Giovanni Gentile

La filosofia del pugnale

 

Recentemente giornali e televisione hanno ricordato l'anniversario della morte del filosofo Giovanni Gentile, gustiziato a Firenze, nel 1944, dai GAP.

Il quadro storico proposto in genere è stato questo: Gentile era un uomo mite, un filosofo, l'ideatore della prima vera riforma della scuola (che, aggiungiamo, comunque era più seria di quella varata da donna Letizia), che tra il '43 e il '44 cercò addirittura di svolgere un ruolo di pacificazione nazionale: la sua morte fu dunque un atto di inutile ferocia da parte dei partigiani comunisti.

A proposito di questo presunto tentativo di risparmiare altre sofferenze all'Italia, chiamando coloro i quali avevano aderito alla Repubblica Sociale e, viceversa, alla Resistenza, a dialogare per il bene comune della Patria, va ricordato (cosa che la tv si è ben guardata dal fare) che Gentile nel rivolgere questo appello sottolineò come questa riconciliazione potesse avvenire sotto la guida "del grande Führer". E quanto all'attività di filosofo, essa fu certamente di grande interesse, collocando Gentile fra i pochi pensatori italiani di rilievo del '900, ma ciò non fa che aggravare enormemente le sue responsabilità: se tra i "ragazzi di Salò" molti furono in buona fede, o semplicemente non poterono (dopo vent'anni di formazione e informazione a senso unico) farsi un'idea precisa della reale situazione, le loro vite bruciate sono appunto il frutto di ciò che fecero (o non fecero) gli intellettuali, a cominciare da quelli di primo piano. E su questo aspetto suggeriamo vivamente il bellissimo libro di Giorgio Boatti Preferirei di no, Einaudi, che racconta la storia dei pochissimi professori universitari (dodici!) che negli anni '20 rifiutarono di prendere la tessera del PNF.

L'agghiacciante documento che qui riproduciamo (pubblicato da l’Unità del 29.5.04), oltre a dar conto della finezza intellettuale di Gentile, è appunto una testimonianza esemplare di come la cultura - al servizio del potere - possa avere una funzione terribile e devastante.

[...] In base ai suddetti principi l'aggressione era diretta soltanto a sollecitare interiormente l'On. Matteotti e persuaderlo a consentire, cioè a farla finita con la sua campagna contro il Governo nazionale. La forza usata da Amerigo Dumini e compagni si rivolgeva, dunque, alla volontà dell'On. Matteotti ed era perciò forza morale in nulla dissimile da quella che si esercita facendo una predica. Se Amerigo Dumini e compagni invece di ricorrere a una predica ricorsero al coltello ciò si deve alla nota ostinazione del predetto onorevole che faceva prevedere vana ogni parola diretta a persuaderlo perché mutasse contegno.
Nel caso concreto non la predica ma il manganello era l'argomento adatto.
Si obietterà, che non il manganello, ma il pugnale fu adoperato. È facile rispondere che dal punto di vista filosofico non si può distinguere tra oggetti materiali: distinguere tra manganello e pugnale sarebbe filosoficamente tanto erroneo quanto distinguere tra pugnale di una forma e pugnale di altra forma.
Si aggiunga che dato lo spazio dell'automobile, il maneggio del manganello era incomodo. Usando il pugnale Amerigo Dumini e compagni usavano dunque un argomento filosoficamente lecito di polemica.
Se il Governo nazionale incarna oggi lo Stato italiano, se lo Stato è moralità, moralissima fu la violenza diretta a togliere di mezzo chi ponendosi contro il Governo Nazionale si poneva contro lo Stato, e quindi contro la moralità...
Se l'On. Matteotti non voleva morire, non aveva che a consentire, cioè a cedere. Consentire non volle. Morì. Sua colpa è suo danno.
Al lume della mia filosofia l'innocenza di Amerigo Dumini e compagni luminosamente rifulge.

(dal settimanale fascista senese Rinascita del 17 settembre 1944, che riporta stralci della lettera indirizzata nel 1925 dal filosofo Giovanni Gentile alla Sezione di accusa di Roma in riferimento all'uccisione di Giacomo Matteotti)