sul PCI e dintorni

Aldo Agosti, Storia del Partito comunista Italiano 1921-1991. Laterza, 1999. Pag. 148. Euro 8, 26

Questo sintetico volume dello storico Aldo Agosti, autore tra l'altro di un‘apprezzata biografia di Palmiro Togliatti (Togliatti, UTET, 1996), costituisce un'efficace ricostruzione della storia del PCI nella quale si riesce a conciliare il racconto delle vicende politiche con l'analisi dello sfondo storico, delle discussioni interne e delle personalità dei leader, nel riferimento costante alla varietà delle interpretazioni elaborate dagli studiosi.

La storia del partito ha inizio il 21 gennaio 1921, quando un gruppo di delegati del XVII congresso del PSI abbandonò il teatro Goldoni di Livorno per trasferirsi al teatro San Marco e dare vita ad un nuovo soggetto: il Partito Comunista d'Italia (nome poi cambiato in Partito Comunista Italiano, con lo scioglimento dell'Internazionale comunista). La nascita del PCI va messa in relazione con la strategia della Terza Internazionale e dei bolscevichi dell'URSS, che imponeva un'accelerazione alla creazione di formazioni comuniste nazionali, nella convinzione che la rivoluzione sarebbe presto dilagata in tutti i paesi capitalistici. Agosti mette a fuoco le varie anime del PCI nei primi anni di vita, con particolare attenzione verso la corrente di Amedeo Bordiga detta "astensionista" (contraria a partecipare alle elezioni), ed il gruppo torinese di Antonio Gramsci raccolto attorno alla rivista L'Ordine Nuovo. Il PCI, pur senza raggiungere risultati elettorali strepitosi (circa 300.000 voti e 15 seggi alle elezioni del 1921), riuscì rapidamente a radicarsi in tutto il territorio nazionale, per lo più sovrapponendosi alla geografia politica del PSI. Il ventennio fascista fu un periodo di enormi difficoltà per i comunisti italiani: il partito fu messo fuorilegge, quasi tutti i membri del gruppo dirigente furono esiliati o incarcerati (come Gramsci), gli organi di stampa soppressi.
Ma il PCI fu l'unico dei partiti italiani capace di mantenere in piedi una struttura organizzativa clandestina con una direzione interna ed una all'estero. Grazie a questa capacità di sopravvivenza, esso poté accreditarsi come la più attiva e la più combattiva delle forze di opposizione al regime. L'importanza del contributo dato dai comunisti italiani alla Resistenza partigiana tra l'autunno 1943 e la primavera 1945 sta fuori discussione: almeno 70.000 furono i partigiani inquadrati nelle Brigate Garibaldi. Ma la legittimazione del PCI come forza di governo nello scenario postbellico scaturì anche dalla strategia moderata dettata dal segretario Togliatti: l'obiettivo primario era la formazione di larghe intese in nome dell'antifascismo, aperte anche ai monarchici e perfino ai fascisti dissidenti.
La cosiddetta svolta di Salerno del 1944, con il rinvio della questione istituzionale e l'appoggio al governo Badoglio, si inserisce proprio in questa strategia che portò il PCI al governo del paese nei primi anni del Dopoguerra.

Il "partito nuovo" voluto da Togliatti non si caratterizza più come un piccolo gruppo rivoluzionario costretto all'illegalità, ma come un'organizzazione di massa, con legami profondi nella società italiana e anche con pesanti condizionamenti di natura esterna (legame con l'URSS di Stalin). Agosti analizza i vari aspetti di quella che si suol denominare "doppiezza" del PCI: non si trattava tanto di un astuto mascheramento di obiettivi rivoluzionari dietro una facciata moderata, ma della compresenza di linee strategiche spesso contrastanti tra loro (opzione rivoluzionaria auspicata da larghi settori della base, strategia della "democrazia progressiva" come transizione verso il socialismo, voluta da Togliatti). In quegli anni l'azione politica mira al mantenimento delle posizioni raggiunte, ovvero alla presenza nei governi di coalizione (da qui le scelte moderate di Togliatti, come il decreto di amnistia del 1946 ed il voto favorevole all’integrazione dei Patti Lateranensi nella Costituzione).


Dopo l'uscita dal governo e le elezioni del 18 aprile 1948, inizia l'opposizione "dura e pura" all'egemonia democristiana; una lunga fase nella quale il PCI rafforza la sua macchina organizzativa (toccando i due milioni di iscritti) e organizza lotte epocali come quella a sostegno dell‘occupazione di terre al Sud o contro la legge truffa del 1953. Si consolida così come partito nazionale di opposizione capace, al tempo stesso, di amministrare diversi enti locali. Soprattutto si viene a stabilire una tradizione di "doppiezza" del PCI: fedeltà a Mosca sul piano internazionale, ma identità culturale nazionale con piena accettazione della dialettica democratica e rifiuto dell'opzione insurrezionale.
Il 1956 è un anno fondamentale: la rivelazione dei crimini staliniani e l'invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati dell'Armata rossa innescano polemiche, dissidenze ed emorragie di iscritti, senza però dare ancora l‘avvio ad un processo di ripensamento complessivo. Negli anni del vecchio centrosinistra cresce l'isolamento del PCI, benché sul piano elettorale il trend sia costantemente positivo.
Permane il legame di ferro con il PCUS e con i paesi dell'Europa orientale; ma quando nel 1968 le truppe del Patto di Varsavia stroncano la "Primavera di Praga", pur tra dubbi e tentennamenti, il partito esprime la propria riprovazione. È il primo passo di uno processo di distanziamento da Mosca, destinato a concludersi diversi anni dopo. Nei confronti di eventi come il movimento studentesco o l'autunno caldo, il PCI è colto impreparato ed oscilla ambiguamente tra la riprovazione paternalistica ed il desiderio di cavalcare la protesta.

Negli anni Settanta, con la segreteria Berlinguer, si delinea una nuova stagione. Grazie alla strategia del "compromesso storico" (alleanza tra comunisti e cattolici) il PCI raggiunge una forza elettorale cospicua, oltre il 34 % dei voti, e conquista la guida di importanti regioni e città d'Italia.
L'avvicinamento all'area di governo si compie negli anni tra il 1976 e il 1978 (gabinetti monocolori democristiani verso i quali il PCI esprime un voto di astensione o di appoggio esterno), ma tale strategia non porta ai risultati sperati da Berlinguer e anzi produce forti perdite di consenso. Con l'omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse si chiude la stagione politica della cosiddetta solidarietà nazionale. La coalizione di pentapartito che domina la scena per tutti gli anni Ottanta si fonda sul ritorno alla conventio ad excludendum nei confronti del PCI. Nonostante lo strappo da Mosca, a cui i comunisti italiani rimproverano duramente l'invasione dell'Afghanistan nel 1979 e il golpe in Polonia nel 1981, l’autocandidatura del PCI a partito di governo in opposizione alla DC (strategia dell'"alternativa democratica") produce isolamento politico e insuccessi elettorali.
La morte improvvisa di Berlinguer acuisce la crisi d'identità sempre più difficile e complessa, che trova uno sbocco con la caduta del muro di Berlino, quando il gruppo dirigente decide di cambiare la denominazione del partito dando vita ad una nuova formazione politica non più comunista (il Partito Democratico della Sinistra o PDS). Il volume di Agosti è corredato da una pregevole bibliografia ragionata (pp. 127-134) e da un'utile cronologia essenziale (pp. 135-139).

Piero Ignazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, 1992. Pag. 176. Euro 9, 29

Il più accurato tra gli studi dedicati alla trasformazione del Partito Comunista Italiano in Partito Democratico della Sinistra è quello di Ignazi, che ricostruisce tale passaggio esaminandone le dinamiche, gli attori e le condizioni storiche. Se l'inizio del processo di crisi viene ricondotto al fallimento della strategia del compromesso storico promossa da Enrico Berlinguer attorno alla metà degli anni Settanta, l'esplosione vera e propria della crisi si determina invece alla metà degli Ottanta con una serie di sconfitte elettorali abbastanza pesanti (elezioni regionali e referendum sulla scala mobile nel 1985, elezioni politiche nel 1987). La spinta al cambiamento si leva dalla base e dai quadri dirigenti periferici portando alla nomina di Achille Occhetto a segretario generale del partito. Occhetto avvia una "rivoluzione copernicana": distacco dall'ideologia e dalla mitologia marxista, rinuncia all'operaismo e al centralismo democratico, centralità di tematiche nuove, estranee alla tradizione comunista, come i diritti civili, la non-violenza, l’attenzione per il pensiero femminile. Tale svolta ideologica si rivela tuttavia insufficiente e finisce con l'accentuare la crisi d'identità dei comunisti italiani. La caduta del muro di Berlino segna un'accelerazione repentina ed inattesa nel processo di cambiamento, anche se tra l'annuncio della necessità di cambiare il nome del partito (novembre 1989) e la nascita del PDS passano ancora 15 mesi. Ignazi ricostruisce la lunga e complessa gestazione della "cosa" occhettiana, ripercorrendo le tappe del dibattito, le esitazioni e le polemiche, le divisioni in uno schieramento favorevole ed uno contrario, fino all'atto finale del febbraio 1991 (approvato dal 64,1% dei delegati), che ha segnato lo scioglimento del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra, con il nuovo simbolo della quercia.

Di particolare interesse è il primo capitolo del libro ("Il mutamento nei partiti", pp. 11-28) sulle modalità secondo cui si sono verificati i cambiamenti nella lunga storia del PCI: si è trattato sempre di operazioni promosse dalla leadership sulla spinta di eventi esterni; ne è esempio il golpe militare cileno di Pinochet che spinse Berlinguer ad elaborare la strategia del compromesso storico negli anni Settanta. Nel capitolo "Identità" (pp. 29-83) Ignazi tenta una ricognizione dell'identità comunista tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, avvalendosi di vari strumenti di analisi, tra cui specialmente i sondaggi effettuati tra i militanti del partito. Ne esce un quadro complessivamente ambiguo, con elementi identitari forti e molto sentiti, benché già da tempo in crisi, quali per esempio l'ideologia marxista e il legame di ferro con l'URRS: anche dopo lo strappo di Berlinguer da Mosca del 1981, il mito sovietico perdura a lungo nella cultura politica della base e dei quadri dirigenti, con l'idea diffusa che nei paesi dell'Est sia possibile una rigenerazione democratica dall'interno. Da qui la conclusione che il PCI abbia conservato fino al suo scioglimento l'imprinting della diversità e/o specificità comunista.
I capitoli terzo e quarto ("L'organizzazione: teoria, strutture, personale", pp. 85-125; "Il nuovo partito", pp.127-167) sono dedicati all'analisi del modello organizzativo. Avvalendosi di tabelle e inchieste statistiche, Ignazi dimostra che il modello impostato da Togliatti nel dopoguerra si è conservato sostanzialmente intatto fino alla segreteria Occhetto, almeno per quanto riguarda quattro elementi fondamentali: il mito dell'organizzazione, il metodo del centralismo democratico (si può discutere all'interno del partito, ma le decisioni prese vanno poi difese compattamente all'esterno), l'impegno a tempo pieno del personale politico, la verticalità della catena decisionale (dall'alto verso il basso). Ciò non toglie che si siano verificati anche importanti cambiamenti per quanto riguarda gli iscritti e l'apparato: per esempio l'invecchiamento progressivo della base e la regressione della componente operaia. Quanto alla trasformazione in PDS, l'autore ritiene che non si sia trattato di un semplice cambiamento di facciata, come dimostra il sostanziale turn over dei quadri intermedi e dirigenti, nonché le laceranti discussioni e le contrapposizioni che hanno accompagnato il processo: la rinuncia all‘appellativo "comunista" avrebbe significato di fatto l'abbandono dell‘originaria identità.

Altre indicazioni bibliografiche

Tra le storie del PCI è importante quella di Giorgio Galli : Storia del PCI. Livorno 1921 - Rimini 1991. Milano: Kaos, 1993. Pag. 325. Quando fu pubblicata per la prima volta, nel 1952, era una ricostruzione pionieristica per la scarsità e la unilateralità dei documenti disponibili. Ma lo studio di Galli ha avuto una discreta fortuna ed è stato ripubblicato in diverse edizioni con appendici o aggiornamenti, fino all'ultima versione che si propone come bilancio storico complessivo dei settant‘anni di storia del Partito Comunista Italiano. Il modello interpretativo adottato dall’autore privilegia il rapporto tra PCI e società italiana, rapporto di cui si mettono in rilievo di volta in volta le difficoltà e i consensi, le contraddizioni e le innovazioni. La tesi di fondo è che il PCI, specie nei primi decenni del dopoguerra, abbia adottato una linea di eccessiva cautela rinunciando a mobilitare tutte le energie innovatrici potenzialmente disponibili nella società italiana.

Per il periodo dal 1921 al 1945 la storia più completa e autorevole resta quella in cinque volumi di Paolo Spriano, Storia del PCI. Torino: Einaudi, 1967-1975.
Negli anni Novanta la casa editrice Einaudi ha promosso la prosecuzione di tale monumentale opera. Finora sono usciti due nuovi volumi. Uno è di Renzo Martinelli, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. VI: Il "partito nuovo" dalla Liberazione al 18 aprile. Torino: Einaudi, 1995. Martinelli, scavando anche negli archivi del partito, esamina i primi anni del dopoguerra nei quali si delineano gli equilibri politici perdurati in seguito, con la consacrazione dell'egemonia democristiana e del ruolo d‘opposizione assunto dal PCI.
Al periodo che va dal 1948 al 1953 è dedicato invece il volume di Renzo Martinelli - Giovanni Gozzini: Storia del Partito Comunista Italiano, vol. VII: Dall'attentato a Togliatti all'VIII congresso, Torino: Einaudi, 1998. Nella difficile fase condizionata dallo scenario internazionale della guerra fredda, l'azione del PCI si caratterizza per la strategia di opposizione parlamentare e per l'appoggio alle lotte sociali.


Dallo scioglimento del PCI è nato nel 1991 oltre al PDS anche il Partito della Rifondazione Comunista, che intende testimoniare l'esistenza di un filone comunista radicato nella società italiana. In Rifondazione sono confluiti settori del PCI, del sindacato, nonché gruppi dell'ultrasinistra (come Democrazia Proletaria). Nelle consultazioni degli anni Novanta il PRC, guidato dall'ex sindacalista Fausto Bertinotti, ha ottenuto risultati tra il 5 e l'8%.
Uno studio specifico sulle vicende di Rifondazione nei suoi primi dieci anni di vita ancora non è disponibile. Si segnala Carlo Meoli, Rifondazione. Storie di comunisti. Edizioni dell'Ippogrifo, 1996 (ricostruzione dei fatti fino al 1995 e inchiesta giornalistica attraverso interviste a vari protagonisti). Nel 1998, in seguito alla fuoriuscita da Rifondazione Comunista di alcuni esponenti decisi a votare la fiducia parlamentare al governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, è nato il Partito dei Comunisti Italiani, guidato da Armando Cossuta e Oliviero Diliberto. Sempre nel 1998, durante la segreteria D'Alema, il Partito Democratico di Sinistra ha nuovamente mutato denominazione assumendo quella di Democratici di Sinistra (DS); rimarchevole l’abbandono definitivo della falce e martello, che prima erano riprodotti in piccolo ai piedi del nuovo simbolo della quercia, oggi alla base dell’albero è raffigurata una piccola rosa, simbolo del Partito Socialista Europeo.

da: La Cultura Italiana. Percorsi bibliografici