PCI
Pietro Ingrao

l'Unità, un giornale diverso

da Rivista del Manifesto, ottobre e novembre 2000

Il primo incontro diretto con l'Unità io l'ebbi il pomeriggio del 26 luglio a Milano. La sera prima, a Roma, Mussolini era stato licenziato dal re. Vivevo clandestino a Milano, proveniente dalle falde della Presila, dove ero stato nascosto per tutta la primavera, braccato dalla polizia. A giugno era venuta la chiamata a Milano, ed ero in procinto di essere inviato a svolgere lavoro clandestino per il Partito comunista nell'agro campano, non molto lontano dal mio paese natio. Intanto avevo superato una sorta d'esame da parte di un dirigente del gruppo comunista che ormai operava in Italia settentrionale: Ilio Bosi. C'era stato un incontro - naturalmente sempre usando nomi cifrati - sulla panchina di una grande piazza alberata milanese. Bosi, molto sobrio, con fare paterno, mi aveva fatto domande di rito: sulla mia storia, sulle vicende del gruppo comunista romano e non ricordo che altro. Seppi poi, dall'amico e compagno Salvatore Di Benedetto, che l'esame era stato superato. Ero in attesa della partenza. Abitavo naturalmente clandestino, in una casa di Corso di Portanuova insieme con due compagni operai siciliani, i fratelli Impiduglia che mi ospitavano e mi difendevano dalla polizia, e una adorabile ragazza lombarda, unita al maggiore dei due fratelli, di nome Santina, che mi aiutò e protesse nei miei soggiorni segreti a Milano, con una grazia e un coraggio semplice, che non dava nemmeno spiegazione di sé.
La notte del 25 luglio era afosa. Nella casa dormivamo tutti un sonno pesante, quando d'improvviso e inatteso entrò Salvatore Di Benedetto, che era un po' il nostro capocellula e insieme quasi un fratello: sbattè le porte e si precipitò a gridare a squarciagola alla finestra: A morte Mussolini! Saltammo dal letto senza capire. Poi, infilati di furia i pantaloni, ci precipitammo con Di Benedetto nelle strade urlando: A morte il duce, abbasso il fascismo - grida che risuonavano stranamente nella quiete afosa della notte. Ricordo figure affacciarsi dalle finestre, a chiedere: che c'è, che succede? Poi finimmo nel vortice di Porta Venezia dove una folla impazzita sciamava ed urlava. Più avanti abbracciammo esultanti Elio Vittorini.
E fu così tutta la notte, in una scia di gente tumultuante davanti alle sedi fasciste, da cui cadevano e finivano in falò carte, sedie, armadi, gagliardetti, come una scia di roghi.
Tutto s'acquietò con l'imbiancarsi del cielo. La gente rifluì nelle case e negli uffici. Io finii con Vittorini e Di Benedetto nella sede della casa editrice Bompiani, dove Elio aveva il suo tavolo di lavoro. Da li partì la telefonata che fissava per il pomeriggio un camioncino a Porta Venezia. Fu iniziativa di Vittorini oppure di Salvatore Di Benedetto, il compagno siciliano che aveva i fili del contatto con il centro clandestino del partito a Milano? Non so dirlo. Circa alle 11 del mattino mi ritrovai stremato nella casa di corso di Portanuova. E fu un brevissimo sonno di piombo.
Alle due ero di nuovo in un enorme corteo senza nome, che sfilò dinanzi a San Vittore chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Fu quella la prima rivendicazione, e non solo per struggente desiderio umano, ma perché fossero liberi quelli che dovevano guidarci in quella transizione così invocata, ancora così oscura, e - sin dai primi istanti - tanto ambigua. Nessuno poteva dimenticare che - incarcerato Mussolini - quasi tutta l'Italia era ancora nelle mani dei tedeschi.
Poi dal carcere di San Vittore il corteo sfociò ancora a Porta Venezia, e dilagò attorno al camioncino affittato da Bompiani. Riuscii ad arrampicarmi sul tetto dell'auto, dove ci strappavamo da una mano all'altra i microfoni: comunisti, socialisti, anarchici, trotzkisti, repubblicani, e quanti altri non so dire.
Conquistato il microfono riuscii a fare un brandello di comizio, che chiedeva la pace subito. L'indomani mattina il Corriere della Sera scrisse che in Piazza del Duomo aveva parlato "l'operaio" Pietro Ingrao. E quell'informazione sbagliata dette una prima notizia alla mia famiglia che da mesi di me non sapeva più nulla. Mentre la manifestazione si prolungava nel tumulto dei gridi e degli appelli e nessuno sapeva dire quanto e come sarebbe durata, di colpo dall'alto del camioncino vedemmo avanzare dal lato della stazione una lunga fila di carri armati. In cima al primo, stava un tenentino, magro, giovanissimo, con la pistola in mano: indimenticabile.
La fila dei carri armati spaccò in due la folla. Un gruppo di soldati, dall'uno e dall'altro fianco, la rigettò sui margini della strada. Il tenente in cima al carro sembrava pietrificato. La folla premeva sui cordoni dei soldati muti, e fischiava alle loro orecchie appelli furenti e fraterni: Siamo con voi, vogliamo la pace, via i tedeschi, siete italiani, nostri fratelli!. Ricordo il volto di quei soldati a bocca chiusa come un cencio. Nella mia ingenua passione, mi sembrava di veder risorgere pagine dell'ottobre del '17, come le avevo lette nella Storia della rivoluzione russa di Trotzki.
Quanto durò quel dialogo blindato tra folla e soldati? Tanto o forse poco. Chi erano quei soldati? Con chi stavano? Chi li mandava?
Improvvisamente (ho nitida ancora oggi nella mente l'immagine) una giovane donna riuscì a spezzare la cintura dei soldati. Si staccò su tutti mentre sola traversava la strada, e di corsa si arrampicava sul tetto del carro armato, gridando parole che non si poterono udire. E tutto sembrava di nuovo incerto dopo l'accaduto della notte.
Ma in un lampo tutto misteriosamente si sciolse. La lunga fila dei carri cominciò a ritirarsi. Abbandonava il terreno. E non sono mai riuscito a sapere se fu per un ordine esterno, o per un cambiamento nella testa di quel tenentino di fronte a quella figura femminile che pareva annullare la forza e la certezza di quei carri.
La folla sciamò con gridi di esultanza. E io mi trovai trascinato da Salvatore Di Benedetto nella casa di Vittorini che lambiva Corso Venezia. Il pomeriggio di tardo luglio si faceva improvvisamente quieto, con quelle luci estive che si piegano nel lungo tramonto, preparando l'ombra della sera.

Nella casa c'era Celeste Negarville, uno dei dirigenti del PCI che era riuscito a rientrare clandestino in Italia, mentre si avvicinava il crollo di Mussolini. Nelle nostre goliardate di partito, gli fu appiccicato un nomignolo scherzoso: lo chiamammo il 'marchese di Negarville', per la stranezza di quel cognome, e soprattutto per il suo gusto dell'ironia e il successo che aveva tra le donne. Era invece un operaio, e tornava in Italia da un aspro esilio.
Mi guardò con un breve sorriso, ed ebbe una battuta scherzosa sul mio 'comizio' a Porta Venezia. E mi fu detto che dovevamo preparare il numero dell'Unità sul grande evento romano. Io fui incaricato di fare la cronaca della manifestazione di Porta Venezia.
Stranamente tutto però si svolgeva come in un lungo indugio dopo la vittoria.
Negarville continuò tranquillo a conversare, quasi volesse assaporare quel luminoso tramonto lombardo.
Mangiammo con calma. Poi, nella casa, ci ponemmo ciascuno al proprio posto di scrittura. E io cominciai a pesare le parole con cui raccontare quella manifestazione, in cui per la prima volta nella mia vita avevo parlato a una massa di popolo di cui sapevo nulla.
Eravamo tutti presi nel nostro compito, quando la porta della stanza si aprì e apparvero due. Io continuai a scrivere. Gente della casa, pensai, compagni sconosciuti. Uno dei due, quasi sorpreso dalla nostra calma, disse due parole che ci lasciarono di stucco: Siamo carabinieri.
In breve ci radunarono. Ci chiesero i nomi. Quando venne il turno mio non sapevo se dare il mio nome clandestino (Vittorio Infantino) o quello vero. Prima di me fu interrogato Negarville: disse quel suo strano nome vero. Dentro di me invece pensai: è un nome falso. Tuttavia dissi anch'io il mio nome vero: Pietro Ingrao.
I carabinieri arrestarono Elio Vittorini, che figurava come colui che aveva disposto il camioncino per la manifestazione di Porta Venezia, e Salvatore Di Benedetto, che aveva risposto furente alle loro domande: che volevano? C'era o no finalmente la libertà?
Scampati all'arresto, tutti pensammo che ci sarebbe stato un seguito: un brutto seguito. Non si dormì. Uscimmo alle prime luci, incerti se ci avrebbero arrestati sulla soglia perché a Roma tutto era cambiato, o invece si trattava di uno strascico incomprensibile del crollo del regime.
Ho in mente ancora quell'alba così incerta, e il dubbio nostro quando nella città addormentata mettemmo il capo fuori dalla porta. Poi il sollievo. Non c'era nessuno ad arrestarci.
La scelta fu di andare a scrivere quel numero dell'Unità in casa di Ernesto Treccani, che ci sembrava protetto da avventure di poliziotti che ancora non avessero capito l'accaduto. Negarville era calmo, persino un po' pigro, mi sembrava. Ma avevamo appena ricominciato il nostro lavoro di giornalisti neofiti che venne l'allarme: la polizia stava per arrivare anche a casa di Treccani.
Ci trasferimmo di corsa alla tipografia Moneta, dove almeno c'era la tutela operaia di fronte a qualsiasi colpo di mano. Negarville era tanto sottile e arguto, quanto lento nella scrittura un po' prolissa. O forse dovette consultarsi con Roma.
Alla fine l'editoriale fu pronto. Il titolo era lungo, calibrato e ridondante. Ma Negarville rifiutò la nostra sollecitazione che chiedeva un titolo più caldo, più breve. Poco dopo, con urla di evviva, un gruppo di operai ci portò stampato quel giornale a due facciate, che recava un nome famoso, così simbolico in quell'istante.
C'era anche la mia cronaca sui fatti di Porta Venezia, che avevo pesato con ansia, parola per parola. E davvero era per me un inizio. Restai nella redazione segreta di quel giornale che non si sapeva se fosse ormai nella legge o ancora aspramente al bando.
C'era anche Gillo Pontecorvo, in casa di Vittorini, quando accadde quella irruzione dei carabinieri? Non lo ricordo bene. Ad ogni modo nei giorni che seguirono fummo in tre gli addetti a quel foglio, tutto da fabbricare nell'ambiguo interludio che fu l'estate del '43.
Celeste Negarville dalla Direzione del partito era stato chiamato a Roma. Girolamo Li Causi era il nuovo direttore (se si possono adoperare queste parole così normali per il subbuglio e le sollecitazioni di quella estate rovente). Nella redazione dell'Unità di Milano eravamo in tre: io, Gillo e Henriette, la fidanzata di Gillo, piombata dalla Francia: una giovane bellezza sconvolgente, venuta a raggiungere di corsa l'innamorato e che sembrava ignorare i rischi terribili che correvano le loro giovani vite. I testi di quel breve giornale erano composti in tipografie clandestine nell'hinterland di Milano, da cui li andavamo a ritirare per impaginarli in città: così eravamo come una fluttuante impresa, 'new labour' prima del tempo.
Essenziale in quella segreta combinazione di lavori era la bicicletta. Ne avevamo una sola, ma con una larga e solida piattaforma in metallo dietro il sellino, splendida per poggiarvi ben mascherati i pacchi di piombo della composizione. La "portapacchi" fu per noi una sorta di arnese di guerra. Da essa i piombi finivano sul bancone dell'impaginatore, che per lungo tempo a Milano non fu un compagno, ma un tipografo qualunque, non so come scovato da noi, sito nella cerchia interna della città, poco lontano da Porta Ticinese. Sapeva e vedeva benissimo quale pericolo con quel lavoro egli correva. E tuttavia non ne parlammo mai esplicitamente insieme in quell'estate del '43, strano incastro di un ritrovamento di libertà e del dilagare della guerra nella penisola.
Noi tre giornalisti clandestini eravamo allora molto attratti dalle forme che prendeva quel foglio ancora clandestino, Gillo ancora più di me. Chiedemmo ad Albe Steiner, cervello finissimo, di ridisegnare la testata dell'Unità, poiché quella del tempo di Gramsci ci sembrava bruttissima e ingombrante. Steiner ne immaginò una nuova, forte ed asciutta nel suo modulo razionalizzante d'epoca. Ci parve bellissima. Invece da Roma ci venne un aspro rimbrotto: come osavamo cambiare la gloriosa testata di Gramsci, quel nome favoloso che noi, reclute acerbe, solo allora cominciavamo un poco a conoscere?
E tuttavia tenemmo ferma la testata steineriana. Ed esultammo quando su quel brevissimo foglio riuscimmo a stampare persino una foto di Stalin, con il braccio alzato a salutare. Curavamo spazi, titoli, architetture di quelle due magre pagine con una minuzia amorosa. Eppure sapevamo che ogni minuto di più in quella tipografia, dinanzi a quel bancone, poteva costarci parecchio caro. Una volta la paura fu grande. Ricordo il rumore di quella porta che si aprì e lasciò entrare una pattuglia tedesca, mentre eravamo con il tipografo di fronte e i piombi della pagina clandestina dell'Unità sul banco. Guardammo la scena allibiti, in assoluto silenzio, mentre sembrava certo che il tipografo crollasse.
I tedeschi chiesero invece una informazione banale. E presto la porta si richiuse dietro di loro. Eravamo salvi. Per un po' di tempo abbandonammo quella tipografia, in qualche modo 'bruciata', come volevano le regole ferree della cospirazione. Ma dopo numerose, lunghe perlustrazioni ritornammo. Il tipografo ci trattò male, quasi con una stizza sprezzante. Ma aveva bisogno di soldi, e il contatto riprese.
A metà agosto Milano bruciava sotto i bombardamenti feroci di quella estate, in cui le potenze occidentali (gli inglesi prima di tutto) volevano chiudere la partita italiana. Prima dell'imbrunire noi fuggivamo a Monza, a dormire in case amiche. Una volta la notte mi colse a Milano in casa di un compagno carissimo, Raffaellino De Grada. Allo squillo delle sirene di allarme ci precipitammo nel rifugio. Non so dire quanto durò l'attacco aereo. Sentivo bombe esplodere esattamente al mio fianco, appena al di là di una fragile parete: e come si avvicinassero passo a passo. Alle prime luci dell'alba girammo a lungo tra i quartieri distrutti, increduli sulla vita salvata in quei cumuli di macerie e strade sventrate: in quella città trafitta come poi la cantò Quasimodo.
Succedevano anche cose incredibili. La mia compagna Laura Lombardo Radice e mio fratello da Roma vennero a cercarmi a Milano. Sbalordito ed incredulo me li vidi davanti all'improvviso, mentre giravo con la nostra "portapacchi" in una via prossima alla stazione centrale. Fu una fortuna, perché essi avevano un recapito segreto, che proprio in quei giorni era saltato per una retata della polizia. Né io sapevo nulla del loro viaggio.
L'otto settembre venne per me dalla radio, in un principio di sera molliccia, nebbiosa, in un caffè della periferia dove mi trovavo per caso. Non so se è una forzatura della memoria. Ma a notte calata mi parve di aver visto già i plotoni tedeschi che pattugliavano le strade.
Sull'Unità clandestina facemmo un titolo a caratteri cubitali, che diceva più o meno: Avanti verso l'insurrezione nazionale...: l'aveva portato a noi direttamente Li Causi. E mi colpì per la nettezza con cui quel titolo non solo anticipava un esito così lontano, in quei giorni così incerti su tutto, ma per la perentorietà con cui quel breve foglio, di nuovo assolutamente clandestino, metteva in campo la sua prima ed essenziale ragione di esistenza.
Il giornale proclamava nudamente il suo fine. La relazione fra le notizie dell'accaduto e quel compito diveniva stringente. E pareva cancellata la lenta mediazione dell'assorbire, giorno dopo giorno, il senso delle vicende. Il giornale diveniva come un proiettile. Veniva 'confessato', esplicato quel nesso - per noi così imperioso! - fra l'informare e l'agire. Per un verso il giornale confessava la sua parzialità, o faziosità se volete, per un altro dilatava il suo spazio e la sua funzione. Quante volte poi saremmo inciampati in quell'impiccio, per il quale dovevamo capire e raccontare ciò che era successo e contemporaneamente trarne subito (o quasi) le conseguenze nell'agire. Si spiegava così quel 'pedagogismo' ostinato, che poi ispirò ai nostri avversari quella caustica battuta sul comunista che alle obiezioni risponde: Compagni l'Unità non lo dice..., e nel fare il giornale ci obbligava continuamente a mischiare l'informazione e l'appello, il racconto del fatto e la costruzione di una risposta di massa. Più tardi, dopo il crollo del fascismo, per lunghi anni, in quella redazione dell'Unità mi trovai a risolvere questo rebus difficile, che ci obbligava non solo a 'raccontare', ma a cercare presuntuosamente il filo dell'accadere e ricavarne esplicitamente le conseguenze di azione. Informare e fare agitazione: non stava forse qui la difficoltà (il limite) di quel foglio, ma anche il fascino, il connotato che lo legò così strettamente alla vita e alle passioni di tanti italiani?
L'Unità dai lettori veniva conservata. E si poteva leggere all'alba, ancora assonnati, sul seggiolino di un autobus, oppure a tarda sera, tra un boccone e l'altro della cena prima di andare alla riunione di sezione, o anche a letto, sull'orlo del sonno. Oppure mettere da parte, conservare questo o quel numero, che poi non sarebbe stato letto mai, dimenticato tra i fasci di carte di un armadio: questa natura curiosa di un giornale quotidiano, che durava al di là del giorno.

A dicembre del '43 da Milano fui trasferito all'Unità clandestina di Roma. Vi rimasi solo quattro mesi. Poi la liberazione si avvicinava e passai alla Federazione comunista di Roma (naturalmente clandestina). Per natura ero lento nell'agire, e tuttavia quel lavoro mi piaceva per il filo diretto che stabiliva con le persone vive in carne ed ossa. Ma presto trasmigrai nell'Esercito di liberazione, alla Divisione Mantova, disciplinato e puntiglioso sergente nella Compagnia cannoni. Quando vennero la capitolazione della Germania e la vittoria sul nazifascismo, ebbi l'onore di parlare alla truppa, e già sembrava molto. Il trenta maggio giungevo in congedo a Roma, il giorno stesso (le coincidenze singolari...) in cui mi nasceva la prima figlia: Celeste. Non ci fu riposo, e nell'ardore di quei giorni nemmeno sembrava possibile chiederlo.
Dopo una settimana lavoravo all'edizione romana dell'Unità, promosso sul campo come capocronista.
È difficile oggi dar conto del precipitare di certe scelte. All'Unità di Roma lavorava già Mario Alicata, compagno nella difficile cospirazione romana. E con me trentenne entrarono in redazione un gruppo di 'gappisti' più o meno tutti ventenni, e tutti partecipi, giovani figli della Resistenza romana: Alfredo Reichlin, Arminio Savioli, Luigi Pintor, Maurizio Ferrara, Pasquale Balsamo e Francesco Colonna, e insieme o poco dopo altri giovani che venivano dal ceppo dei "comunisti cristiani": Luciano Barca, Gabriele De Rosa. E un gruppo di ragazze quasi solo adolescenti: Mirella Acconciamessa, Adriana Schacherl...
Quasi nessuno di noi aveva fatto politica in un giornale 'normale', né mai scritto un rigo d'informazione o di commento giornalistico. A dirigere l'Unità romana c'era in quel momento Velio Spano, sardo, prestigioso dirigente della cospirazione comunista, e caporedattore Renato Mieli, che da giovane aveva cospirato con Curiel, esule e sbarcato a Roma con l'arrivo degli alleati.
Ma presto, quasi subito le cose mutarono. Spano (per un'antipatia di Togliatti o per i suoi articoli troppo fiammeggianti) fu spostato a lavorare alla sezione Esteri del partito. Divenne direttore Mario Alicata con quella turba di giovani e ragazze, ignari del mestiere, a interrogarsi e a cimentarsi nientemeno che sull'avvenire del mondo come sarebbe stato dopo il crollo di Hitler.
C'erano sì in quelle stanze di via IV novembre alcune figure storiche del giornalismo comunista: Felice Platone, Ottavio Pastore. Ogni tanto, compariva a consegnarci un articolo, Ruggiero Grieco, e faceva capannello con noi giovani. Ma la vita di quel foglio era tutta, tutta nelle mani di quella nuova leva di agri giornalisti.
Perché Togliatti (fu lui in fondo) fece quella scelta così rischiosa, e non solo a Roma, ma - con le dovute varianti - nelle edizioni dell'Unità di Milano, di Torino, di Genova?
A mio avviso, non fu solo per bisogno o carenza di quadri, o perché il Partito (con la maiuscola) sembrava allora luogo ben più importante. Forse agì la volontà di un legame diretto con il paese com'era cresciuto negli anni dei comunisti in esilio, e di un allargamento di generazioni. Appunto, anche come età un partito nuovo. Altre teste, per acerbe che fossero.
Fatta la scelta, Togliatti - imperioso com'era - interveniva solo in parte. Era giudice severo, anche sfottente, ostinato nelle sue manie linguistiche. Quasi ogni mattina arrivava al direttore un suo bigliettino scritto in inchiostro verde: mai di plauso, spesso di osservazioni sullo stile, molto sugli editoriali, a volte indicandoci i modelli del borghese Missiroli o del francese Léon Daudet, che - ci raccontava sogghignando - aveva scritto un editoriale sui tre modi di fare la frittata.
Insomma gli errori erano nostri. E anche per il caso Vittorini io penso che il punto di partenza, la molla che scattò venne da Alicata: con il vile silenzio di alcuni di noi e, naturalmente, la grave ferita che ne ebbe l'Unità di Milano.
Per noi non fu mai un modello la Pravda e nemmeno la leggendaria Humanité di Gabriel Peri e di Marcel Cachin. Invitammo Cachin a fare un giro per l'Italia. L'idea fu di Amerigo Terenzi, quel manager geniale che mi sollecitava a frequentare i salotti della capitale, perché - diceva - così un direttore di giornale costruiva le relazioni necessarie. Ma anche l'Huma ci pareva troppo secca, ufficiale, a suo modo dogmatica.
Invece tutte le quattro 'centrali' del giornale - Milano, Torino, Genova e Roma - esprimevano un'enorme curiosità verso le varie articolazioni della società borghese. E parvero essenziali non solo l'insediamento specifico nelle quattro metropoli centrali (Roma, Milano, Torino, Genova), ma la trama delle redazioni locali. Firenze, ad esempio, fu importantissima per l'edizione romana, a riguardo del rapporto con tutto un mondo cattolico che da Firenze, con La Pira e Pistelli, si diramava nel paese, fino ad incidere sulla vicenda politica e ideale d'Italia.
All'inizio, e per lungo tempo, le edizioni dell'Unità furono quattro: a Roma, Milano, Torino, e Genova: ognuna di esse con una propria redazione legata a quella molteplicità delle capitali d'Italia e dappertutto redattori e redattrici, giornalisti e amministratori non solo erano nuovi alla prova di un grande giornale, ma anche a un'esperienza politica nazionale: insomma teste in formazione, caratteri in cammino. A Torino c'era il legame quasi diretto con il mondo baldanzoso dell'Einaudi che avanzava sulla scena d'Italia e con le cattedrali operaie della FIAT; così come a Genova fu un confronto obbligato con la cultura dell'industria di Stato, e a Milano si incontravano il gruppo dello scomunicato Vittorini e di Franco Fortini con gli allievi di Banfi e con il populismo di Ulisse (Lajolo), e infine l'influenza indiretta ma dura della sinistra operaia di Vaia e Alberganti.
Più difficile, molto più difficile era il Sud, ma è stata persino messa in romanzo la storia tormentata della redazione napoletana, che aveva alle spalle tutori esigenti come Giorgio Amendola e Salvatore Cacciapuoti. E Palermo vedeva l'incontro non sempre armonioso fra la giovanissima redazione dell'Unità e l'esperienza a rischio dell'Ora, uno dei giornali cosiddetti fiancheggiatori che sorgevano a fianco e gelosamente diversi dall'Unità.
E fu assolutamente singolare che un partito così centralista, così (a suo modo) 'ideologico' come il PCI si affidasse, per la sua presenza quotidiana ed ufficiale e nel dibattito delle idee, a quei manipoli di reclute a volte giovanissime, quella nuova generazione passata certo attraverso la prova della Resistenza, ma così agra come esperienza politica e ignara del lavoro in un giornale quotidiano.
Si può dire che quella scelta di un salto così netto di generazione fu propria di Togliatti nella sua ossessione di costruire un altro Partito comunista, appunto un partito nuovo?
Di sicuro fu così. Ma la scelta così marcata di una nuova generazione, quasi imberbe, aveva fonti e radici più profonde. Agiva la tensione ossessiva di quel soggetto politico comunista a 'nazionalizzarsi', a mettere radici nelle 'cento città' della storia italiana, per cancellare l'attacco più grave che veniva dall'avversario quando parlava di "servi di Mosca": Mosca dove era stata proibita la religione, spezzata la famiglia, dissolta la proprietà, e quindi luogo radicalmente altro dalla storia, dal costume italiano. Appunto: comunisti come stranieri.
Più di ogni dichiarazione di principio contro quest'attacco sostanziale valeva l'espandersi di un soggetto politico ramificato capillarmente nella società e capace di una presenza ogni giorno, e - per così dire - su tutti i campi, fino anche alla cronaca nera.
Quando fui, d'improvviso, chiamato a fare il capocronista nell'Unità romana non so quanti 'capocronaca' (e a volte anche editoriali) scrissi sui delitti misteriosi (il caso Laffi...) che insanguinavano la capitale del dopoguerra. Ricordo una mattinata d'aprile in cui mi trovai a girare per le vie di Roma in un giorno immacolato, e mi chiesi perché non facevo mai un capocronaca sull'incanto dell'aprile a Roma quando gli lasciava un po' di respiro l'estate.
E tuttavia noi volevamo, dovevamo stare anche nelle pieghe dei delitti romani. Tale fu il nostro aggrapparsi al territorio: fino all'inseguimento del 'folclore'. In una festa dell'Unità (settembre 1948), quella in cui Togliatti tornava dopo l'attentato di luglio, nel lungo corteo che sfilava per Piazza del Popolo tutti applaudimmo freneticamente la rappresentanza del partito napoletano in cui sotto le bandiere rosse saltavano nacchere e pulcinella. Ed era palesemente un'esagerazione. Naturalmente il punto centrale di quel giornale 'rosso', la sua più profonda novità era il posto che nelle pagine aveva il lavoro.
Qui era la sua differenza di fondo. Fummo il giornale che portava nei grandi titoli di prima pagina e con il maggiore risalto le lotte e i drammi, le sconfitte e le vittorie del mondo del lavoro. Non so esattamente per quanto tempo, ma quasi di sicuro fino agli anni Sessanta, i grandi giornali borghesi non davano mai l'onore della prima pagina alle vertenze del lavoro: nemmeno per esaltare le vittorie del padronato.
Fu l'Unità che tolse dal ghetto quel tema, nei giorni buoni e in quelli cattivi, quando si vinceva o quando c'era l'amaro lutto della sconfitta. E qui è da ricordare che - dopo una brevissima parentesi dall'estate del '43 a quella del '45 - i sindacati non ebbero mai un loro quotidiano. Per decenni, e anche quando sorse la TV, il sostegno diuturno alle lotte del lavoro stette sulle spalle dell'Unità. E forse qui fu il ruolo, la ragione più grande, il senso più intimo che ha avuto quella testata di giornale: si potrebbe dire la sua motivazione storica.
E non fu solo notizia e denuncia: fu (ecco il senso profondo) costruzione di un fare, dentro e al di là delle mura della fabbrica.
E ci aggrappavamo a tutti gli appigli per produrre azione attorno al giornale. Quando avvenne la strage di Melissa, scrissi una lettera aperta a Zavattini per un viaggio in Calabria nei luoghi della disperazione contadina. Zavattini non potè. Ma ci fu una catena di giornalisti di varia tendenza che mise in atto quella specie di inchiesta collettiva. Tentavamo di visitare e raccontare luoghi e vicende del dramma sociale in quell'Italia in sconvolgente mutazione.
Il tema cruciale era la sorte delle classi lavoratrici. Qui si realizzava la differenza, la vera novità, la scoperta di quel giornale: l'evento del lavoro in prima pagina, ciò che per molti anni non fecero né il Messaggero né il Corriere della Sera, né l'austera Stampa di Torino. Qui su questo nodo, L'Unità cambiò l'agenda, incise alla fine anche sulla stampa borghese.
La battuta geniale (inventata da Guareschi? O da chi?): Compagno, l'Unità non lo dice, in fondo, e a guardar bene, riconosceva e sottolineava il nostro successo. E anche quell'invenzione curiosa che ci spinse a portare la domenica il giornale dentro le case (quelle amiche e quelle ostili) si reggeva non solo sulla generosità degli "Amici dell'Unità", ma anche sul fatto che eravamo divenuti un fattore del senso comune.
Questo fu frutto di redazioni, che erano 'collettivi', luoghi di ricerca e di iniziative a loro modo geniali. Quando nel '55 accadde la grave sconfitta alla FIAT, la redazione torinese dell'Unità con Barca, Minucci e Novelli fu caldo luogo di ricerca e di lotta politica, dove si mischiarono intellettuali, giornalisti e avanguardie del movimento operaio torinese.
E prima ancora che arrivasse al giornale "Fortebraccio", sapevamo anche ridere. All'Unità di Roma Tommaso Chiaretti, un redattore che sembrava intriso di timidezza, inventò una rubrica brevissima Il dito nell'occhio, che divenne famosa. Era fatta essenzialmente di una lancinante raccolta di fesserie dette dai nostri avversari. E fra di essi c'era sempre alla fine una figura assolutamente privilegiata, che si chiamava: Il fesso del giorno. Il 31 dicembre nella rubrica c'era infine Il fesso dell'anno. Una volta toccò clamorosamente a Giuseppe Saragat. C'erano anche giochi interni quasi irripetibili. Un giornalista impertinente, Pasquale Balsamo, si divertiva a inserire il nome di donne fascinose nell'elenco degli arrivi del giro d'Italia, o anche di compagni antipatici messi fra gli ultimi della lista d'arrivo.
In verità in quanto giornale popolare e di massa, davamo molto spazio allo sport e quindi al Giro d'Italia, allora forse più popolare e oggetto di grandi passioni che non oggi. Mandavamo come resocontista al Giro Attilio Camoriano, un 'inviato' geniale che raccontava la corsa come un romanzo. Un anno, insieme con lui mandammo Alfonso Gatto, voce fresca e geniale della poesia italiana novecentesca. Era un modo di rileggere il 'Giro' e insieme di incrinare la recinzione degli intellettuali, spingerli nella cronaca delle passioni popolari, fuori da quella che allora la sinistra (e non solo essa) chiamava la torre d'avorio.
Ma questi erano un po' ghirigori. Sul cammino della cultura l'Unità fu terreno di battaglie aspre, alcune tardive e sbagliate come quella sul realismo. E non perché gli 'astratti' non piacessero assolutamente a Togliatti, ma perché su quel confronto di culture il giornale stesso si spaccava, e sgorgavano differenze aspre tra le varie edizioni, fra l'hegelo-marxismo dei romani o l'ortodossia un po' fanatica di una testa fine come Sereni, e le voci milanesi che tanto mutuavano dalla scuola di Banfi, o la Firenze di Luporini schiusa al pensiero tedesco del Novecento e alla riscoperta di un Leopardi progressista. L'Unità era parte ed eco di questo confronto. E il suo comparto culturale fu sicuramente il più tormentato.
Poi venne l'indimenticabile 1956 (come dopo mi avvenne di chiamarlo). E cominciammo appena a misurare il nostro limite ed errore, che era più grave del sopruso fatto all'Ungheria: chiamava in causa aspramente la nostra idea dell'epoca, il suo domani, e perciò l'orizzonte stesso di quel foglio ambizioso del comunismo italiano.
PCI
Roberto Roscani

C'era una volta l'Unità

grazie a:  la Repubblica, 22.02.2024
 
 


Via dei Taurini 19, Roma. L’indirizzo era questo. Nel cuore di San Lorenzo, a due passi dall’università (allora ce n’era una sola, la Sapienza). Un palazzo fine anni Cinquanta, modernista. L’insegna luminosa scendeva lungo un angolo dell’edificio: “l’Unità”, c’era scritto. È stata casa mia dal 1974 a quando ce ne siamo andati vent’anni dopo, verso un’altra casa a via Tomacelli in un palazzo di cui resta solo la facciata e dentro al quale ora c’è un mega store. Che cos’era l’Unità? Un giornale, ma non solo. Che cosa eravamo noi che ci lavoravamo dentro? Dei giornalisti, ma non solo.
 
Per chi la leggeva, l’Unità era un impasto complicato tra una scuola di formazione alla politica e alla cultura e una bandiera fatta di parole. Per tantissimi, andare con l’Unità in tasca, con la testata ben visibile, era il modo per ribadire una identità, quelle foto di manifestanti col giornale tenuto aperto con due mani ci raccontano questo.
 
Per chi ci lavorava, l’Unità era un impasto altrettanto complesso: comunisti, certo, giornalisti anche. Nel giornale che ho vissuto io, dai primi Settanta, quelli del massimo consenso al Pci, in una Italia che cambiava rapidamente (e con un giornale che moltiplicava le vendite) a quelli più difficili segnati dalla scomparsa di Berlinguer e dalla crisi radicale dei modelli del “socialismo reale” della faticosa trasformazione del partito, parte del cammino di questa trasformazione dell’Unità si era già compiuta.
 
Noi percorremmo il resto di quella strada tra l’affermazione di un ruolo più decisamente giornalistico della nostra professione e i rischi di declino dell’immagine del quotidiano. Tra alti e bassi, tra crisi e mutamenti che hanno formato una generazione intera di giornalisti, gli stessi che, come in una diaspora, hanno poi portato i semi di questa esperienza anche in molti altri giornali.
 

Qualcuno può pensare che l’Unità – dentro la sua corazza di “organo del Partito Comunista Italiano”, così c’era scritto sotto la testata – fosse un giornale grigio. Io ricordo invece un gruppo di giornalisti che discuteva su tutto, che “rompeva le scatole”. Si dice che il direttore di un giornale sia un monarca assoluto. Quelli che ho conosciuto io non hanno mai chiuso una discussione con un’alzata di spalle o facendosi forza del loro ruolo. E forse questa è stata insieme una ricchezza e un problema di quel giornale.
 
Ricordo giornate febbrili, talvolta tragiche. Ricordo un coinvolgimento che non era solo professionale davanti alle grandi svolte della nostra storia. L’emozione e l’ansia per il rapimento Moro (personale e collettiva), il dolore per l’agonia e la morte di Berlinguer che si trasformava però in idee.
 
Quei giorni furono davvero fuori dall’ordinario: ci furono una gran quantità di edizioni straordinarie e la capacità di trasformare un sentimento che accomunava un intero Paese (e dentro questo, con maggiore intensità, quello che si chiamava allora il “popolo comunista”) in pagine di giornale, coi loro titoli sempre più brevi fino a diventare di una sola parola: “TUTTI”, diceva uno, “ADDIO” quello con cui fu salutato a piazza San Giovanni un leader così diverso dagli altri come era stato Berlinguer. Il merito va dato soprattutto a un vecchio giornalista che si chiama Carlo Ricchini, lo stesso che qualche mese prima aveva “inventato” quel titolo a caratteri tutti maiuscoli e scritto in rosso: “ECCOCI”, e con quel giornale in mano Berlinguer era stato fotografato mentre sfilavano decine di migliaia di operai per le vie di Roma.
 
Altro che egemonia
Dentro questo giornale sono cresciuto. Si lavorava moltissimo. Ho vissuto l’epoca delle vecchie tipografie fatte di linotype, di articoli composti da moltissime di righe di piombo e di grandi banchi con telai per impaginare il giornale. E poi quella dei computer. Ho visto cambiare la cultura della sinistra, aprirsi a esperienze nuove, a voci talvolta lontane con cui dialogare. Oggi si fa tanto parlare di egemonia culturale (nella chiave vendicativa con cui lo fa la nostra destra) come una questione di appropriazione indebita. Noi, invece , allora sperimentavamo l’apertura ad una complessità di pensiero tra culture che avevano voglia di parlarsi.
 
È un ritratto troppo ottimistico? Non credo, anche se di passi falsi, di incidenti è costellata la strada dell’Unità. Avendo scelto di raccontane almeno una parte, però, mi pare di poter dire che quel giornale è stato un segmento importante della cultura e della storia di questo Paese e delle sue trasformazioni. E che, anche editorialmente, siamo riusciti a mettere in campo innovazioni (i libri, i film, il giornale con un dorso culturale) che hanno fatto scuola.
 


Per raccontare quel giornale ho usato spesso il noi. Non è un caso. Credo sia questa la caratteristica che più segna l’Unità. A lungo all’interno abbiamo discusso se considerarci un gruppo di lavoro o un “collettivo”. Oggi la definizione più corretta è quella di una comunità: complicata, con tante idee diverse, talvolta litigiosa, ma tenuta insieme da una passione comune che era politica ma anche professionale. E persino quel nome, l’Unità, voluto cent’anni fa da Antonio Gramsci, con l’idea di fare un giornale di opposizione al fascismo che potesse essere di tutti e non solo di un partito, era – come avrebbe detto Marshall McLuhan – contemporaneamente il mezzo che conteneva al suo interno questo messaggio.

 

PCI
Pietro Ingrao

Sotto la ferula del Cominform


Il 1950, quando tramontava la prima metà del secolo, fu un anno di sangue. In Italia si aprì con un nuovo eccidio: il 9 gennaio, a Modena, la polizia di Scelba uccise sei operai nel cuore di una manifestazione che protestava contro i licenziamenti alle Officine Orsi. Si allungava il cupo elenco dei caduti del lavoro. La scia di sangue ora toccava il cuore dell'Emilia: quella città così pregna di storia italiana, e la sua splendida torre dal nome incredibile. Quanti erano ormai gli assassinati per mano pubblica?
Raggiungeva la vetta il numero delle condanne al carcere comminate per i moti di protesta della sinistra: si calcola che nel triennio 1948-1950 esso abbia superato quelle emesse dal Tribunale speciale fascista. E più o meno in quel periodo veniva a capo l'operazione 'Gladio', condotta insieme dal governo italiano e dal Fbi. Nel luglio del'49, scattava anche l'interdetto spirituale: la scomunica dei comunisti decretata dal Sant'Uffizio, voluta ardentemente da Pio XII.
E tuttavia quei morti, quei caduti non bastarono a fermare la protesta. A ridosso della sconfitta politica e a un anno appena dal trionfo democristiano del 18 aprile, era scattato - proprio in quel Sud che era stato baluardo della destra monarchica e della vampa clericale - un moto contadino, che chiedeva terra e lavoro.
L'epicentro del movimento fu in Calabria: più precisamente nell'area che dalle montagne della Sila si congiungeva al Marchesato di Crotone, e dilagò nelle due province di Cosenza e di Catanzaro.
L'agitazione iniziò a luglio, ma la sua espansione avvenne nell'ottobre. Partivano le popolazioni con in testa le bandiere, si salutavano da un poggio all'altro, e giunte sui demani e nei latifondi baronali - costruiti anche attraverso lunghe storie di usurpazioni - picchettavano il campo, spartivano le terre fra i partecipanti, squadra per squadra cominciavano ad arare le fasce occupate.
Il 29 di ottobre il movimento di Melissa si portò sul feudo demaniale di Fragalà: e secondo il rito cominciò la pratica dell'occupazione. Ma fu ancora una volta il sangue. Un reparto di polizia sparò sui contadini che stavano arando una terra demaniale, cioè di proprietà comune.
Caddero un ragazzo di 15 anni, Giovanni Zito, e Francesco Nigro di 29 anni. Angelina Mauro, colpita anch'essa, morirà dopo alcuni giorni all'ospedale di Crotone. Non ricordo il numero dei feriti, quasi tutti colpiti alle spalle. Le terre erano in buona parte demani comunali; altre nelle mani di baroni feudali come Berlingieri.
Avevo conosciuto la Calabria nei primi giorni di marzo del 1943: da clandestino, fuggendo la polizia fascista che mi cercava, i compagni di Cosenza non mi avevano mai visto prima: mi nascosero e mi protessero nelle montagne della Sila. C'era dunque un vincolo forte.
Come direttore dell'Unità scrissi una lettera pubblica a Cesare Zavattini, figura alta della letteratura e del cinema. Proposi che un gruppo di giornalisti e di intellettuali di tutte le parti si recasse in Calabria a interrogare persone e luoghi, e a ragionare sullo stato del Mezzogiorno. Zavatttini rispose gentilmente. Non potè venire. Ma la carovana di giornalisti di varie tendenze partì per quel giro, in giorni di un autunno splendido e visioni di sofferenza umana, cupa e orgogliosa.
Le bandiere che invadevano il latifondo, i volti scavati di chi le innalzava li ritrovammo poi nelle pitture di Guttuso e di Treccani. Ci fu un moto di pensiero. Tornammo a sfogliare pagine di Dorso e di Gramsci.
In Parlamento i comunisti votarono contro le leggi agrarie proposte da De Gasperi, ritenendole se non sbagliate insufficienti. In seguito tante cose parvero dare ragione a Ruggiero Grieco e Giorgio Amendola, che si mossero così.
E tuttavia si compiva un mutamento nel Mezzogiorno, dove per molti aspetti la sinistra italiana aveva subito nel tempo sconfitte drammatiche, e aveva visto perseguitare, incarcerare, ferire le sue avanguardie. Ancora a guerra finita, dopo il crollo del fascismo e la cacciata dei nazisti, la federazione napoletana del PCI un giorno aveva dovuto barricarsi fisicamente nella sua sede, per respingere i 'lazzari' scatenati dalla destra.
A partire dal quel 1949 ci fu un rilancio dell'opposizione sociale nel Sud. Da lontano oggi si vedono chiaramente i vuoti e le debolezze dell'iniziativa socialcomunista di allora. E tuttavia fu dato un colpo al blocco agrario. Finiva una riserva di caccia della reazione italiana e del clericalismo. Il resto lo fece l'emigrazione, quando ormai si schiudeva la grande mutazione del Nord.
Anche tutto l'aspro dibattito interno al PCI sulla strategia agraria verrà scavalcato dal lento deperimento del mondo contadino. E sarà per così dire una fortuna che nell'Italia centrale l'esodo dei mezzadri - dopo l'aspra e inconclusa controversia sui patti agrari - li condurrà nei comuni, nelle cinture delle cento città, dove una cultura repubblicano-socialista e avanguardie comuniste lavoreranno a una pratica di inclusione e di elevamento con un uso moderno e intelligente delle autonomie.
Era la società italiana in movimento che si rifondava e si rimescolava. Una fascia povera di popolazione (a volte poverissima) si mette in viaggio per l'Europa, parte e ritorna. O addirittura fugge dall'Europa, come era stato all'inizio del secolo. Prima che nei libri, tutto fu raccontato nelle pellicole dei maestri d'allora: Il cammino della speranza di Germi, Trevico-Torino di Scola, Rocco di Visconti - e più avanti su quel tema così ossessivo, così italiano, dell'emigrare tornerà anche Gianni Amelio.
In ogni modo la questione dello sviluppo prorompe. Lo affronterà con rischio e baldanza proprio un ex bracciante pugliese, divenuto segretario della Cgil: Giuseppe Di Vittorio. E sarà il 'Piano del lavoro'.
Le lacune, le approssimazioni, le vere e proprie debolezze della proposta sono facili da vedere oggi. In quel 'piano' l'unico intervento per così dire 'strutturale' riguardava l'industria elettrica. Le altre, sostanzialmente, erano proposte o linee abbastanza sommarie di lotta contro la disoccupazione.
Eppure in quella iniziativa del segretario della Cgil emergeva l'idea di un 'progetto di riforma', un bisogno di misurarsi con le novità clamorose che stavano investendo la società italiana: un primo, gracile tentativo di discorso sui connotati di uno sviluppo nuovo, il tema che poi diverrà centrale con forza negli anni '60, e già in quel Convegno del "Gramsci" del 1962.
La dirigenza del PCI formalmente appoggiò la proposta Di Vittorio. Ma non ne colse il segno effettivo di novità. Soprattutto non avvertì che dietro quella iniziativa ancora così gracile stava ormai l'emergere di un soggetto sindacale deciso ad affermare la sua autonomia e la sua difficile particolarità: tema poi di aspri conflitti, come li vidi nel seno della Direzione comunista tra Rinaldo Scheda e Bruno Trentin. E mi parve chiaro che erano in dura discussione le nuove forme che assumeva la politica: la sconfitta storica del monolitismo e la molteplicità dei campi e degli attori. E secondo me il gruppo dirigente comunista di allora - pur così fermo nel suo coraggio dinanzi alla sconfitta - sbagliava nella lettura del capitalismo che aveva di fronte, sia pure in Italia così segnato dagli strascichi della sua arretratezza.
A rileggere le fonti di quel lontano mezzo secolo si vedono oggi abbastanza chiaramente i lacci non solo politici, ma per così dire 'ideologici' che segnavano la battaglia comunista di allora.
Ho davanti a me il libretto dedicato al Comitato centrale del PCI che si svolse dal 10 al 12 ottobre del '50. Si può dire che fa una certa tenerezza a guardarlo? È stampato all'Uesisa, dove allora era anche l'Unità in cui io lavoravo. Sulla copertina, in testa, c'è la banda rossa fiammeggiante. E sotto la foto rituale: con i dirigenti in piedi, immoti in fila, le mani poggiate sul tavolo: Scoccimarro, Togliatti, Longo, Novella, Secchia, il gruppo dirigente, come si diceva con una certa solennità allora. Il libretto è un supplemento del "Quaderno dell'attivista".
La lettura oggi delude: non per la polvere del tempo su quegli eventi che allora ci stringevano alla gola.
Era l'anno - mi sembra - in cui scattava l'operazione 'Gladio', trama congiunta del Fbi e della dirigenza cattolica. Chi poteva negare che fosse legittima una battaglia anche solo di resistenza?
Eppure lo sbaglio, la difficoltà del PCI traspaiono brutalmente nei testi di quel Comitato centrale che si radunava nel pieno di una tempesta. Stava prima di tutto nell'idea del nemico, che si incontrava in quelle due parole così insistite, così sillabate: imperialismo e grandi monopoli.
Era una troppo fragile semplificazione. Rimandava a categorie e canoni discutibili del leninismo, ancor più accentuati e forse falsificati dallo stalinismo nel suo sanguinoso fiorire. In quegli schemi interpretativi della tempesta in corso, che pure io ascoltavo con religiosa attenzione, due appaiono oggi le assenze clamorose: l'Europa, e la complessità del capitalismo nella metà di quel Novecento. Quel continente così centrale nella storia del mondo sembrava scomparire, o veniva colto allora solo nelle sue immagini ritornanti di dissidenza dalle grida americane: Mendès France, per esempio. Risultava del tutto incompresa, quasi dimenticata o ridotta a un rozzo strumento dell'imperialismo americano, la laboriosa, ma decisa costituzione della Comunità economica europea, che pure era stata così intelligentemente promossa e sostenuta dal cattolicesimo europeo, compreso quel De Gasperi che noi, schernendolo, chiamavamo 'austriaco', e Schumann, Adenauer... Quale errore!
Quanto all'ardente e complicata questione dei Balcani, da secoli decisiva per gli equilibri e la pace d'Europa, c'era in quei testi e discorsi del comunismo italiano solo l'aspra condanna dell'eresia titina, con un silenzio colpevole sulla Polonia, frontiera del cattolicesimo, terra così segnata per secoli dalle guerre per gli equilibri continentali, e Praga, sito complicato delle differenze religiose e poi del pensiero del Novecento. Infine, un grave triste silenzio sui processi e le purghe che là erano risorti, e i dirigenti comunisti finiti sul patibolo già allora: Rajk in Ungheria e Kostov in Bulgaria.
C'era - so bene di dirlo con il senno di poi - una lettura povera e mutilata del capitalismo novecentesco, che lo riduceva al potere militare e alla frusta padronale nella fabbrica, quasi come uno 'scelbismo' a livello imperiale. Le culture sofisticate, le varianti statali così marcate nella vasta area dell'Occidente, le mutazioni nuove delle tecnologie industriali nei loro spazi di regolazione: questo si perdeva. E ciò proprio mentre la nuova razionalità capitalistica dilagava anche nel nostro paese, quegli anni in cui dalla penombra carceraria venivano portate alla luce, e quasi santificate, le riflessioni di Gramsci sui sistemi di egemonia, sui vari fronti o reti di casematte in cui si differenziavano, nella modernità capitalistica, guerra di movimento e guerra di posizione.
Non sono mai stato convinto della fortuna di Zdanov nella sinistra italiana. E tuttavia i suoi solenni scenari, il suo dogmatismo brutale sembravano aver lasciato una traccia - o almeno come un freno - che rigettava indietro anche l'ideologia della 'via italiana', l'affermazione di diversità con cui Togliatti s'era distinto dalla vicenda russa e aveva combattuto strenuamente (questo non si può dimenticare) contro la prospettiva 'greca', contro la 'semplificazione' del ricorso alla lotta armata.
C'è una curiosa traccia di ragionamento, che s'incontra spesso, nei testi analitici del gruppo dirigente di quegli anni: si espongono i motivi generali per cui X o Y "non possono non fare"... E a me sembra evidente, in quello schema logico, la precostituzione di una soggettività trascinata alle sue scelte da un'intima natura, che al momento dato fatalmente si rivelerà. Sembra tornare, in quelle previsioni fatali, la secca assiomaticità con cui Lenin dalle fiamme della prima guerra mondiale in atto ricavava la definizione dell'imperialismo e dei gruppi monopolistici dominanti, e da ciò l'ineluttabilità della guerra e della insorgenza rivoluzionaria: con la riduzione della socialdemocrazia europea al tradimento, al miserabile compito di 'rinnegati'. Una dura semplificazione del capitalismo giunto alle complesse morfologie del Novecento, ai suoi molteplici intrecci fra 'nazionale' e 'internazionale', alle culture con cui esso si incontra e si mischia, ai vari livelli con cui costituisce alleanze, e in un certo specifico modo le segna e le collega: da luogo a luogo.
Può sembrare curioso che ormai all'inizio del secondo Novecento l'avanguardia comunista italiana resti dogmaticamente stretta alle clausole leniniste, quando - contraddittoriamente - già la pratica comunista italiana da tanti versanti - tenacemente e quasi disperatamente - lavorava a scavalcare i moduli stalinisti, si costituiva nel territorio, e dilatava l'agire del partito in una molteplicità di campi, fino a iscrivere nei suoi modi - non mi stancherò di ripeterlo - persino i simboli del folclore.
Guardando da lontano, si percepisce nitidamente che - nel momento forse di massima tensione con l'avversario di classe - il PCI utilizza il suo abbrancarsi al territorio: il comune e la regione, e persino il vecchiume statalistico rappresentato dalle province. Più o meno è in quegli inizi del secondo Novecento che in Emilia, in Toscana, in Umbria (ma si potrebbe allargare la lista dei nomi) un potere comunale e regionale realizza alleanze, e scopre (o ritrova) terreni 'locali' di emancipazione, e luoghi di incontro con la molteplicità novecentesca dei lavori e delle professioni.
Fu quello un ripiegamento dinanzi alla difficoltà e alla sconfitta subita ai livelli di potere nazionale e mondiale? E tuttavia Bologna divenne un simbolo, che parlò persino a livello internazionale. E la lotta rivendicativa in quelle terre tra il Po e il Tevere non fu certo mortificata: se mai, ne fu esaltato il nesso fra emancipazione del lavoro e sviluppo civile. E fu rotto l'isolamento della fabbrica.
Ma questo si dispiegò in Italia soprattutto dopo. A luglio di quell'aspro 1950 tornava nel mondo la guerra.
Ho a mente ancora l'emozione, il silenzio, quando in quella stanza dell'Uesisa, dove lavoravamo in équipe alla fabbricazione dell'Unità, un compagno redattore mi portò il foglio di agenzia che annunciava l'evento: Kim Il Sung, capo comunista della Corea del Nord, aveva varcato la frontiera della Corea del Sud, stretto alleato della potenza americana.
Non so dire se fummo sorpresi. Da quella capitale italiana avevamo abbastanza chiaro il livello a cui si appressava lo scontro mondiale. Ed era fatua la campagna italoatlantica quando irrideva agli 'utili idioti': il movimento dei Partigiani della pace, almeno in Italia, fu tutto meno che un trucco. E ci furono scissioni, rotture dolorose, in cui spesso chi si schierò con i pacifisti perdeva poteri e favori.

Certo: alla testa di quella onda pacifista stavano le avanguardie comuniste. Ma parlavano a mondi inquieti. Non so dire se la firma di Vittorio Valletta sotto quell'appello di Stoccolma fu un gioco beffardo o un moto d'animo. Nenni ha raccontato che in quelle ore anche De Gasperi parve convinto che stesse per scoppiare la terza guerra.
Di sicuro, un esteso campo cattolico fu scosso. E non si mosse solo la dissidenza proclamata: da Gozzini a don Mazzolari. Disse il suo turbamento anche una figura come Igino Giordani, uomo della crociata anticomunista. E sapevamo allora quasi nulla del campo di lotta: di quella nuova Asia, che aveva visto, quasi a sorpresa, l'incredibile vittoria di Mao.
In quei giorni, con l'animo sospeso, andammo con i nostri figli a cercare sull'atlante il segno di quel fiume Yalu, su cui si fronteggiavano così direttamente il nuovo paese-guida dell'Occidente, l'incredibile America, e l'ignota Cina che si proclamava comunista. Chi poteva pronosticare l'esito di quella sfida e i livelli e lo spazio cui sarebbe giunto l'urto?
Tornava nel modo più concreto la mondialità dello scontro fra due campi: di nuovo al livello delle armi, quasi a ribadire il legame obbligato con lo Stato-guida, l'unico - così sembrava - in grado di aiutare la giovane rivoluzione maoista, quindi l'Asia nuova, uscita vittoriosa persino dalla sfida col Giappone.
Sembrava emergere - allargato - quel vincolo degli anni trenta e quaranta che ci aveva trascinato con l'Urss nonostante le purghe staliniane.
Eppure in quell'autunno degli anni cinquanta ci fu una vicenda singolare - si potrebbe dire in qualche modo tutta italiana - che nel suo livello aprì una ferita con i sovietici, e a coloro che quella vicenda vissero svelò quasi una crepa, una incredibile disfunzione in quel paese-guida. Per caso singolare mi trovai a viverne un anfratto.
Era la seconda metà di novembre, e come direttore dell'Unità fui chiamato a una conferenza del Cominform, dedicata alla discussione sulla stampa comunista e che assumeva come punto di partenza l'esame del giornale cecoslovacco Rude Pravo e dell'italiana Unità.
L'incontro era fissato a Bucarest. Partii insieme con Edoardo D'Onofrio, un comunista rigido e malinconico, che in quel tempo teneva i contatti diretti con il Cominform.
Era un volto, una storia di operaio romano che incuteva rispetto: come segnato da una amarezza, non si capiva se generata dal corso delle lotte italiane o da una ingiustizia che lo aveva ferito. Ne parlò una volta aspramente con Togliatti che gli rispose: voi che avete fatto per me, quando Stalin mi voleva portare via dall'Italia?
E quella malinconia dell'operaio comunista romano sembrava cancellata solo in qualche incontro nelle trattorie di Testaccio, a mangiare coda alla vaccinara: allora si abbandonava a scatti goliardici, a sfide sull'ingozzarsi e sul bere e a qualche parola grassa. Mi faceva un po' soggezione, pur essendo io lontano dalle posizioni che egli esprimeva nel dibattito di partito. Ma mi piacque andare con lui a quell'incontro, di cui non afferravo bene gli scopi.
A Bucarest vidi una città nuda, spoglia nelle sue piazze. Presto ci spostammo altrove, in una villa quasi sepolta tra i boschi. Le stanze erano vaste e senza arredamento, come di luoghi appassiti o addormentati. Fuori c'erano però selve assorte.
Se ricordo bene, la discussione fu aperta da una relazione di Iudin, uno dei segretari dell'Informburò. Fu una relazione pesantemente didascalica, con un caloroso apprezzamento per il Rude Pravo e una critica feroce e dichiarata per l'Unità. Il primo addebito era l'assenza nel giornale della vita dell'Urss e delle conquiste del comunismo mondiale, Stalin - s'intende - in testa a tutto. Il centro dell'attacco al giornale italiano riguardava la sua debolezza ideologica, la gracilità della informazione sulle vittorie del campo comunista, lo spazio minuscolo dato alla formazione bolscevica dei quadri, allo studio e alla illustrazione delle opere di Stalin e di Lenin. E via dicendo.
Ma la condanna non si fermava alla politica: tracimava nell'etica. Veniva criticato lo spazio dato alla cronaca nera, ai malcostumi della società borghese: e infine alle 'donne nude', alla narrazione frivola e impudica. Eccetera. Ed era davvero una critica esagerata, anche se nella giovane redazione dell'"Unità" c'era sì un certo gusto del lazzo un po' becero, della beffa salace, rivolta non solo all'avversario.
In ogni modo a fronte di quelle critiche non si capiva cosa rimanesse in piedi di quel giornale italiano, e nemmeno l'acribia dell'attacco. Ma si capiva nettamente che la condanna andava al di là del giornale, e toccava indubbiamente connotati di fondo del partito italiano, il suo immaginario nel paese e il suo modo di confrontarsi con il capitalismo occidentale di quel tempo.
Con quell'attacco veniva colpita proprio la dilatazione del giornale, il suo sforzo di incidere sul costume e di dialogare con le correnti culturali della rivoluzione novecentesca, anche con chi dissentiva e rompeva con noi. E forse non bastava a giustificare quella dura arroganza il finanziamento che ci veniva da Mosca.
È vero. Noi esploravamo varianti corpose rispetto al modello sovietico. Tentavamo di afferrare l'evoluzione del capitalismo occidentale, le turbinose rivolte culturali che avevano scosso il secolo. Esploravamo varianti possibili del modello.
Invece ci trovammo di fronte a un dispotismo centralistico, che tentava di cancellare le innovazioni del secolo, quando si trattava di capirle. Cos'era, in quella congiuntura aspra, quell'educandato cominformista? Erano curia? Nel caso, gli mancava l'impudicizia e il rutto. Predicavano lo stalinismo, nel suo senso più gretto. Più tardi mi chiesi che significava quell'attacco agli italiani proprio mentre Stalin intendeva portare Togliatti alla dirigenza del Cominform.
Dissi a D'Onofrio: questa critica violenta non riguarda solo noi dell'Unità. Va oltre. Fu malinconicamente d'accordo.
La mia relazione che seguì fu francamente infelice: cercava di parare i colpi, a suo modo inserendosi nel linguaggio di quel rito. Alla fine facevo, quasi a compenso, un racconto apologetico (ma veritiero) del lavoro degli 'Amici dell'Unità', l'organizzazione militante che in certe domeniche aveva portato la diffusione dell'Unità quasi a un milione di copie, vicino ai livelli dei grandi giornali borghesi.
Ma nemmeno questo mi salvò. Cercai qualche appoggio nel compagno francese che rappresentava l'Huma, sperando in una solidarietà del comunismo occidentale. Ma la risposta fu evasiva. Ed era ancora poco: in seguito con i compagni francesi fu conflitto aperto.
In una sosta pomeridiana, in giro per i prati splendidi che circondavano quella villa solitaria, incontrammo Suslov, l'ideologo sovietico ufficiale dopo la morte improvvisa di Zdanov: una figura alta, chiusa in un lungo cappotto bordato da un lembo di pelliccia, come assorto negli occhiali a pince-nez. Domandò gentilmente a D'Onofrio: che cosa pensa questo giovane compagno delle critiche che gli sono state rivolte? D'Onofrio rispose qualche parola di circostanza. Io più o meno tacqui.
Al ritorno in Italia incontrai Togliatti convalescente a Sorrento. Quel 1950 che stava per finire era stato un anno drammatico per lui. In agosto, mentre viaggiava verso le Alpi piemontesi che gli erano così care, la macchina che lo ospitava con la Jotti era sbandata paurosamente.
All'inizio parve che Togliatti avesse riportato solo qualche piccolo danno. Ma in autunno cominciò uno strano malore. Marcella Ferrara, che era la segretaria di Rinascita, e per ragioni del suo lavoro e per amicizia era spesso con lui e con Nilde nella casa di Montesacro, mi raccontava con angoscia quei segni di un male oscuro: le risposte confuse e sbandate, l'improvviso assopirsi o non dar segno di attenzione, i malori progressivi che alla fine allarmarono Spallone, il medico che lo seguiva si può dire giorno per giorno.
Poi le cose precipitarono. Togliatti era quasi in coma. Fu cercato freneticamente Valdoni, il chirurgo famoso che l'aveva salvato il giorno dell'attentato di Pallante in piazza Montecitorio. Valdoni, sia pure con qualche riluttanza, accettò di intervenire. Ricordo come fosse ora quel momento in cui Antonello Trombadori, critico d'arte e vecchio gappista e addetto ora ai servizi di vigilanza (secondo le curiose metamorfosi che si compivano in quello strano Partito comunista) sbucò da una porta e abbracciandomi mi disse: è salvo. Tali erano le passioni che si vivevano in quel singolare organismo politico che a Bucarest avevo visto sotto accusa dal Cominform, poiché di questo alla fine si trattava.
A Sorrento, in quella fine di un triste novembre, andai accompagnato da Marcella Ferrara. Informai Togliatti del brutto esito di quella riunione. Per necessaria correttezza, e secondo i vincoli che allora ci apparivano naturali, dissi a Togliatti che naturalmente ero pronto a lasciare la direzione del giornale. Mi rispose semplicemente: continua come prima. Senza aggiungere altro.
Il 17 dicembre 1950 quel segretario del PCI partì per Mosca con la Jotti e con la figlia Marisa, per un periodo di convalescenza in Unione sovietica. Il giorno seguente al suo arrivo ricevette una visita di Stalin, che gli propose subito di lasciare l'Italia e di assumere la guida del Cominform a Praga.
Che fu? Una mossa di Stalin per togliere un uomo incomodo alla testa del più grande e più radicato partito comunista d'Occidente, in qualche modo sospetto ormai di eresia, e affidare la direzione del partito italiano a Pietro Secchia, strettamente legato alla guida sovietica? O - più probabilmente - era il tentativo disperato di risollevare le sorti del Cominform, diventato una fragile accolta di burocrati, che ormai - dietro quel nome così prolisso - sapeva solo allineare materiali dottrinari e articoli noiosi, che nessuno leggeva, e ritrovare una iniziativa in quell'Occidente europeo dove i partiti comunisti - quasi tutti - erano sconfitti o ammalati di malsottile?
Assai probabilmente era vera la seconda lettura.
In ogni modo Togliatti rifiutò aspramente l'incarico prestigioso. Ma si trovò drammaticamente di fronte la direzione del PCI che tutta - salvo Terracini che fu seccamente contro e Longo che si astenne semplicemente per motivi di correttezza essendo lui chiaramente il candidato alla successione di Togliatti - tutta la direzione del PCI approvò la proposta di Stalin. Togliatti tenacemente, rabbiosamente resistette all'allontanamento dall'Italia. E alla fine la spuntò. Nilde Jotti mi ha raccontato il gesto, il respiro di sollievo che il segretario del partito italiano ebbe, quando sulla via del ritorno, varcarono la frontiera sovietica. Tali erano i 'tempi di ferro e di fuoco', che egli amaramente evocò, in una assemblea del Partito a Livorno, quando nel 1956 Amendola e Pajetta l'accusarono di tiepidezza o reticenza di fronte al 'rapporto segreto' di Nikita Krusciov sui delitti di Stalin.
In verità in quel duro 1950, Mao corse in aiuto dei nordcoreani, e l'attacco americano fu fermato sulle rive dello Yalu. Né l'uno né l'altro dei grandi protagonisti mondiali pigiarono il bottone che faceva brillare l'atomica. E quella pace precaria fu salva.
La stella del Cominform era ormai in frantumi, seppure avesse mai brillato. Prima ancora che l'idea del 'comunismo' (questa grande metafora della transizione verso un'ipotesi socialista) cadeva sconfitta l'idea che la parte comunista aveva dell'avversario di classe: il quale non era solo il gigante fordista americano che dilagava nel mondo, ma una costellazione di soggetti, di forme statali e di apparati ideologici, che collegavano l'avanzata dei saperi industriali e la dilatazione dei consumi, le corporazioni proprietarie e i siti molteplici della politica, niente affatto chiusi nel Palazzo d'Inverno, ma diffusi nella molteplicità della vita, nella lunga durata del giorno e nei cicli notturni dove avevano i loro clamori sessualità e travaglio della psiche, o trovavano spazio attonito le interrogazioni sul Divino e sull'oltre.
Il lavoro stava dentro e al centro di queste boscaglie, e trascolorava, mutava nei nuovi livelli dei saperi che s'interrogavano ormai persino sul generare, sulla creazione della vita umana. Poteva esserci, può esserci un processo di emancipazione, di liberazione del lavoro, che non cominci (solo cominci) a fare più nettamente e pazientemente i conti con questa inaudita complessità umana in cui naviga l'atto lavorativo?