la prospettiva di liquidare le basi sociali del fascismo, muovendo verso un regime di democrazia popolare e progressiva. Queste esigenze – non semplici ed in certa misura anche contraddittorie – erano strettamente connesse ed interdipendenti tra di loro; di volta in volta, si doveva saper cogliere e rispettare questo loro collegamento interno.

In conseguenza di tutto ciò, per il corso degli avvenimenti e per la stessa struttura fisica dell'Italia, il campo della lotta si articolò subito in due grandi aree con caratteristiche diverse. Al Sud, da dove avanzavano le truppe alleate, si erano rifugiate, al seguito della monarchia, le residue autorità statali riconosciute dagli alleati con cui erano collegate. È qui al Sud e a Roma stessa che, con i resti politici e sociali tradizionali della vecchia Italia, sopravvivevano elementi non trascurabili del passato regime fascista.

Al Nord erano stati raffazzonati, in fretta e furia, un governo ed un partito fascista repubblichino, strettamente subordinati ai comandi delle truppe tedesche scese ad occupare l'Italia. Al Nord erano concentrate le basi essenziali dell'apparato produttivo e stava prendendo promettente avvio la lotta partigiana.

Roma e Milano, dopo la caduta del fascismo, costituivano perciò due centri di vita politica e di osservazione di estrema importanza e, nel loro insieme, davano una veduta abbastanza completa della complicata realtà italiana sia per i legami che le due città mantenevano ancora con il recente passato, sia per i fermenti che in esse ribollivano al fine della formazione della nuova realtà che doveva nascere dalla catastrofe militare e dal crollo del fascismo. Per far fronte più efficacemente alle esigenze poste dalle due diverse situazioni, l'organizzazione unitaria della lotta antifascista si era data praticamente due centri direttivi collegati tra di loro: l'uno a Roma – Comitato di liberazione nazionale (CLN) e l'altro a Milano – Comitato di liberazione nazionale alta Italia (CLNAI). Lo stesso aveva fatto il nostro partito, costituendo due organi di direzione, uno a Roma e l'altro a Milano. Il collegamento, lo scambio di direttive e di esperienze tra questi due centri fu assicurato negli anni 1943-45 attraverso un nutrito carteggio e le saltuarie e rapide visite di qualche componente dell'uno all'altro centro.

Per fortuna il lavoro di questi due centri non partiva da zero. Durante il periodo della guerra era stato costituito a Milano un centro interno diretto da Massola, il quale con l'aiuto di alcuni validi collaboratori era riuscito a costituire, nei principali centri del Nord, nuclei di compagni attivi nelle fabbriche e nei centri operai, ad impiantare basi per la riproduzione e la diffusione della stampa. Questo centro mantenne i collegamenti a mezzo di staffette con le principali organizzazioni di partito esistenti o da esso ricostruite e resistette felicemente all'intensificata reazione che imperversò dall'inizio della guerra fino alla caduta di Mussolini.

Furono questi compagni che organizzarono e diressero i primi scioperi contro la guerra ed il fascismo, tra i quali ricordiamo quello famoso di Torino del marzo 1943. Questi scioperi riscossero ammirazione in tutto il mondo ed ebbero un peso non secondario nel determinare il risveglio combattivo delle masse e poi la stessa caduta di Mussolini. Nella seconda metà del 1943 questo centro interno venne rafforzato con l'ingresso di compagni provenienti dal centro estero di Parigi (Novella, Negarville, Amendola).

I due centri di direzione creati dopo la caduta di Mussolini, a Roma e a Milano, erano composti da compagni di formazione e provenienza diversa, le cui esperienze comuni spesso risalivano alla lotta per la fondazione del partito e alle prime battaglie contro le squadracce fasciste.

Nei gruppi dirigenti centrali e periferici taluni compagni provenivano dal lavoro clandestino in Italia che mai avevano abbandonato; altri venivano dall'estero dove erano stati obbligati a rifugiarsi, sin dai primi anni del fascismo, per sfuggire alle persecuzioni poliziesche e squadriste; altri ancora, dopo un periodo di lavoro illegale in Italia, erano stati costretti, per forza maggiore o per decisione del partito, a riparare all'estero, in Francia, in Svizzera o nell'URSS; numerosi compagni, poi, caduti nelle mani della polizia fascista, avevano trascorso periodi varianti da qualche anno a diversi lustri in carcere o al confino, dove approfittando della forzata inattività, avevano accresciuto la propria preparazione politica ed ideologica con l'aiuto dei compagni più qualificati.

Anche l'esperienza all'estero fu molto diversa per i singoli compagni a seconda delle condizioni e dello sviluppo della lotta proletaria del paese in cui ciascuno si trovava. Nelle prime settimane di lavoro al centro di direzione di Milano, ad esempio, nel leggere i rapporti ed i piani di lavoro provenienti da varie organizzazioni si aveva la sensazione che sarebbe stato quasi impossibile riuscire a trovare in breve tempo per tutti i compagni, militanti di base e dirigenti, un linguaggio, una impostazione, una prospettiva comuni. Invece, e prima di quanto si potesse sperare, si arrivò relativamente presto a parlare la stessa lingua politica e a svolgere un'attività più o meno coordinata allo stesso fine. Nonostante le differenze di formazione e delle situazioni in cui si operava e nonostante le difficoltà dei contatti, si può dire che quasi tutti i gruppi dirigenti di base, come quelli centrali di Milano e di Roma, seppero mantenere un sostanziale affiatamento politico e una linea comune di azione nonostante (o forse grazie) i vivaci contrasti e gli accesi dibattiti rispecchiati nella corrispondenza qui raccolta.

Per quanto riguarda le lettere del centro di Milano, firmate quasi tutte da Longo e da Secchia, si può dire che, quale che fosse la firma, corrispondevano sovente ad un pensiero comune dei componenti la direzione che si trovava al Nord, i quali spesso avevano occasione di incontrarsi o di scambiarsi, a mezzo di note e biglietti, impressioni ed opinioni. Rispondeva e firmava chi in quel Come si spiega la facilità con cui si arrivò alla unificazione politica di cui abbiamo detto? Essenzialmente grazie alla profondità e all'importanza dell'insegnamento ricevuto all'origine nelle file del PCI dove ogni compagno imparò a considerare il partito, l'unità di esso e la disciplina come valori supremi, decisivi, a cui subordinare qualsiasi interesse o inclinazione personale. Infatti era stato questo uno dei punti essenziali posto a base della fondazione del partito comunista in contrapposizione all'andazzo politico ed organizzativo e ai clientelismi del vecchio partito socialista.

Sul piano politico, ai fini della elaborazione di una tattica e di una strategia del partito, operava con una funzione decisamente unificante, anche se da lontano, e purtroppo non senza interruzioni, la guida di Togliatti il cui pensiero potevamo conoscere attraverso le emissioni di Radio Mosca e di Radio Milano libertà e attraverso le comunicazioni che potevamo ricevere, sempre per radio, via Jugoslavia.

A questo proposito, dobbiamo ricordare che dopo la decisione (giugno 1943) dello scioglimento dell'Internazionale comunista venne dato mandato – come ha ricordato il compagno D'Onofrio in una memoria in proposito – ai partiti comunisti che lo avessero voluto di costituire all'estero centri ideologici di indirizzo e di orientamento politico, in direzione dei comunisti dei rispettivi paesi. Ad evitare confusione, va subito detto che questo centro ideologico estero aveva tutt'altra funzione di quella del centro ideologico e dirigente che il nostro partito ebbe in vari momenti, durante il ventennio fascista, in Francia e in Svizzera.

Il centro ideologico che per iniziativa di Togliatti si costituì prima a Mosca e poi si trasferì a Ufa, al tempo dell'avanzata tedesca in Russia, non costituiva affatto un organismo di direzione e tanto meno di direzione organizzativa della base del partito in Italia. Doveva soprattutto curare la parte dell'orientamento dell'azione del partito, senza disporre peraltro di alcun potere decisionale verso di esso. Più propriamente si può dire che si trattava di un centro di propaganda, di orientamento generale e non di una istanza gerarchica ed organizzativa del partito, come furono i centri di direzione, costituiti, durante l'illegalità fascista, all'estero.

Il centro di Mosca del PCI aveva come suoi componenti, oltre a Togliatti stesso, finché restò in URSS, Ruggero Grieco, Edoardo D'Onofrio, Giulio Cerreti, Luigi Amadesi. Il centro aveva l'incarico – attraverso le stazioni radio, la stampa in lingua italiana – di propagandare la tematica antifascista, di incitare all'azione e all'organizzazione della lotta per la vittoria del popolo contro la tirannide fascista.

Per comprendere meglio il contenuto e l'orientamento dell'attività propagandistica svolta da Radio Milano libertà riportiamo quanto D'Onofrio scrive in proposito:

«Per Radio Milano libertà l'attesismo della classe operaia era la cosa più pericolosa perché finiva col trainare con sé tutta la popolazione lavoratrice. Il superamento di esso costituiva l'obiettivo principale capace di sbloccare tutta la situazione. L'attenuazione o riduzione delle lotte salariali, economiche e sindacali; la rinuncia all'azione di sabotaggio nella produzione di guerra, la flebile azione in campo politico, la difettosa organizzazione delle lotte erano tuttavia limiti alla funzione di avanguardia propria alla classe lavoratrice e al successo dell'antifascismo».

«Togliatti – ricorda sempre D'Onofrio – insisteva che Radio Milano libertà mettesse in rilievo alcuni esempi di lotta passata, che potevano insegnare agli antifascisti come passare da forme primitive e rozze di lotta a forme più elevate e politiche, arrivando così ad opporsi alla mobilitazione militare e civile, a rifiutarsi di partire per il fronte, a rifugiarsi in montagna e nelle campagne, organizzando gruppi di partigiani. Si trattava di pervenire in questo modo a disorganizzare le retrovie nemiche, a preparare dimostrazioni, agitazioni, lotte parziali, per rivendicazioni diverse, e, infine, arrivare allo sciopero generale e politico per porre fine alla guerra ed imporre la pace».

«A questo scopo – precisa ancora D'Onofrio – era necessario mobilitare tutte le correnti e tutti i partiti antifascisti del fronte nazionale di liberazione. Era necessario, cioè, organizzare comitati di solidarietà per la pace; comitati di operai nelle officine e nei singoli reparti; comitati di ferrovieri, di marinai, di portuali, di contadini, di popolo, di donne in ogni caseggiato».
Radio Milano libertà fin quasi dall'inizio nelle sue trasmissioni suggerì la costituzione in Italia di un fronte nazionale di liberazione che si proponesse la instaurazione di un regime di democrazia aperta al progresso (che successivamente fu definita «progressiva») e a forme di comunità socialmente più avanzate anche se non del tutto socialiste, purché riuscissero ad incidere sulle radici economiche, sociali e politiche del fascismo.

Anche la ripartizione dei compiti che era fatta fra i compagni componenti la redazione di Radio Milano libertà dà un'idea dei problemi e del contenuto delle sue trasmissioni. D'Onofrio aveva la responsabilità delle trasmissioni concernenti la lotta partigiana e il sabotaggio antifascista; Rita Montagnana della propaganda per l'aumento delle razioni di pane, per il rifiuto della consegna dei prodotti agrari agli ammassi; Marchi della lotta contro il carovita, contro il blocco dei salari e per la concessione di una indennità di carovita. Come si vede, tutti i temi che, fin dai primi giorni furono sempre ben presenti nella impostazione della lotta partigiana nel Nord.

Tra i compagni in Italia, l'autorità di capo e di dirigente di Togliatti era indiscussa ed apprezzata da tutti i componenti dei due centri direttivi del partito, soprattutto da quanti avevano potuto conoscerne direttamente la capacità e l'autorità al tempo del suo lavoro al Komintern e poi al centro estero del partito. Tutte le indicazioni di Togliatti in quel periodo convergevano verso un'unica, grande direttiva: unità nazionale di tutte le forze democratiche ed antifasciste nella lotta per scacciare l'oppressore nazista ed i suoi servi fascisti e per avviare il paese verso la ricostruzione materiale e la rinascita democratica.

Nella sostanza, tutta l'iniziativa del partito in Italia è sempre stata saldamente ancorata a questo orientamento di fondo. Certo, nelle discussioni non sono mancate le asprezze polemiche proprie di un dibattito molto aperto e molto franco quale era richiesto dall'esigenza di elaborare una linea politica ed organizzativa valida in una situazione completamente nuova e assai complessa. Per l'esatta comprensione del contenuto e del tono di quel dibattito occorre riportare tutto alle condizioni di allora: la casualità e la lentezza dei contatti facevano spesso trascinare le polemiche più del necessario, esasperandole. L'abbondanza del carteggio non deve far credere che tanto al Nord che al Sud non avessimo altro da fare che scriverci delle lettere. Noi nel Nord mantenevamo i rapporti con il CLNAI, col comando generale del Cvl, con i triunvirati insurrezionali, con i dirigenti di numerose federazioni comuniste e con le più importanti zone partigiane. Impegni analoghi occupavano i compagni del centro di Roma. Anche se i nostri viaggi non erano frequenti, assai più numerosi erano quelli dei dirigenti regionali e provinciali di partito e dei comandanti di zona o delle più importanti formazioni partigiane che venivano a Milano per riferire, discutere e ricevere direttive.

A spiegare la vivacità e la frequenza dei contrasti si deve ricordare che lo stesso problema era valutato ed esaminato in condizioni e da angolature differenti al Nord o al Sud; un problema prevalente in un dato momento a Roma poteva apparire, oggettivamente, di scarso peso a Milano e viceversa. Inoltre, proprio per la diversità delle situazioni e per il loro rapido evolversi quel che sembrava giusto prima, successivamente poteva non apparire più tale. A volte, l'asprezza della polemica nasceva dal fatto che ciascuno dei due gruppi, alla luce della propria particolare esperienza, riteneva di essere nel giusto con le proprie proposte e quasi si scandalizzava che l'altro gruppo manifestasse riserve e perplessità ad accettarle. Naturalmente voler ridurre tutto ciò – come da qualche parte si tenta – a dissidi personali, non solo non è serio, ma non aiuta minimamente a lumeggiare e a comprendere il processo, anche travagliato, di elaborazione di una linea politica che ha avuto ed ha un peso tutt'altro che secondario nelle vicende italiane.

Un'analisi più attenta non può non rilevare la profonda diversità di tutta una serie di rapporti di forza politici, sociali, di classe allora esistenti nel Nord e nel Sud dell'Italia. Parallelamente alla spinta delle forze antifasciste e rinnovatrici prendeva corpo e si organizzava nel Sud una resistenza dei ceti possidenti e di quelli dirigenti tradizionali, negli stati maggiori monarchici per tenere ferma nello svolgersi degli avvenimenti una prospettiva di conservazione del vecchio sistema. Spesso, questo, a mano a mano che lo Stato si riorganizzava nell'Italia libera, significava anche il mantenimento nei posti chiave dell'amministrazione statale del vecchio personale compromesso col fascismo. Né era secondaria l'influenza conservatrice esercitata su gruppi politici moderati dal tradizionale apparato ecclesiastico, nelle sue innumerevoli articolazioni, e che a Roma aveva il suo centro ispiratore e dirigente.

Invece non è superfluo ricordare che le forze di sinistra nella loro lotta patriottica contro i nazifascisti lottavano avendo anche l'obiettivo di un necessario e profondo rinnovamento delle strutture politiche e sociali del paese, lottavano cioè per realizzare, come si diceva allora, un regime nuovo di democrazia progressiva.

Al gruppo dirigente di Milano, poi, erano presenti, in misura maggiore che a quello di Roma (anche se nel territorio sul quale questo operava non mancavano certo importanti agglomerati di lavoratori come a Terni, nei Castelli, a Civitavecchia e nella stessa capitale), tutti i problemi del lavoro nelle fabbriche, non in vista di immediate trasformazioni socialiste, ma per allargare la partecipazione operaia alla guerra partigiana. In questo modo si voleva impedire che i nazisti depredassero il nostro apparato produttivo trasferendo gli impianti in Germania. Partivamo dalle rivendicazioni più immediate per mobilitare gli operai nella lotta per conquistare condizioni di lavoro e di esistenza più sopportabili e, al tempo stesso, lavoravamo per suscitare un'azione tale che impedisse al padronato di capitolare di fronte alle pretese ed alle pressioni naziste. Non a caso, proprio perché avevamo sempre presenti gli interessi più generali del paese, nella lotta sostenuta in quegli anni contro il padronato, distinguemmo sempre tra gli industriali collaborazionisti con l'occupante nazista e quelli che non erano restii a sostenere in qualsiasi modo la guerra di liberazione. Contraddizioni non facili da risolvere mentre contrasti di fondo esistevano sul piano politico tra i componenti del CLN circa l'atteggiamento da assumere nei rapporti con gli alleati.

Il problema dell'unità tra le potenze che conducevano la guerra antinazista e tra le forze popolari che si battevano in Italia contro l'occupazione straniera e contro il fascismo presentava, nel complesso, diverse facce. L'esigenza dell'unità, infatti, non poteva annullare e non annullava la diversità di obiettivi che ciascuna delle parti in campo proponeva per il dopo fascismo. Questa diversità influenzava la condotta della lotta e gli obiettivi da perseguire giorno per giorno. Da parte degli angloamericani, cioè delle potenze capitalistiche, c'era evidentemente l'obiettivo di precostituirsi delle posizioni di vantaggio nell'Italia liberata. Da parte delle forze popolari, come si è detto, c'era la decisa volontà di arrivare, attraverso la lotta contro i fascisti ed i nazisti, a determinare una situazione interna in cui fossero estirpate non solo le radici del fascismo ma ogni possibilità di rinascita di regimi autoritari di tipo fascista. Per queste forze il modo e l'ampiezza della partecipazione popolare alla lotta avevano una importanza decisiva al fine di creare uno schieramento ed una situazione capaci di dare vita poi ad un regime democratico totalmente nuovo, che potesse incidere sulle vecchie strutture politiche e sociali, eliminando i mali secolari dell'Italia ed avviando il paese sulla via di un progressivo sviluppo sociale e civile.

Le esigenze della lotta unitaria e le diverse prospettive si intrecciavano l'una all'altra. Profondo era però il comune interesse alla lotta antifascista ed ai risultati della guerra da cui tutto dipendeva. E fu questo l'elemento che, nonostante tutti i contrasti, servì da cemento fino alla fine ed evitò rotture irreparabili, sia all'interno del movimento popolare sia tra questo e le potenze alleate che conducevano la guerra in Italia.

Evidente era anche l'interesse di queste potenze a non creare situazioni di rottura con il movimento popolare; esse tendevano anzi ad assorbirlo e ad utilizzarlo nel quadro dei loro piani tattici. Queste potenze miravano cioè, a ridurre al minimo il carattere popolare e di massa della nostra guerra di liberazione, cercando di relegare le forze partigiane nel ruolo di semplici centri di informazione e di sabotaggio. Da parte loro, i gruppi conservatori italiani capivano che sarebbe stato un errore per loro estraniarsi dalle forze popolari e che era necessario restare collegati con queste, quanto meno per poterle controllare e per non rimanere isolati dal grande movimento di lotta patriottica.

D'altro lato, le stesse forze antifasciste più avanzate e consapevoli si rendevano conto che proprio per non ridurre il fronte della lotta di liberazione dovevano mantenere l'unità più ampia e non porre l'obiettivo immediato di realizzare il socialismo – che non poteva essere accettato da chi invece era disposto a lottare solo per cacciare i tedeschi dall'Italia – e per un tipo di democrazia vera, effettiva, progressiva. In altre parole, è vero che tutte le indicazioni di Togliatti in quel periodo convergevano verso un'unica, grande direttiva: unità nazionale di tutte le forze democratiche ed antifasciste nella lotta per cacciare l'oppressore nazista ed i suoi servi fascisti e per avviare il paese verso la ricostruzione materiale e la rinascita democratica. Però né Togliatti né noi nel Nord ci limitavamo a parlare di ricostruzione materiale e di rinascita democratica. Spiegavamo ampiamente che cosa intendevamo per democrazia progressiva.

Contrariamente a quanto si vuol far credere da certe parti, noi non abbandonammo mai, dopo la svolta di Salerno, per esigenze unitarie, la lotta per le rivendicazioni economiche e sociali. Partivamo dalla concezione che la lotta di classe potenziava la lotta nazionale di liberazione. Su questa linea riuscimmo persino a far accettare dal CLNAI il principio e soprattutto la pratica dei grandi scioperi e dello sciopero generale. Dall'inizio alla fine la guerra di liberazione nazionale in Italia e soprattutto al Nord fu caratterizzata dall'intrecciarsi della lotta armata con la lotta economica di massa. Questa era indirizzata contro i nazifascisti e contro i grandi industriali collaborazionisti. Già nella riunione dei triunvirati insurrezionali, che fissò la nostra linea di condotta nella guerra di liberazione, noi avevamo detto che «l'agitazione economica per le rivendicazioni immediate degli operai, dei lavoratori, dei contadini deve continuare, allargarsi, trasformarsi in possenti movimenti di massa, in scioperi, in manifestazioni di strada». La difesa dei bisogni immediati delle masse si identifica perciò, dicevamo, nella lotta per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti.

Nella riunione di Milano fra la delegazione del centro di Roma e i componenti il centro di Milano la questione della democrazia venne affrontata direttamente. In quella riunione fu fatto osservare dai compagni di Milano che da qualche compagno del centro di Roma la questione nazionale veniva un po' considerata come avulsa dai rapporti di classe che stavano alla sua base. Lo stesso compagno Scoccimarro, che dirigeva il centro di Roma, intervenendo nella discussione, confermò che sfuggiva a questi compagni l'elemento «lotta di classe», che permane nel paese e nel seno stesso del movimento nazionale.
«Nella coalizione democratica che lotta contro il fascismo non si vede da parte di questi compagni la dinamica interna delle classi ed i loro mutevoli rapporti. Entro una coalizione politica le forze politiche e sociali possono essere sempre le stesse, ma le possibili diversità dei loro rapporti di forza le danno anche una diversa impronta politica pur rimanendo sempre immutato l'obiettivo comune ed il programma». Egli notava ancora che «le divergenze esistenti sulla questione nazionale e sulla democrazia si riflettevano anche sul modo di concepire il fronte nazionale. Vi era la tendenza – diceva – a non vedere e a non tener conto della mobile articolazione politica e di classe del movimento nazionale, mentre spettava alla classe operaia e alla sua avanguardia, il partito comunista, il compito di realizzare una unità larga e solida di tutte le forze nazionali per la guerra di liberazione». Il compagno Scoccimarro notava che «lottare per l'unità non vuole dire rinunciare alla nostra ferma opposizione ad ogni tentativo degli elementi attesisti e capitolardi di controllare ed imbottigliare il movimento partigiano».


Il Comitato di liberazione nazionale è stato sinora, diceva, solo una coalizione di partiti, e precisava:

«Esso deve estendere la sua base unitaria, riunire in un solo fronte tutti gli italiani disposti a lottare contro gli oppressori, collegarsi con tutti gli organismi di massa e diventare l'organo rappresentativo di tutte le forze nazionali organizzate ed attive contro i tedeschi ed i fascisti. «I Comitati di liberazione nazionale dell'Italia occupata – aggiungeva – devono essere capaci di organizzare e dirigere tutto il popolo italiano per la guerra di liberazione e portarlo all'insurrezione armata e vittoriosa. Sarà attraverso la lotta di liberazione nazionale che i CLN creeranno i quadri, le forze, le organizzazioni capaci non solo di rovesciare il fascismo e di cacciare i tedeschi ma anche di rimpiazzare poi il corrotto apparato statale fascista ed aiutare le forze progressive ed il governo di unità nazionale ad assicurare il proprio potere, l'amministrazione e l'ordine anche nel periodo pii difficile di ricostruzione e creazione delle istituzioni democratiche del nuovo Stato. Non si tratta di rinunciare ai programmi ed al raggiungimento di più avanzati obiettivi politici e sociali, si tratta di rendersi conto che ogni strato sociale, ogni corrente politica, ogni partito conterà domani nella misura che avrà contribuito oggi a liberare l'Italia dall'odiato straniero e dal fascismo». Questi concetti entrarono poi sostanzialmente nella famosa dichiarazione del CLNAI del gennaio del 1944: «Non vi sarà posto domani da noi per un regime di reazione edulcorata, e neppure per una democrazia zoppa. Il nuovo sistema politico, sociale ed economico non potrà essere se non di democrazia schietta ed effettiva. Nel governo di domani, anche questo è ben certo, operai, contadini ed artigiani, tutte le classi popolari avranno un peso determinante ed un posto adeguato a questo peso vi avranno i partiti che li rappresentano. Tra essi il partito comunista che fa parte del CLN su di un piano di perfetta parità con gli altri partiti, con pari pienezza di autorità oggi, e di potere domani, quando il patto di liberazione nazionale sarà realizzato».

Questi concetti furono ancora ripetuti in un articolo di «La nostra lotta», che portava il titolo Nascita di una nuova democrazia. «Il popolo presente oggi nella guerra per l'indipendenza farà sentire domani nella ricostruzione politica e sociale del paese la sua volontà. Già oggi mentre ferve la battaglia si pongono le fondamenta della nuova democrazia italiana. Primo fra tutti, segno caratteristico di un regime che sarà di espressione della volontà popolare, è questa larga partecipazione delle masse che si attua oggi nella lotta e che dovrà dare domani il tono a tutta la politica italiana, e costituire il sicuro presidio di ogni conquista democratica».

Nonostante gli impegni presi da tutti i partiti del CLNAI con la solenne dichiarazione del gennaio '44 e nonostante gli sforzi costantemente compiuti dal nostro partito per mantenere la pii stretta unità fra tutte le forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza, le correnti più conservatrici di essa, ispirate e manovrate dalle potenze imperialistiche che dopo la vittoria presidiarono militarmente il nostro paese, fecero di tutto per rompere l'unità della Resistenza, per infrangere gli impegni solenni di libertà e di democrazia assunti durante la lotta, anche quando quegli impegni furono tradotti in punti precisi della nostra Costituzione repubblicana, divenuta poi legge fondamentale dello Stato.

Cosi dalla promessa di creare «un nuovo sistema politico, sociale ed economico, di democrazia schietta ed effettiva» e dalla promessa che «nel governo di domani operai, contadini ed artigiani, tutte le classi popolari avranno un peso determinante ed un posto adeguato a questo peso avranno i partiti che li rappresentano, fra essi il partito comunista su un piano di perfetta parità con gli altri partiti, con pari pienezza di autorità oggi e di potere domani quando il patto di liberazione nazionale sarà realizzato», si passò nel periodo dei governi a direzione democristiana a sistematiche discriminazioni anticomuniste e all'obbligo imposto dalla democrazia cristiana ai suoi alleati di rompere ogni rapporto di collaborazione e di intesa con il partito comunista, cioè con il maggiore e autorevole rappresentante degli operai, dei contadini, degli artigiani, di tutte le classi popolari. Non si ebbe cioè quel regime di democrazia schietta ed effettiva promessa, ma proprio quella democrazia zoppa che ci si era impegnati ad impedire.

Durante tutta la Resistenza, noi comunisti fummo sempre coscienti che solo attraverso l'unità di tutte le forze democratiche ed antifasciste, la forza del nostro partito e una giusta politica era possibile dare estensione, autorità ed esaltare la funzione dirigente della classe operaia. La difficoltà consisteva soprattutto nel riuscire a mantenere sempre la propria fisionomia pur perseguendo una politica coerentemente unitaria e al tempo stesso facendo quanto più era possibile per avere un peso decisivo nel paese e nella direzione del movimento. I fatti dicono che in quel periodo il nostro partito riuscì a mantenere una posizione ferma, a garantire la propria autonomia e l'unità di lotta, portando spesso gli alleati recalcitranti del CLN sul proprio terreno di azione sia per quanto riguardava l'organizzazione della lotta armata, soprattutto nel Nord, dove per lo svolgersi degli avvenimenti ebbe maggiore durata ed estensione, sia per far riconoscere ai comunisti una partecipazione diretta ed adeguata alla loro forza, nella direzione unitaria centrale del movimento partigiano.

Anche nel conseguimento di questo risultato giocò in modo decisivo l'intelligenza politica di Togliatti, che, quando propose la svolta di Salerno, dimostrò, in quella situazione, per usare una espressione di Nenni, di essere il solo veggente in un regno di ciechi. Le sue indicazioni e le sue iniziative, subito dopo il rientro in Italia, consentirono al partito, a tutto il partito, di mettere a frutto e di esaltare nella più larga misura le potenzialità di lavoro e di lotta unitaria allora esistenti nel paese. Sotto questa luce va valutata ed apprezzata la politica che è passata alla storia sotto il nome di «svolta di Salerno». In realtà, questa politica, che costituiva il coerente e pieno sviluppo di indirizzi sui quali il partito già si muoveva, consentì allora ai comunisti, al movimento operaio, ai gruppi democratici progressisti di avere un posto riconosciuto ed autorevole nello schieramento unitario antifascista. Esso ci consentì non solo di confrontarci apertamente di fronte alle masse con i gruppi più conservatori e moderati, ma anche di condizionare questi gruppi i quali facevano affidamento sull'appoggio angloamericano per precostituire una prospettiva politica che facesse salvi i vecchi equilibri di classe. Ora, di fronte al ruolo che i comunisti stavano assumendo nella vita nazionale, gli stessi governi e comandi alleati si videro costretti a ponderare più cautamente le loro mosse politiche e i loro intenti anticomunisti.

Da questo dato centrale della nostra politica di allora prescindono volutamente avversari e critici del PCI, spesso impegnati a tracciare l'immagine deforme di un Togliatti teso a perseguire una «politica di vertice» in antitesi con la «politica di base» e con l'iniziativa delle masse. A questo riguardo sono illuminanti i documenti scambiati fra i due centri dirigenti: dalle polemiche vivaci, dai contrasti, dai franchi scambi di opinione emerge chiaramente la comune preoccupazione, lo sforzo collettivo per elaborare e realizzare una politica complessiva del partito, capace di dare risposte adeguate ai problemi di vario ordine che venivano di volta in volta sul tappeto (problemi di governo, militari, sociali, sindacali, costituzionali, di partito, ecc.).

Nei fatti, nelle realtà concrete che affrontammo ogni giorno, momenti di base e momenti di vertice della nostra politica furono elementi dialettici di una unica azione che la riconosciuta sagacia del compagno Togliatti seppe felicemente combinare. Basti considerare che «la politica di Salerno» permise proprio a noi, nell'Italia occupata dai nazisti, di sviluppare e di estendere l'unità di base con altri settori dello schieramento antifascista, con formazioni partigiane di orientamento non comunista. Quella politica, cioè, diede un apporto decisivo anche allo sviluppo unitario alla base della lotta armata contro i nazifascisti, contribuendo ad accrescere il prestigio, l'influenza, il peso del nostro partito nell'ambito della Resistenza. D'altra parte questo fatto non mancò di incidere sulla situazione nel Sud, sui rapporti di vertice, dove crebbero il peso e l'influenza del PCI nel CLN e nella coalizione di governo.

Non va tuttavia taciuto, come talvolta fanno certi storici, che dopo la svolta di Salerno non ci fu un maggiore intervento da parte degli alleati o del governo italiano in aiuto al movimento partigiano del Nord e al potenziamento della guerra di liberazione. Gli alleati non permisero di organizzare (ad eccezione di poche unità aggregate alle loro armate) un vero e grande sforzo di guerra di tutto il paese ed in primo luogo di creare un esercito italiano che si battesse sul serio contro i tedeschi, come Togliatti aveva sperato ed insistentemente richiesto.

Al governo italiano non fu lasciata possibilità alcuna di aiutare concretamente la Resistenza effettuando o ottenendo che fossero effettuati maggiori lanci nel Nord. Tanto meno fu possibile il lancio di paracadutisti, di reparti aviotrasportati, di mezzi pesanti di guerra.

Tutte le «zone libere» furono liberate dai partigiani del Nord quando già c'era un governo di unità nazionale, nel corso dell'estate e dell'autunno, e nessuna di esse poté ricevere (malgrado avessero per prima cosa preparato dei campi di atterraggio per aerei) un aiuto concreto di uomini e di armi per poter rafforzarsi e resistere. Fu solo paracadutato un coraggioso sottosegretario di Stato che prese contatto con il CLNAI e il Cvl. Ancora nel novembre 1944, quando la missione del CLNAI (Parri, Pajetta, Pizzoni, Sogno), si recò a Roma e fu ricevuta dal presidente e poi dal Consiglio dei ministri, il governo italiano si limitò a dichiarare la propria incompetenza ad affrontare le situazioni dei territori invasi, soggetti esclusivamente, in quanto zona di operazioni, all'autorità militare alleata; la missione avrebbe dovuto quindi trattare da sola con gli angloamericani.

Lo stesso compagno Togliatti scrisse nel dopoguerra:
«Non fu soltanto la svolta di Napoli, cioè non fu soltanto la posizione presa dal partito nella zona già liberata che cambiò il corso delle cose. Fu tutta l'attività dei comunisti tra il popolo e nei contatti con gli altri raggruppamenti politici.
I compiti più gravi si imposero nelle regioni occupate dai tedeschi per l'organizzazione della resistenza di tutta la popolazione e la lotta armata contro i fascisti e gli invasori stranieri. Per risolvere questi compiti non furono necessarie soltanto enormi capacità di organizzazione, di coraggio, di spirito di sacrificio, eroismo.
Le avanguardie operaie e popolari prodigarono in questi campi veri tesori. Fu anche necessario, però, fin dal primo momento, lavorare e combattere a passo a passo, nel contatto e in unione con altre forze politiche, per fare accettare da tutti le necessità e le responsabilità, per smascherare l'attesa inerte, il doppio giuoco, il tradimento, la viltà e per trascinare gli altri con l'esempio, là dove non si riusciva col ragionamento. La vittoria insurrezionale del 25 aprile 1945 fu il risultato di due lunghi anni di questo lavoro, che non fu soltanto propaganda ed organizzazione indispensabile alla preparazione dei combattenti contro lo straniero, ma azione politica che preparava un rinnovamento d'Italia attraverso la stretta unione di tutti i cittadini di spirito democratico e patriottico».

Da questi pochi cenni si può intuire tutta la complessità, la varietà e l'urgenza dei compiti politici, operativi, organizzativi che stavano allora davanti al nostro partito, non soltanto in vista dei compiti immediati della lotta armata, ma anche nella prospettiva della creazione di un nuovo regime di libertà e di democrazia. Era necessario un partito in grado di affrontare questi compiti nel modo più giusto e costruttivo. Questo problema fu subito presente ai due gruppi di direzione di Roma e di Milano, come risulta ampiamente dal loro carteggio.

Accanto all'iniziativa politica, accanto all'impegno per organizzare ed estendere la resistenza armata contro il nazifascismo, accanto all'impegno di lotta nelle fabbriche, e in stretta connessione con l'impegno in questi campi, c'era quello di costruire e far crescere rapidamente un partito di tipo nuovo. Nuovo in rapporto ai vecchi schemi organizzativi, nuovo in rapporto alla tradizione «carbonara» dei piccoli gruppi illegali, nuovo – soprattutto – in rapporto alla complessità ed alla originalità delle situazioni da affrontare e dei compiti da realizzare.

Bisogna riandare a quegli anni di fuoco se si vuole comprendere quello che a molti è apparso negli anni successivi e continua ad apparire come l'inesplicabile «miracolo del PCI». Allora, nel vivo della lotta imparammo a svolgere un'azione politica vasta, di mobilitazione e di direzione di massa; di agitazione, di propaganda, di organizzazione e così creammo legami organici con gli strati più ampi di lavoratori e di intellettuali progressisti; ponemmo le basi di un partito capace di affrontare i problemi concreti delle grandi masse e del paese per avanzare su una via democratica e nazionale al socialismo.


Da tutto quanto siamo venuti dicendo viene, a nostro avviso, una precisazione non solo di momenti essenziali della nostra storia, ma anche un insegnamento che riteniamo di valore più generale: l'importanza cioè che hanno per un partito comunista e soprattutto per un partito che si trova ad operare in condizioni difficili, una vita interna profondamente democratica, la libera circolazione delle idee, i rapporti effettivamente democratici esistenti tra il centro e la base e tra il partito e le masse. Tutto questo, mai è venuto meno nel nostro partito, neppure nei duri anni della Resistenza. Il pericolo più grave che può correre un partito comunista è che, stretto dalle esigenze di una lotta dura e difficile, esso perda la sua caratteristica di partito democratico e rivoluzionario per trasformarsi – per qualsiasi motivo – in un partito burocratico il quale potrà forse risolvere più facilmente problemi di ordinaria amministrazione ma rischierà, il più spesso, di mancare alla sua funzione di animatore e di dirigente politico delle più larghe masse popolari sulla via delle trasformazioni democratiche e socialiste della società.

I risultati ottenuti durante e dopo la Resistenza, il posto che il PCI ha via via conquistato come grande prestigioso partito operaio e popolare, nazionale e internazionalista dimostrano che gli sforzi compiuti dai comunisti italiani per evitare questi pericoli hanno avuto un considerevole successo.