Giovanni Miccoli

25 Aprile

[si tratta del testo integrale del discorso tenuto a Udine il 25 aprile 2005:
ha il raro merito di tenersi lontano dalla retorica e di compiere un'analisi acuta]

Le ricorrenze di feste nazionali o di giornate considerate importanti e significative nelle comuni vicende della storia, cui periodicamente siamo chiamati, rivestono un forte valore simbolico prima e più che celebrativo. Ripropongono ai cittadini la memoria, storicamente rivisitata, di avvenimenti centrali per la vita collettiva, evocano i principi e i valori che di quegli avvenimenti hanno costituito l’ispirazione profonda, suggeriscono la riflessione e il ripensamento su vicende che hanno variamente segnato il nostro comune sentire.
Non considero tuttavia positiva la tendenza di questi ultimi tempi ad accrescerne via via il numero: una sorta di vana e tardiva rincorsa al recupero di pezzi del nostro passato, nella quale il segno prevalente sembra la ricerca di un risarcimento di torti subiti, di rivalsa per qualcosa contro qualcuno. Ma moltiplicando le occasioni del ricordo si rischia di cancellare ogni ricordo, inflazionando i momenti di comune incontro e riflessione si rischia, agli occhi dei più, di confonderli in un tutto indistinto che annulla le differenze e il diverso peso e il diverso significato di ciascuno di essi. E se il “giorno della memoria della Shoah” è pienamente legittimato per la dimensione europea di quei fatti e a perenne messa in guardia dalle aberranti motivazioni razziste che hanno condotto alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei europei, non mi pare sia propriamente così per altre giornate istituite o proposte.
Persuaso come sono dell’importanza della memoria per la qualità stessa, civile e morale, della vita collettiva, credo anche però che ben rare sono le date della nostra storia nazionale che possono e debbono pretendere il riconoscimento di un’assoluta, unica e irrinunciabile centralità.
Ha questa centralità, deve avere questa centralità, la data del 25 aprile 1945 di cui ricorre oggi il sessantesimo. Si addensano in effetti in essa una straordinaria molteplicità di riferimenti e di significati, la memoria di vicende che furono decisive non per la storia italiana soltanto.
Celebrando il 25 aprile infatti ricordiamo il momento culminante della Resistenza contro i nazisti e i loro alleati fascisti, con la proclamazione dell’insurrezione in tutta l’alta Italia non ancora liberata dagli eserciti alleati. E ricordiamo anche tutto ciò che ne seguì e di cui la guerra di liberazione fu la necessaria premessa: la Costituzione repubblicana in primo luogo, che dell’unità antifascista realizzata nella Resistenza fu il frutto civile e politico più alto, con la determinazione delle garanzie giuridiche fondamentali per il pieno ristabilimento delle libertà politiche e civili nel nostro paese. Ma riunendoci in questa data non possiamo non ricordare anche la conclusione della guerra in Europa, con la vittoria sul Terzo Reich e la costellazione di suoi alleati da parte di quella che fu allora chiamata la coalizione antifascista. Veniva così definitivamente meno la minaccia terribile rappresentata dalla prospettiva che sul suolo dell’intera Europa si affermasse quel “nuovo ordine” vagheggiato dai nazisti, e del quale le loro folgoranti vittorie nei primi anni Quaranta avevano posto le terribili premesse e mostrato le funeste conseguenze.
È dunque una data decisiva per l’Italia e la storia italiana che oggi ricordiamo, ma è anche una data decisiva per l’Europa e per il mondo. Ed è da qui forse che conviene cominciare.

Temo infatti che la memoria collettiva abbia in gran parte dimenticato i caratteri orrendi e le spaventose conseguenze di quella guerra imposta alle nazioni dall’alleanza del Terzo Reich e dell’Italia fascista, e che abbia insieme perso la coscienza di ciò che la loro eventuale vittoria avrebbe rappresentato per la nostra vita civile. Così come temo che la coscienza collettiva abbia perso la memoria di ciò che nei primi anni Quaranta il dominio nazista su gran parte dei paesi europei ha rappresentato per la vita delle loro popolazioni.
Non si trattò soltanto dei metodi di guerra applicati da subito dai nazisti, volti a fare terra bruciata dei territori da conquistare, coinvolgendo pesantemente la popolazione civile: metodi che come ben sappiamo hanno fatto largamente scuola anche sul fronte avverso; già allora, con l’uso indiscriminato dei bombardamenti terroristici culminati nell’uso dell’atomica su un Giappone avviato ormai alla resa, ma anche in seguito, nelle tante guerre locali cui abbiamo dovuto malauguratamente assistere in molte parti del mondo: non unico esempio del veleno che le ideologie nazionalistiche e razzistiche, di cui nazismo e fascismo sono stati supremi ma non unici artefici, hanno saputo spargere negli orientamenti del comune sentire.
Il dominio nazista sull’Europa occupata fu però anche molto d’altro, frutto perverso dell’ideologia razzista e nazionalista che lo ispirava, e di cui l’Italia fascista si adattò a divenire compiacente alleato subalterno. L’idea che il popolo tedesco era lo Herrenvolk, il popolo dei signori, cui era destinato il dominio del mondo, non era un mito astratto: impregnava di sé l’ideologia del nazismo, reclamava comportamenti e misure conseguenti, funzionali alla sua piena realizzazione. Per questo quel dominio fu senza remissione e pietà verso tutto ciò che ad esso era in qualche modo contrario o estraneo. Fu la prospettiva della riduzione in schiavitù di milioni di uomini, con le deportazioni destinate a incrementare il lavoro coatto nei campi di concentramento. Fu la messa in opera di rappresaglie feroci nei confronti delle popolazioni civili, volte a stroncare ogni manifestazione di dissenso, ogni tentativo di resistenza. Fu l’abbandono alla morte per inedia di milioni di prigionieri di guerra (due milioni di russi finiti così nell’anno successivo all’attacco alla Russia). Fu l’eliminazione sistematica dei portatori di handicap e degli ammalati mentali (le Lebensunwerteleben, le vite prive di valore) che deturpavano la possanza eletta del “popolo dei signori”. Fu infine, macchia indelebile e “privilegio” esclusivo degli orrori dei nazisti e dei loro alleati, lo sterminio degli ebrei europei, cui vennero aggiunti poi gli zingari, vecchi, uomini, donne e bambini, sterminati solo perché ebrei o perché la loro ideologia li considerava tali: sterminati in massacri collettivi nel corso dell’avanzata nelle regioni occidentali della Russia, sterminati in campi destinati solo a questa funzione, raccogliendoli dai ghetti polacchi e con le deportazioni da tutti i paesi dell’Europa occupata: “con scene, scrisse un autorevole testimone oculare, che nelle cronache del nostro tempo verranno paragonate ai trasporti dei mercanti di schiavi africani del passato”.

Non può non essere sottolineata qui questa che del nazismo fu caratteristica unica, troppo spesso dimenticata. Perché campi di concentramento destinati ai propri avversari politici, campi per sfruttare sino all’inedia il lavoro schiavo ne esistettero in gran numero anche altrove (superfluo ricordare al riguardo quelli, terribili, della Russia sovietica). Ma campi destinati solo ad uccidere, vere e proprie fabbriche di morte, come Chelmno, Treblinka, Belzec e Sobibor (e in parte Auschwitz e Majdanek) solo la feroce determinazione dei nazisti fu capace di produrre.
La Resistenza che si sviluppò in Europa e, dopo l’8 settembre, in Italia intese opporsi a tutto questo, perché vide in tutto questo la negazione radicale di un’idea di umanità comune a tutti gli esseri dotati di ragione. “Gli ebrei sono uomini, gli ebrei sono donne […]. Essi fanno parte del genere umano”, aveva gridato con forza l’arcivescovo di Tolosa, di fronte alle grandi razzie che nell’agosto 1942 colpirono migliaia di ebrei francesi. Erano verità elementari, reclamavano diritti connessi alla natura dell’uomo, che poche voci allora osarono ricordare pubblicamente. Ma era proprio questo che i nazisti misconoscevano e negavano: lo negava la loro ideologia fondata sulla gerarchia delle razze, lo negava la loro prassi, brutale e feroce, che ne era l’espressione coerente. Mussolini e l’Italia fascista lo sapevano bene, e l’avevano accettato, contando in qualche modo di entrare a far parte anch’essi del “popolo dei signori”. Per questo quella combattuta allora fu, come mai nel passato, una guerra mortale per i destini dell’umanità: ed è bene ricordarlo.



In Italia la Resistenza fu questo ma fu anche altro. Composite furono le sue componenti, come molteplici e differenziati furono i percorsi che l’alimentarono. Le sue radici stanno nelle ventennale opera di opposizione condotta in Italia e fuori d’Italia da una minoranza di uomini e donne, di idee politiche diverse, spesso molto diverse, che l’avversione per la dittatura fascista aveva finito per avvicinare. Si formò dopo l’8 settembre, frutto del pauroso fallimento delle fallaci prospettive che il fascismo aveva additato agli italiani: come allo squarciarsi di un velo, tanti giovani, che ai suoi falsi miti avevano aderito, cercarono nella Resistenza la via del nostro comune riscatto. La incrementò la volontà di opporsi alla presenza tedesca, iniziando appunto quella che fu anche “guerra di liberazione” e “guerra d’indipendenza”. Ma la Resistenza fu anche guerra sociale, per i tanti che aspiravano ad un rinnovamento profondo della società, e fu guerra civile - sarebbe un errore non riconoscerlo - nella consapevolezza che il fascismo non aveva rappresentato la comparsa nel paese di strani alieni, ma era ed era stato parte della società italiana, delle sue difficoltà, delle sue frustrazioni, espressione di un’idea deformata e autodistruttiva di nazione e di patria, e che dunque lo scontro fra italiani era inevitabile. Questo carattere composito che fu suo allargò il suo bacino di reclutamento, ma alimentò anche, com’è ovvio, le tensioni e le contrapposizioni interne. E tuttavia un’unità di lotta fu mantenuta perché troppo alta era la posta in gioco, reggendo alle divisioni e alle crisi che non mancarono.

In Friuli, in queste terre di confine, che il Terzo Reich aveva di fatto staccato dal resto d’Italia istituendo l’Adriatisches Küstenland, le cose, si sa, furono ancor più difficili e complicate. Pesava la dura eredità del ventennio fascista, che aveva pesantemente oppresso le popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia, avviando una politica capillare di violenza e di snazionalizzazione forzata; che nell’estate del 1941, all’indomani dell’attacco alla Jugoslavia, aveva stoltamente annesso la provincia di Lubiana, applicando a quelle popolazioni i metodi appresi dal suo alleato nazista e aprendo così inevitabilmente la strada a quelle aspirazioni di rivincita e di riscossa nazionale, generatrici di nuova violenza, che inquinarono tanto profondamente e a lungo i rapporti fra le diverse popolazioni di queste terre.
L’urgenza di combattere l’occupatore tedesco e le milizie fasciste al suo servizio non poteva ignorare che su questa lotta gravava il problema del futuro statuale di una parte almeno di queste terre, rivendicate in termini massimalisti dalla Resistenza jugoslava. Odio nazionale il fascismo aveva largamente seminato, e odio nazionale la Resistenza era costretta a raccogliere. Furono lacerazioni e tragedie, nel corso della guerra e alla fine della guerra, vive ancora nel ricordo di tanti. Porzus, le foibe, le tensioni aperte o sotterranee degli anni successivi, furono in primo luogo il tragico strascico dello scatenamento di odi nazionali che venivano da lontano (dal formarsi, al tramonto dell’Impero asburgico di nazionalismi sempre più antagonisti ed aggressivi), che l’annessione all’Italia di zone della Venezia Giulia compattamente abitate da popolazioni slovene e croate aveva incrementato, che la politica fascista aveva portato all’esasperazione.
Parlando delle vicende di quegli anni in queste terre di confine però non ci si può certo fermare qui. Perché andrebbero ricordate anche le tante pagine luminose di dedizione e di coraggio, ed esperienze decisive, come la creazione delle zone libere e la realizzazione di prime forme di partecipazione democratica delle popolazioni; ma andrebbe più puntualmente ricordata anche la durezza di una lotta di cui non a caso una famosa canzone partigiana diceva che “pietà l’è morta”, e andrebbero ricordate le rappresaglie feroci ordinate dalle autorità tedesche, con le uccisioni di centinaia di ostaggi e la distruzione di interi villaggi; e ancora, il coraggio civile di uomini e donne non combattenti, che delle asprezze di quella guerra sopportarono l’intero peso.

Ma andrebbero ricordati anche le difficoltà, le contraddizioni, i contrasti, le diversità più o meno sotterranee di prospettive, che animavano e guidavano i resistenti. Composita la Resistenza, composito era ed era stato l’antifascismo, diverse, spesso lontane, le premesse, le ragioni, le visioni del futuro che lo ispiravano. Senza entrare nei dettagli, che compete alla ricerca storica ulteriormente chiarire, credo tuttavia vi siano alcuni punti, oggetto più che mai in questi ultimi anni di speculazioni interessate e di discussioni accese, che non debbono essere elusi, e particolarmente in una circostanza come questa che vuole essere in primo luogo occasione di riflessione e momento di consapevolezza civile. Non sono cose nuove, perché si tratta piuttosto di questioni rimaste a lungo confinate in gruppi ristretti, mentre le voci isolate che invitavano ad allargarne l’esame a cerchie più ampie sono state per lo più intenzionalmente ignorate, in primo luogo da chi deteneva il controllo della comunicazione e perciò il potere di spegnere o di dare rilievo a quelle sollecitazioni.

Un’accusa, soggiacente sempre più di frequente a tanti discorsi sulla Resistenza e sull’antifascismo, è che l’una e l’altro risulterebbero irrimediabilmente inquinati dalla presenza comunista: dalla presenza cioè di una forza politica che aveva nella Russia sovietica il suo riferimento ideale, e dunque era legata a una realtà che nulla aveva da invidiare, quanto a repressione spietata delle libertà civili e politiche, al totalitarismo delle potenze fasciste. L’apparente limpidezza di tale argomentazione pecca in un punto fondamentale, svelando così il suo carattere funzionale alla propaganda politica e ideologica attuale: trascura e cancella cioè le ragioni profonde, la spinta ideale ed emotiva, ma anche la durezza delle condizioni di vita imposte alle classi subalterne - in molti casi si potrebbe dire la loro spietatezza -, che nel corso di quei decenni e di quegli anni portava e aveva portato tanti uomini e donne ad abbracciare il comunismo, a fare di esso la propria bandiera e la propria ragione di essere, vorrei dire la propria religione. È a questo infatti che si deve in primo luogo guardare per valutare il senso e la portata del massiccio apporto comunista all’antifascismo e alla Resistenza.
Il riconoscimento degli orrori e dei guasti terribili prodotti dal comunismo realizzato in Russia e nei paesi del cosiddetto socialismo reale, non può impedire di rilevare, com’è stato giustamente scritto, “quanto fosse siderale la distanza che separava un comunista italiano da un fascista in termini di obiettivi politici, di immaginario sociale, di valori umani”. Così come la durezza e la ferocia repressiva del sistema politico prodotto dal comunismo sovietico non può cancellare il fatto che i milioni di essere umani che in tante parti del mondo sceglievano il comunismo e si dicevano comunisti, lo facevano perché vedevano in esso uno strumento di libertà, di rigenerazione e riscatto degli umili e degli oppressi, di uguaglianza politica e sociale. “Ho creduto e credo fermamente in una società migliore e in un migliore prossimo avvenire di questa povera umanità. Non credo possibile, né posso in questo momento, rifuggire dalle responsabilità e dai doveri che ne derivano”, ha scritto nella sua lettera-testamento Aulo Magrini, commissario della brigata “Carnia”, caduto il 15 luglio 1944 al ponte sul But.
Sono concetti semplici, quasi elementari nella loro essenzialità, che esprimono con chiarezza la spinta etica e politica che animava tanti di quegli uomini e di quelle donne. Anche per questo il decisivo apporto dei comunisti italiani alla Resistenza ha potuto divenire ed è stato un contributo fondamentale alla formulazione della nostra Carta costituzionale, che pone alla sua base i diritti politici e civili di tutti i cittadini e ripudia la guerra come strumento di soluzione dei contrasti politici. La storia degli anni successivi, di un mondo diviso dalla guerra fredda, la riflessione autocritica condotta da tanti comunisti sui caratteri e i risultati dell’ideologia che era stata la loro, non possono manomettere e cancellare questi dati fondamentali: che hanno permesso appunto di avviare, nella collaborazione di tutte le forze antifasciste, democristiani, comunisti, azionisti, socialisti, liberali, la costruzione, anche se lenta, difficile, piena di ritardi e di debolezze, di un’Italia nuova, capace di tagliare definitivamente i ponti con il modello di uomo, di società e di nazione che il fascismo aveva incarnato e proposto.
In effetti furono idee grandi, ispirate a una concezione di democrazia solidale, quelle che guidarono i nostri padri costituenti, in un impegno che seppe restare unitario nonostante la gravità delle condizioni dell’Italia di allora e gli scontri e le tensioni sociali sui quali già si riberveravano gli echi minacciosi dei contrasti internazionali. Non tutte quelle idee trovarono piena e compiuta realizzazione, né certo questa è le sede per cercare di analizzarne il perché. Ma i principi ispiratori e gli istituti che ne derivarono, come l‘equilibrio dei poteri che li caratterizza, figurano come consapevole antidoto verso ogni tentativo di manomissione futura, a fondamentale garanzia della nostra vita democratica. Fu un momento eccezionale, non consueto nella storia dell’Italia unita, che al di là di tutte le contrapposizioni ideologiche e politiche, seppe costruire per il nostro paese regole condivise, ispirate ai principi di libertà, di solidarietà, di giustizia sociale, di civile convivenza. Un esempio che non andrebbe, che non andava dimenticato.
Non è questa, della presenza comunista, l’unica ragione per cui oggi si cerca di svalutare il senso e la portata dell’antifascismo e della Resistenza. Serpeggiante è infatti la tendenza ad equiparare i partecipanti dei due fronti contrapposti, sulla base della considerazione che i morti sono tutti uguali, che non mancarono nel dopoguerra vendette spietate dei vincitori sui vinti, che uomini onesti furono presenti anche sull’altro fronte. Anche qui, il carattere lapalissiano di tali considerazioni trascura e oblitera aspetti fondamentali, che non sono obliterabili né in sede storica né in sede politica. La morte certo cancella le differenze tra gli uomini, ricordando a tutti una condizione che è comune, ma non cancella le ragioni che li hanno mossi in vita, gli ideali e le prospettive che erano le loro. Rese di conti e vendette ci furono e furono spesso feroci, frutto di un confronto che fu radicale, di una guerra che fu spietata. I due fronti contrapposti non erano fatti di santi gli uni, di diavoli gli altri. Ma tali constatazioni non possono modificare il giudizio complessivo sul senso e le prospettive opposte che animavano quella lotta, né sugli esiti radicalmente diversi che la vittoria degli uni o degli altri avrebbe comportato per la vita collettiva.
È tutto ciò che rende illusoria e impossibile la costruzione di una memoria condivisa, che rende idealmente e politicamente inaccettabile un’omologazione, per quanto riguarda i valori e le prospettive, di quanti parteciparono ai due fronti contrapposti. Non è in questione il giudizio storico soltanto, perché ciò che soprattutto è in questione sono la sostanza civile e lo spessore ideale della nostra vita collettiva presente e futura. Non di improbabili memorie condivise ha bisogno la nostra vita democratica, ma del comune riconoscimento di alcuni principi fondamentali, di regole e norme universalmente accettate e rispettate. È questa la posta attualmente in gioco, posta di importanza capitale, cui non possono fare da succedaneo maldestri tentativi di incontro su un passato che era lacerato e che non può non restare lacerato, nelle memorie individuali come nelle ricostruzioni storiografiche.
Nessuna meraviglia dunque se vi sono degli italiani che non si riconoscono nella data di oggi, né nei molteplici e pregnanti significati di essa. Dopo più di 200 anni non mancano francesi che non si riconoscono nel 14 luglio e in ciò che esso ha significato per l’avvio difficile e tormentato di una Francia di cittadini e non di sudditi. Non può che essere così là dove si sono combattute aspre guerre civili, si sono affrontate concezioni radicalmente diverse dell’uomo e della società, visioni opposte dei valori e delle prospettive che devono caratterizzarla. Questa scontata mancanza di un unanime sentire non può tuttavia suggerire maldestri tentativi di ricerca di altri improbabili punti di riferimento comuni, né può permettere di mettere in discussione il fatto che il 25 aprile rappresenta il simbolico momento di inizio di un’Italia libera e democratica. Il riconoscerlo costituisce infatti l’attestazione e la garanzia che ai principi che ne hanno ispirato la realizzazione si è e si intende restare fedeli.
Per questo credo che le cerimonie di cui siamo oggi partecipi non rappresentano uno stanco rituale antico ma rivestono un’attualità profonda che impone un’ulteriore riflessione, che impone soprattutto di chiedersi se e che cosa vi è stato nell’antifascismo stesso che ha fatto sì, agli occhi di tanta parte dell’opinione pubblica, di logorarne i termini, di perdere di vista le sue motivazioni ideali e il suo significato.
Non credo si possa negare che nei lunghi e tormentati decenni della storia politica e civile dell’Italia repubblicana è stato in primo luogo l’antifascismo, con l’uso amplificante e spesso strumentale che se n’è fatto, a logorare se stesso, perdendo per dir così di vista, con le sue molteplici articolazioni, la sua ragione ideale e il suo riferimento specifico, per divenire, in particolare ad opera del partito comunista prima, delle forze della sinistra extraparlamentare poi, strumento di mobilitazione e di lotta politica in molteplici direzioni e sui più svariati obiettivi.
Ma non vi è stato solo il suo abuso politico che ne ha logorato i valori. Vi è stata anche un’inflazione di celebrazioni retoriche che hanno fatto della Resistenza il lavacro rigeneratore che avrebbe svelato il vero volto della società italiana e dell’antifascismo il patrimonio condiviso di tutto un popolo, rifiutando di vedere e di riconoscere il consenso, e le ragioni di esso, di cui il fascismo aveva pur variamente goduto nel ventennio del suo potere. Chiuso a riccio nel trionfalismo di una vittoria ancora parziale, perché troppi, nelle pieghe profonde della società, restavano le condizioni e gli orientamenti che il fascismo avevano alimentato, a lungo l’antifascismo è stato incapace di ripensare la storia nazionale, di riflettere sulle sue debolezze e sulle sue tare, di cui il fascismo aveva voluto essere una risposta, distorta ma pur sempre risposta.

Le condizioni dell’oggi costituiscono un amaro risveglio. Non perché sia il fascismo a rappresentare un pericolo, ma perché riemergono in condizioni nuove e impensate, tare, ritardi, pulsioni antiche, che si aggiungono e si sommano alla paure e alla incertezze indotte dalla globalizzazione, dalla precarietà della condizione giovanile, dall’avanzare di forme di individualismo selvaggio, dalla prospettiva del formarsi di società composite, multietniche e multireligiose, che l’inarrestabile immigrazione dal terzo mondo comporta. Da qui la tendenza al ripiegamento identitario, il rifiuto intollerante del diverso, la disinvolta manomissione delle regole della legalità repubblicana, il riemergere di tentazioni nazionalistiche, prive di ogni sintonia con i processi sociali in corso e incapaci dunque di leggerne l’andamento, di padroneggiare e regolare positivamente le nuove e complesse prospettive aperte al nostro futuro da problemi che sono problemi planetari e globali.

È alla luce di tale realtà che ogni minimizzazione del significato profondo della Resistenza, ogni affievolimento della comprensione di ciò che l’antifascismo e la sua lotta hanno rappresentato nella nostra storia, costituirebbe una perdita secca, privando il nostro presente di riferimenti ideali essenziali per rispondere alle sue sfide. Non si tratta di ricreare dei miti, né di riproporre nell’oggi forme di contrapposizione antiche, per le quali mancano i termini del confronto reale. Altre sono le questioni che premono, altre le minacce che incombono, altra dunque è la posta in gioco. Sono persuaso però che solo il pieno recupero di quei valori umani e civili, che sono stati componenti fondanti della Resistenza e dell’antifascismo, che hanno ispirato e guidato gli autori della nostra Costituzione, può aiutare a trovare una via d’uscita alle pesanti difficoltà del presente.
È un grande sforzo collettivo che si rende oggi necessario. In quei valori antichi sta una delle chiavi del suo successo.
Sono questi l’augurio e la speranza che devono animare questa nostra giornata.