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Aldo Agosti

Togliatti uomo di frontiera


Si può provare, a quarant'anni dalla morte di Palmiro Togliatti, a ripercorrere gli itinerari della sua "fortuna"? A farlo può aiutare una sommaria periodizzazione.
A dieci anni dalla scomparsa del "Migliore", nel 1974, il PCI era quasi all'apice delle sue fortune.
Su Togliatti si discuteva allora soprattutto a sinistra. Un anno prima, Giorgio Bocca ne aveva tracciato la prima biografia complessiva, certamente critica ma non ostile: un libro ricco di spunti intelligenti anche se non sorretto da una vera ricerca storica. La storiografia di impronta dichiaratamente comunista ma di alta scuola professionale dei Ragionieri e degli Spriano aveva ricomposto di lui un ritratto a tutto tondo, in cui le rotture drammatiche e le zone d'ombra del suo percorso biografico non erano taciute, ma si stemperavano in un quadro segnato dalla continuità di un'ispirazione "nazionale" e "democratica". E questo quadro, in fondo, era accettato dalla "nuova sinistra", che pur ne capovolgeva il segno di valore. Essa leggeva la storia del PCI come una contraddizione tra la forza che si era costretti a riconoscere al
suo radicamento di massa e al suo peso nella società italiana e un limite "soggettivo", una colpa di "revisionismo" che si attribuiva alla direzione togliattiana: il PCI, insomma, era diventato e rimasto un grande partito malgrado il suo gruppo dirigente e la sua linea.
A rimettere in discussione questo paradigma fu, già a partire dal 1978, l'area degli intellettuali vicini al socialismo craxiano, all'interno della quale si accese un vivace dibattito sulla rivista Mondo operaio, poi pubblicato molti anni dopo in un libro dal titolo eloquente, Le ceneri di Togliatti.
Concludendo questa discussione con la lapidaria invocazione "archiviare Togliatti per che la sinistra viva", Ernesto Galli della Loggia individuava nel "togliattismo" la "matrice teorica e antropologica sulla quale il partito comunista non solo ha costruito le proprie fortune, ma dalla quale è stato da cima a fondo plasmato finendo per ricavarne la proria stabile identità repubblicana", e insieme vedeva in esso "un fattore oggettivo di paralisi per tutta la sinistra e di minorità permanente per una parte essenziale di essa", un elemento di freno rispetto alla modernizzazione del paese. Di fronte alla sfida rappresentata da questa interpretazione, priva ancora dell'impatto mediatico che l'avrebbe sorretta anni dopo, la riflessione su Togliatti portata avanti all'interno del PCI, esauritasi la grande stagione degli studi degli anni '70, fu, con poche eccezioni, incerta e difensiva.
Dieci anni dopo le cose erano profondamente cambiate. Gli sforzi che pure non erano mancati di scomporre e soprattutto storicizzare l'esperienza di Togliatti liberandola dalla camicia di forza della "continuità" furono bruscamente oscurati dal terremoto del 19'89 e dalla cosidetta "rivoluzione degli archivi" che lo seguì. Fu un cambiamento di prospettiva radicale. Un cambiamento che in sé era salutare, perche la documentazione emergente dagli archivi ex sovietici permetteva di acquisire elementi nuovi e non secondari per ricollocare Togliatti nell'epoca di ferro e di fuoco in cui aveva consolidato la sua leadership nel PCI e affermato il suo ruolo di dirigente autorevole del movimento comunista internazionale. Ma quel cambiamento coincise con la crisi profonda degli equilibri politici consolidatisi in quasi un quarantennio di storia repubblicana, da cui anche il socialismo craxiano, dopo aver svolto il ruolo di apprendista stregone, finì per essere travolto e stritolato. Nel clima confuso dei primi anni '90 le spinte coraggiose a sbloccare il sistema politico italiano dalla morsa in cui l'aveva stretto la guerra fredda finirono per essere contrastate e deviate dal tentativo di delegittimare i fondamenti portanti della democrazia repubblicana, figlia malgrado tutto della convergenza storica delle diverse correnti dell'antifascismo (comunisti compresi) su una rilettura crtica della democrazia liberale.
In quel tentativo la demolizione della figura di Togliatti, proiettando una macchia che si voleva indelebile sulle credenziali democratiche dei suoi eredi, giocava un ruolo fondamentale. Basti ricordare la pubblicazione nel febbraio del '92 della sua lettera (in più punti falsificata o distorta) sulla prigionia degli alpini in Russia, e al battage mediatico che ne seguì: un caso macroscopico di spregiudicato uso pubblico della storia.
A un livello più alto, e scientificamente più presentabile, c'era l'ambiziosa pretesa di riscrivere un tratto cruciale della storia del PCI con un intento molto chiaro: dimostrare - come sostennero Aga Rossi e Zaslavskij - che esso fu "un partito teso a trasformare la società italiana secondo il modello sovietico", le cui "forme organizzative, strutture e caratteristiche principali erano essenzialmente simili a quelle dei partiti leninisti-stalinisti". E che perciò sarebbero stati "l'assetto istituzionale liberaldemocratico, la libertà e la competizione politica a far sì che il PCl, malgrado tutti i suoi sforzi di trasformare l'ltalia in un paese di democrazia popolare, riuscisse a rimanere un partito in libera competizione con le altre forze politiche", venendo in tal modo "salvato da se stesso".
Questa tesi ha improntato in modo rilevante il dibattito sulla storia del PCI nel dopoguerra, e quindi sul ruolo di Togliatti: quella della "doppia lealtà" che avrebbe segnato l'intera storia del PCI a causa del suo legame con l'Urss, costringendolo dopo lo scoppio della guerra fredda - ha scritto Pons - in una posizione costituivamente contraddittoria e riducendo al minimo le sue possibilità di nazionali e quelli internazionali della sua azione e di comporre le due "lealtà" in una figura politica coerente.
Tuttavia la tesi del "vincolo esterno" - per quanti elementi di fondatezza contenga - appare in ultima analisi riduttiva come passepartout della complessa vicenda del PCI dopo il 1944, e quindi, indirettamente, come base di una rilettura degli ultimi vent'anni della vita e dell'opera di Togliatti. È una spiegazione che sembra sottovalutare l'apporto che il PCI ha dato non solo alla difesa della legalità costituzionale repubblicana ma alla crescita di una cultura democratica diffusa nel paese. Questo è un aspetto che spesso osservatori esterni anche se intensamente partecipi delle cose italiane hanno spesso percepito meglio di molti storici nostrani.
Da questo punto di vista, sembra mantenere la sua validità la caratterizzazione di Togliatti come "uomo di frontiera". Dentro i confini del suo mondo e della sua storia, che è quella di un comunista cresciuto alla scuola della Terza Internazionale, egli è effettivamente fra gli uomini del la sua generazione e con una simile esperienza alle spalle quello gioni, i valori, le prospettive del mondo "altrro" e, soprattutto nell'ultimissima fase della sua vita, di percepire l'esistenza stessa di una frontiera con quel mondo e la possibilità di varcarla. Questa fu l'eredità più importante che lasciò al I suo partito: un'eredità che ha generato un singolare paradosso, in virtù del quale proprio la capacità dei comunisti italiani di rinnovare le proprie forme di organizzazione e di adattare la loro stessa ideologia al cambiamento da un lato li ha preservati dal rischio della ghettizzazione cui non sono sfuggiti i "partiti fratelli", dall'altro li ha resi troppo forti e temibili perché nella logica bipolare delle relazioni internazionali fosse loro consentito.

l'Unità, 20.10.2004