Luciana Castellina

Terza via e specificità del PCI


L’epoca di Berlinguer coincide per me con un tempo lunghissimo, perché comincia addirittura nel 1947, dal Fronte della Gioventù, poi prosegue in una lunga collaborazione nella Federazione giovanile comunista, di cui sono stata funzionaria quando lui era segretario.
Non è però su quell’epoca che voglio qui soffermarmi, sebbene sia un’epoca ricca di spunti. Voglio soffermarmi sugli ultimi anni di Berlinguer, perché sono quelli in cui mi sono trovata più in sintonia con lui. E sono anche gli anni in cui mi sono ritrovata con lui al Parlamento europeo.
Mi sono trovata più in sintonia, sebbene, come è noto, non lo sia sempre stata. Anzi. Sia al tempo del Manifesto che nella stessa Fgci abbiamo avuto non pochi conflitti.
Al Parlamento europeo c’era, allora, anche Willie Brandt e, per via dell’isolamento in cui la radiazione dal PCI aveva collocato quelli del Manifesto-Pdup, io all’epoca avevo forse rapporti assai migliori con i socialdemocratici che non con i partiti comunisti, sebbene noi fossimo stati espulsi con l’accusa di essere troppo di sinistra.
Per questo ho visto crescere il rapporto fra il PCI e la socialdemocrazia, e personalmente tra Berlinguer e Brandt, guarandolo da ambedue le parti. Non solo il rapporto tra il PCI e la SPD, ma anche fra due uomini politici che non potevano essere più diversi umanamente, ma erano simili in alcune cose.
Innanzitutto erano simili i due partiti: avevano grandi dimensioni, un radicamento sociale molto forte, un orgoglio di partito per nulla comune agli altri partiti socialisti, ciascuno, a suo modo, rappresentava un’anomalia rispetto alle rispettive famiglie politiche, ed erano più simili fra loro di quanto non fosse il Partito comunista italiano rispetto agli altri partiti comunisti. Infatti dicevamo allora: «è vero amore, non è adulterio, fra i due partiti», perché i due partiti si sentivano molto più simili di quanto in quell’epoca il PCI si sentisse simile al PCF.
Sono partiti che in quegli anni si sono impegnati, anche molto per via di Berlinguer e di Brandt, in un ripensamento critico ciascuno della propria esperienza, perché investiti dai nuovi movimenti e soprattutto dai nuovi temi; tutti e due consapevoli del
cambiamento dell’epoca in corso. In occasione di questo anniversario della scomparsa di Berlinguer, mi sono riimmersa nelle tantissime carte che conservo sul PCI dell’epoca: articoli, appunti di interventi fatti nei Comitati centrali e così via. Fra queste carte, ho trovato gli appunti preparati per una conferenza, datata «Novara ‘85», proprio all’indomani della morte di Berlinguer. Ne riporto alcuni brani, perché quello che dissi allora mi sembra ancora del tutto sottoscrivibile oggi, e perché comunque ha il valore della testimonianza di un’epoca.

Passaggio storico

«Sono anni, quelli che stiamo vivendo, molto particolari: non è accaduto nulla di enorme, non c’è stata la guerra, non c’è stata un’evidente modificazione degli equilibri politici in Italia e a livello internazionale, eppure tutti avvertiamo che in questi dieci anni è cambiato quasi tutto. È finita un’epoca in cui si era sperato in una lineare crescita delle forze produttive, soprattutto come forza industriale, che avevano garantito piena occupazione, più sapere, più prosperità, il ridursi delle zone di emarginazione sociale. Oggi il quadro è diverso: ci affacciamo al trapasso verso una società post-industriale, con tutto il suo carico di problemi irrisolti e di giganteschi squilibri.
Ecco il merito primo di Berlinguer e, per altri versi, anche in qualche modo di Brandt: avere avvertito la drammaticità di questo passaggio storico e avervi reagito - è il caso di Berlinguer - rifiutando la duplice tentazione, in cui pure tante altre forze della sinistra erano cadute. Aver rifiutato un arroccamento settario, la chiusura al nuovo e la ricerca della propria identità in certezze oramai obsolete e, al tempo stesso, di aver rifiutato l’omologazione del PCI al gretto stato delle cose presenti, impegnandolo invece in un progetto di cambiamento in cui reinverare, rinnovandola, l’identità comunista.
Quando gli storici ricostruiranno compiutamente questi anni, e il pensiero di Berlinguer in rapporto ad essi, questo dato di fondo dovranno cogliere, con quanto anche di personale egli ci mise, cioè il senso della drammaticità degli eventi; e penso all’insistenza, nei suoi ultimi anni, sulla questione della pace.
Il rifiuto dell’arroccamento settario insieme all’orgogliosa convinzione del valore dell’identità comunista: questo ha permesso a noi dell’ex-Pdup, che su tante questioni siamo stati in disaccordo con il Partito comunista e con Berlinguer stesso, di ritrovarci con Berlinguer, che certo fu quello che preparò le condizioni per la nostra successiva confluenza, o riconfluenza, nel PCI, fino a sottolinearla con un gesto eccezionale, che voglio qui ricordare: volle venire personalmente ad assistere al nostro ultimo congresso, nel 1984, con ciò dando anche un segnale di apertura e di spregiudicatezza nuovo nella tradizione comunista.
Questa consapevolezza propria di Berlinguer del carattere di crisi epocale che vivevamo, è quanto ha consentito al Partito comunista di gettare le basi di un inedito rapporto con il resto della sinistra europea, o almeno con la parte più sensibile della socialdemocrazia, che in quegli stessi anni era costretta dagli eventi a rimettere a sua volta in discussione tante proprie certezze. Anche la socialdemocrazia, di fronte alla crisi, andava infatti rimettendo in discussione i suoi limiti storici e una sua parte si rendeva conto che occorreva una nuova analisi, una nuova ricerca, un nuovo progetto».

Terza via

Sono quelli gli anni in cui, mentre la destra chiede al PCI di fare la sua Bad Godesberg, una parte della socialdemocrazia sta andando in senso inverso: l’SPD sta rielaborando le proprie tesi, rivisitando criticamente Bad Godesberg; gli svedesi varano il piano Maidner, in cui non si parla più solo di redistribuzione della ricchezza ma di intaccare i meccanismi di mercato e persino la proprietà privata; sono gli anni in cui il partito laburista inglese è presieduto da Michael Footh e chiede l’allontanamento delle basi americane, la denuclearizzazione; sono gli anni in cui la proposta della fascia denuclearizzata al centro dell’Europa porta le firme di Palme, di Egon Bahr, di Papandreu; mentre al congresso della SPD di Norimberga una relazione di Von Bulow chiede persino il ritiro delle truppe americane e sovietiche dall’Europa.
C’è, insomma, in quegli anni, un mutamento (in seguito del tutto riassorbito) che cambia un po’ tutti. La «terza via» di Berlinguer nasce da questo travaglio, da questo incontro. Certamente è rimasta un’intenzione politica astratta, velleitaria forse, certo non diventò un pratica incisiva, restò un tema teorico più che una compiuta strategia.
E tuttavia io credo sia stata importante perché non era una via di mezzo tra socialdemocrazia e comunismo, tra autoritarismo, socialismo reale e democrazia parlamentare: muoveva dal rifiuto delle tradizioni e delle concezioni economiciste e stataliste di tutto il movimento operaio tradizionale, sia della Seconda che della Terza Internazionale. Era il rifiuto della sostanziale accettazione del moderno tipo di sviluppo capitalistico da un parte e anche di un concetto di rivoluzione che non aveva comunque più a che vedere con la presa del Palazzo d’Inverno, ma era ridotto ormai ad una conflittualità rivendicativa permanente.
L’ipotesi di Terza via non è insomma un semplice aggiornamento della strategia tradizionale, ma una vera rottura con ambedue le tradizioni e i modelli, un loro superamento critico.
A questa ipotesi Berlinguer arriva non solo per via del lungo travaglio che aveva portato il PCI a definire il progetto «eurocomunista », che in realtà è un processo che inizia già con Togliatti e prosegue con Longo. Un processo che era maturato in parallelo con il graduale ma non per questo meno traumatico processo di distacco dall’osservanza sovietica.
Fu un momento importante, a caratterizzare il quale contò anche la comune vita nel Parlamento europeo, un rapporto diretto, una pratica politica comune, perché la reciproca visione dell’altro in quegli anni si deideologizza e così si scopre che spesso le divisioni, il confine tra le due sinistre, non passa tra socialisti e comunisti, ma all’interno delle due famiglie, spesso all’interno dei singoli partiti, che sono tutti percorsi dal travaglio di quegli anni.
Non solo queste cose contano, ma conta soprattutto, nel determinare l’ipotesi della Terza via, la presa d’atto di un mutamento epocale, di una crisi che metteva in discussione lo stesso modello di sviluppo dell’Occidente. In questo senso il discorso di Berlinguer sull’austerità, vale a dire di un modello di vita sobrio - non dei sacrifici fatti per l’emergenza, come fu miopemente interpretato - il peso che egli dà ai problemi del rapporto Nord-Sud (anche qui c’è l’influenza di Brandt, che nello stesso tempo sta mettendo a punto il suo famoso rapporto per l’Onu), l’attenzione ai problemi del governo mondiale, al pacifismo, l’interesse che Berlinguer prestò in quegli anni al femminismo, che lo indusse con straordinaria pazienza a seguire i primi e astrusi convegni sulla differenza di genere, quelli della Libreria delle donne di Milano, sforzandosi di capirli; e contemporaneamente, però, l’attenzione, il rispetto per il protagonismo operaio - da qui la famosa sua presenza ai cancelli della Fiat, che non ne fu che il momento simbolico: tutto questo, che in qualche modo lo allontanava dalla politica italiana, dai suoi partiti, dai suoi equilibri, è quello che gli consentì di guardare più in grande a ciò che accade a livello mondiale.
Tutto questo, dicevo, è quanto determina - assai più che il distacco dall’Urss - la scelta della Terza via. Perché la critica all’Urss, lo «strappo», Berlinguer l’accompagna alla cocciuta riproposizione di una diversità comunista che non è solo morale, ma politica.
Nell’intervista a Critica marxista del 1981 Berlinguer afferma: «Anche il PCI è figlio della Rivoluzione d’Ottobre, ma un figlio adulto e autonomo; e ciò che ci rimproverano è non aver rinunciato a lottare per il cambiamento radicale della società. Si vorrebbe che noi ci accontentassimo di limitare la nostra azione, introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente senza mai porre in discussione e prospettare un sistema profondamente diverso dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale».


La rimozione del PCI

Certo, non fu un percorso lineare: in mezzo ci fu la sconcertante dichiarazione sulla Nato che inquinava l’ipotesi di un’Europa autonoma dai blocchi, che pure è alla base della Terza via. In mezzo ci furono soprattutto i ritardi fatali.
L’intuizione della Terza via era venuta in ritardo, quando già i rapporti di forza nel mondo e in Italia stavano cambiando, erano cambiati al peggio. Certo, se quella idea avesse trovato fondamento prima, forse avrebbe avuto tutt’altro segno: quando i rapporti di forza erano, nei primi anni settanta, del tutto diversi. (Questa fu la polemica che il Manifesto-Pdup ebbe con il PCI, in quegli anni).
Non è un caso che - anche per via di questo ritardo e certo per la improvvisa e precoce scomparsa di Berlinguer - il tema della Terza via sia stato recuperato e stravolto dalla leadership comunista, segnatamente dalla sua corrente di destra, che peraltro deteneva il monopolio dei rapporti internazionali, dei rapporti con gli altri partiti, e che ne fece banalmente lo strumento per un rapporto con la socialdemocrazia, cioè di un’integrazione subalterna nell’Internazionale socialista.
Fu, come ricorderete, l’occasione dello scontro che si sviluppò al 17° congresso del PCI a Firenze, attorno alla famosa frase, alla sua ambiguità: «siamo parte integrante della sinistra europea». Mi ricordo Zagladin che con una certa ironia disse: «Certo, anche noi siamo parte della sinistra europea, mica siamo africani, tutti siamo europei, tutti siamo di sinistra». Ovviamente c’era in quella frase un’intenzione del tutto diversa, velenosa, che era quella che sottintendeva: «siamo parte di quella sinistra europea». E infatti sappiamo cosa accadde: il nostro gruppo al Parlamento europeo fu disgregato, ecc.
Il seguito della vicenda è nota, le intuizioni più importanti, gli atti più coraggiosi che Berlinguer compì negli ultimi quattro anni della sua vita sono stati sempre più presi come bersaglio e criticati per giustificare l’omologazione e la rimozione del PCI.
Il dibattito che ferve sulla storia del PCI non è condotto dagli storici ma dai politici, e fra questi, in generale, non dai tradizionali avversari, ma da molti dei suoi ex collaboratori e apologeti, e non a caso, perché non ha come obiettivo un’analisi, magari critica, ma il definire attraverso la polemica col passato la propria nuova collocazione nel presente.
Quello che emerge è sempre il tentativo di annullare l’originalità e l’eccezionalità della storia del PCI, per cui fino a poco tempo fa si parlò soprattutto di Togliatti, per identificarlo con Mosca, e giustificare così lo scioglimento del Partito comunista italiano; oggi, soprattutto di Berlinguer, per presentarlo come un bacchettone moralista, l’avversario della modernità, incapace di vedere le novità della situazione, e dunque responsabile (magari inconsapevole) di quella crisi del sistema politico italiano che è poi giunta all’apice nella metà degli anni novanta.
Non è un caso che la revisione in negativo del giudizio su Berlinguer vada di pari passo con la revisione in positivo del giudizio su Craxi. Certo, si deve dire che se l’evoluzione del PCI è stata quella che conosciamo è anche per via della concezione che Berlinguer aveva delle istituzioni e soprattutto del partito. E così la grande ricchezza di movimenti, di energie, di nuove culture che emerse negli anni settanta non trovò ascolto nel PCI di Berlinguer.
Il PCI non le usò per stabilire un rapporto nuovo tra istituzioni e società civile, tanto meno per rinnovare il partito nei suoi quadri e nella sua politica. (Tutt’al più si limitò a cooptare qualche «leaderino»).
Ci fu, infatti, in quegli anni, una ancor più marcata separazione fra il terreno politico e quello sociale e un’ulteriore centralizzazione del comando politico. Ed è stato così che anche dopo l’ottanta.

Dopo il PCI

Dopo la sconfitta bruciante del comunismo, la sua dissoluzione, noi dovremmo sentire tutti il dovere di sottolineare la specificità del PCI, che ha evitato, per merito di Gramsci, di Togliatti e di Berlinguer, che questo partito seguisse lo stesso percorso di altri comunismi.
Invece, proprio per via dell’assenza di un’analisi seria della nostra storia, finiamo oggi per trovarci davanti a due partiti nati dal seno del PCI che in modo del tutto diverso sembrano però ambedue sempre più estranei alla tradizione comunista, teorica e politica: il primo considera il comunismo come un cane morto, l’altro cerca di costruire un comunismo nuovo, che viene chiamato non a caso «antagonismo», termine che mi pare abbia più a che vedere con una tradizione di movimentismo radicale che trova origine della sinistra socialista che non con la tradizione culturale del PCI.
Come sia potuto accadere è un problema su cui dovremmo tutti impegnarci seriamente. Ed è comunque un esito di cui tutti dovremmo considerarci responsabili, in particolare quelli di noi che a quel partito comunista ancora tengono.

da Critica Marxista, n. 4 - 2004