Bruno Gravagnuolo

Togliatti, la storia migliore


Dimenticare Togliatti? Impossibile, malgrado i radicali mutamenti di scenario mondiale che ci separano da quel 21 agosto 1964, data della scomparsa del segretario del PCI a Yalta. E impossibile, ovviamente, non in ragione di un anniversario d’obbligo. Presumibilmente segnato da rievocazioni, polemiche e «rivelazioni». Ma perché tale e tanto fu l’influsso di Togliatti sul movimento comunista del ’900, e sull’Italia del secondo dopoguerra, da poter affermare senza tema di smentite che quell’algido e dimesso intellettuale nato nel 1893 a Genova - figlio di un maestro di scuola emigrato da Coassolo a Torino - è stato uno dei protagonisti attivi del secolo passato.
Senza il quale né la storia comunista mondiale, nei suoi intrecci con l’altra storia, né quella italiana, sarebbero state quelle che conosciamo.
Nessuno, nemmeno i più accaniti detrattori, di destra o di sinistra, potrebbe ragionevolmente disconoscere l’incidenza di Palmiro Togliatti. E la prima cosa da fare è prenderne atto. Contro la demonologia diffusa. E contro le tante leggende nere sconfinanti nel linciaggio morale retrospettivo che ha avuto corso in tutti questi ultimi anni. Un costume che non ha nulla a che fare con un equo e severo bilancio storiografico, teso naturalmente a non far sconti alle colpe anche gravi dell’uomo e agli errori della sua vita.

Le leggende nere

Cominciamo allora dalle leggende nere, almeno da quelle più in voga. Per vedere quanta parte di strumentalismo politico v’è in esse, e quanta parte di verità. Prima leggenda nera: Togliatti parassita politico di Gramsci. Risoluto a mollarlo in carcere per evitare guai a se stesso e impossessarsi della sua eredità culturale. È una vulgata bugiarda. Smentita in primo luogo dai ripetuti tentativi di Togliatti - noti anche a Bucharin - di liberare il prigioniero grazie alla diplomazia degli stati e a uno scambio di reclusi tramite il Vaticano. Tentativi ripetuti, bloccati personalmente da Mussolini. Che impedì al direttore del carcere di Turi di assecondare i contatti con Gramsci dall’esterno, e che voleva che il prigioniero scontasse la pena, a meno che non inoltrasse domanda di grazia. Quella «domanda», non di grazia ma per motivi di salute, fu infine inoltrata con l’ausilio di Piero Sraffa, fidatissimo a Mosca, nel 1937. Ma poco prima della morte del prigioniero. Il quale peraltro (concorde contro Trotszky con Stalin) intendeva tasferirsi in Russia.
Fa il paio con tutto il finto affaire anche la vicenda della «famigerata» lettera del 1928 vergata da Ruggero Grieco. Maliziosamente letta a Gramsci - che non la conosceva - da un giudice istruttore intenzionato a intimidirlo, e che già aveva deciso la condanna da richiedere. Stante che a lui, e al regime, era notissima la posizione del Gramsci segretario dell’esecutivo comunista italiano. E visto che la lettera di Grieco - analoga ad altre a Terracini e Scoccimarro - non conteneva assolutamente nulla di compromettente. Tranne la richiesta di notizie ad Antonio e ragguagli dall’esterno sulla politica comunista mondiale. Ipotizzare perciò che Togliatti avesse tramato con quell’espediente - per interposto Grieco - è infondato e assurdo. Laddove è certo che Gramsci, psicologicamente piegato, arrivò erroneamente a ipotizzare una trama. Ma sulla base di qualcosa di ben più serio. E cioè: il famoso dissidio del 1926 con Togliatti. Il quale non ritenne opportuno inoltrare una missiva di Gramsci al Comintern, che ammoniva Stalin e Bucharin a non procedere autoritativamente contro Trotszky, e a non distruggere così il «lavoro» della Rivoluzione. E qui entriamo davvero nel cuore dell’enigma Togliatti. Di quel Togliatti monaco latino alla corte dei barbari Franchi - come scrisse Giorgio Bocca - che umanizzava e copriva la barbarie. Che dissimulava il dissenso ed esaltava il tiranno. Riservandosi al contempo la facoltà di interpretarlo, in virtù di eccezionali doti di prudenza e di cultura superiore che riscuotevano l’ammirazione dello stesso despota, cioè di Stalin. Togliatti infatti era un «buchariniano». Un gradualista passato dall’«ordinovismo», e dal bordighismo di seconda fila del 1921, a un comunismo non settario e tatticamente aperto alla socialdemocrazia. Alla Rossanda confidò una volta: «Quel Bucharin era un matto. Diceva di voler far fuori Stalin!». E all’interlocutrice che gli chiedeva perché fosse matto - visto che aveva ragione - ribattè: «Era matto a dirlo


In ogni caso Togliatti nel 1928 aveva in testa alcuni punti chiari. Primo: non ci sarebbe stato nessun inasprimento delle contraddizioni capitalistiche verso la rivoluzione e la guerra. Secondo: il fascismo - che era coacervo di interessi - andava disarticolato dall’interno. Senza rinunciare a coinvolgere la socialdemocrazia in un fronte di alleanze, e passando per una Costituente democratico-borghese. Parola d’ordine tra l’altro in tutto e per tutto coincidente con la linea del Gramsci in carcere. Terzo: decisivo doveva essere l’apporto delle masse contadine. E in uno scenario nel quale le singole realtà nazionali andavano vagliate dai singoli partiti, e non congelate dai diktat del Comintern. Tutte cose che dopo il 1929 Togliatti accettò consapevolmente di ibernare. Fino a lasciarle riemergere nel 1934, con le Lezioni sul fascismo da Radio Mosca. Con il VII congresso dell’Internazionale, e poi con i 13 punti in Ispagna nel 1938 (una rettifica del settarismo repubblicano e comunista fatta a tempo scaduto). Innegabile che dopo il 1929 Togliatti - prodigo di elogi sperticati a Stalin - abbia coperto e avallato le purghe staliniane, sottraendo se stesso alla minaccia continua di venire spazzato via, in virtù di delazioni estorte con tortura. Ma al contempo riuscendo a salvare il PCd’I dal destino atroce che toccò ai polacchi (da lui controfirmato). Mantendendo quel partito integro e operativo durante la svolta che estromise Tasca, Tresso, Ravazzoli e Silone. Dopo la sconfitta di Spagna e dopo il Patto Molotov-Ribentropp, che schiacciò in Francia il PCF.

 

 

L’unità antifascista

Altra leggenda nera: Togliatti burattino di Stalin, mero esecutore della Svolta di Salerno del 1944. Una tesi falsa e smentita dai fatti. Ovvio che Ercoli non poteva sporgersi oltremisura al di là dei confini segnati di volta in volta da Stalin. Ma nel caso di Salerno lo fece, salvo ritrarsi. Quando le esigenze della politica estera sovietica gli imposero di fermarsi, in attesa di un chiarimento. Nondimeno già dopo l’8 settembre 1943, Togliatti da Radio Mosca annuncia l’unità antifascista con la Monarchia. Dopo che prima del 25 luglio il partito aveva mandato emissari in Italia, per sondare la disponibilità della Corona a quel tipo di alleanza. Quella linea viene ribadita nel novembre. Suscita sconcerto nel centro interno italiano, e infine si blocca. Per rovesciarsi temporaneamente nel suo contrario. Ma nel febbraio 1944 - a riconoscimento di Badoglio avvenuto da parte sovietica (e preso atto del ruolo britannico in Italia) - Stalin dà il suo placet alla linea voluta da Togliatti. Linea lungimirante sia sul piano italiano che su quello internazionale.
Nasce così l’unità antifascista che mette da parte la questione della forma dello stato, legittima «istituzionalmente» la guerra di liberazione, e pone le basi del primo stato democratico italiano. Stato di lì a pochi anni solidale, sociale, di diritto, pluralista, parlamentare. Basato sull’equilibrio di poteri garantito dalla Corte Costituzionale. Fu una rivoluzione immensa per il nostro paese, che per la prima volta conobbe l’inserzione del suo popolo negli ordinamenti della cittadinanza republicana. Tramite una società civile raccordata ai «rami alti» per via di partiti di massa, associazioni e sindacati. Fu la nostra vera iniziazione alla libertà dei moderni. Aperta verso conquiste ulteriori di giustizia e libertà, al riparo da guerre civili alla greca. E ne fu artefice anche il genio politico di Togliatti. Ovvero la sapienza di quell’intellettuale scostante e prudente, erudito e concreto. Che aveva messo la sua intelligenza di monaco e di «giurista» (così lo chiamavano a Mosca) a servizio di una cruda e totalitaria religione barbarica dell’emancipazione proletaria. Paradosso della storia? Astuzia della Ragione che dal negativo estrae il positivo? Senza dubbio anche questo. Ma c’è dell’altro.

Il «suo» comunismo

C’è la natura del comunismo di Togliatti. Comunismo democratico «doppio» tra idea di nazione e Urss (l’aggettivo era suo!). E però diverso, peculiare, moderato. Per nulla radicale o di sinistra sul piano «sistemico». Ma disposto a contemplare al suo interno la proprietà privata e cooperativa, volte a fini sociali. A riconoscere il pluralismo dell’arte e delle manifestazioni del pensiero, nonché di quelle politiche. Delle forme associative, attraverso le quali scriveva nel Memoriale di Yalta «i lavoratori partecipano di fatto in modo organizzato alla direzione della vita sociale». Non era la teorizzazione del bipolarismo. Ma quantomeno era l’immagine di un socialismo democratico coestensivo alla cornice della Costituzione repubblicana. Che doveva e poteva basarsi sulla libertà. Almeno in Italia. Qui davvero non c’era «doppiezza». Semmai contraddizione irrisolta con il finalismo totalizzante della tradizione comunista, da Togliatti mai revocato in dubbio (e semmai edulcorato e contaminato di revisionismo socialista senza dirlo).
E contraddizione stridente inoltre permaneva con la realtà del mondo comunista reale. Che Togliatti intese difendere e storicizzare benevolmente. Anche dinanzi alla ferocia dell’invasione ungherese. Nella speranza di una «coesistenza pacifica» niente affatto per lui tattica o «tregua armata» col capitalismo. Ma occasione salvifica di uno scongelamento dei blocchi geopolitici, capace di scongiurare la minaccia della guerra (ai suoi occhi più importante della lotta di classe internazionale). E di far evolvere il primitivismo del comunismo mondiale di stato.
Resterebbe tanto da dire. Sulla religione, i cui valori Togliatti non reputava frutto di alienazione economica in chiave popolar-marxista. E che semmai nel loro durare esprimevano a suo avviso i limiti del socialismo reale «alienato». Sulla cultura. Centrale per il «passatista» Togliatti che vi imperniò un ambizioso disegno (riuscito) di conquista gramsciana dei ceti colti, «filtri», nella sua visione, tra passato, presente e futuro. Dall’editoria, ai giornali, alle riviste. E resterebbe da dire del partito. Che lui volle di massa, egemonico, pedagogico. Addestrato alla responsabilità, alle alleanze e alla previsione concreta dei «contraccolpi». Fu un partito-scuola quello. Università di democrazia degli umili e del ceto medio estraneo alla politica. Un patrimonio di mentalità sottotraccia. Che ancora vive come risorsa attiva. Ineliminabile come forma dell’agire collettivo dopo tante «svolte», in epoca di partiti personali e aziendali.
Ma c’è un ultimo elemento da ricordare: l’influsso togliattiano sulle generazioni kruscioviane. Grazie al gesuitismo di quel genio «realistico» e «totus politicus» (per dirla con Lukàcs e Croce) - che non amava non riamato Krusciov - penetrarono in Urss pensieri corrosivi e dirompenti. Pensieri eterodossi. Che sul lungo periodo colpirono al cuore e indebolirono la Chiesa madre. Non era proprio quello che il monaco voleva. Ma ancora una volta, per vie traverse, accadde l’impensato.

l'Unità, 07.08.2004