Internati militari italiani nei campi nazisti

Nel mese di settembre e nei successivi mesi del 1943, anche per molti soldati si consuma la tragedia dell'internamento in Germania.
Lasciati senza ordini dai comandi militari e catturati dai tedeschi, vengono inviati negli Stalag in Germania e privati di ogni protezione internazionale: circa 800.000 soldati italiani vengono catturati e disarmati dai tedeschi. Si trovano in patria o all'estero, tra Iugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell'Egeo, Polonia, paesi baltici e Unione Sovietica. Di questi, circa 650.000 finiscono, dopo viaggi interminabili in nave (non poche sono quelle che affondano) e nei famigerati vagoni piombati, nei campi di prigionia tedeschi in Germania, Austria ed Europa orientale.

I militari italiani internati furono 650.000, dei quali 40.000 perirono nei lager. I prigionieri italiani non erano trattati secondo gli accordi internazionali sui prigionieri di guerra, erano mal nutriti e obbligati a lavorare.
Gli internati sono costretti ad una condizione di vita miserevole, stipati nelle baracche in condizioni disumane, sottoposti a lunghe ed estenuanti "conte" all'aperto e a continue angherie; la loro alimentazione quotidiana è costituita da un litro di acqua e rape, 200 grammi di pane nero e 20 grammi di margarina.
Ad essi viene offerta la possibilità, con un allettante e capillare opera di propaganda, di aderire alla Repubblica sociale e di rientrare subito in Italia per continuare la guerra a fianco dei tedeschi.
Periodicamente veniva proposto l'arruolamento nei reparti della Repubblica Sociale Italiana, ma il 90% dei soldati e il 70% di ufficiali si rifiutarono. Una parte dei militari che avevano aderito alla RSI, una volta rientrati in Italia si nascosero o si arruolarono nelle formazioni partigiane. Non sono stati rari i casi di prigionieri militari inviati a lavorare nei campi di sterminio e trattati alla stessa stregua dei prigionieri politici.

Non si conosce il numero esatto dei militari della Regione Friuli - Venezia Giulia internati, anche se stime approssimative indicano la cifra di 30.000 uomini. Sappiamo però che perdono la vita negli Stalag 1.200 soldati per gli stenti, le violenze, le malattie, i bombardamenti; 167 muoiono nei campi di sterminio dove vengono inviati per i più disparati motivi, ma in generale per essersi ribellati alla angherie e ai soprusi tedeschi.

Gli internati militari in Germania hanno la qualifica ministeriale di "Volontari della Libertà", così come i partigiani.

Le vittime dei lager saranno, alla fine della guerra, tra le 40 e le 50.000.

 

Oltre ai militari gli italiani deportati nei campi di concentramento e di sterminio furono circa 40.000, di cui circa 29.000 erano politici e circa 7.000 ebrei.
Dopo la terribile esperienza dei lageri ritornarono in Italia alla fine del conflitto soltanto 4.000 persone: 36.000 morirono invece di stenti, sevizie o nelle camere a gas dei lager nazisti.

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G. Oliva

i militari italiani internati nei lager nazisti

 

I 650.000 militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre e internati nei lager nazisti erano una parte del prezzo della guerra fascista: non il primo e non l'ultimo, ma certo il più oneroso e drammatico.

La Germania hitleriana non poteva né intendeva consentire al ritiro dell'Italia dalla guerra, né perdere i vantaggi strategici ed economici derivanti dal controllo della penisola; e i rapporti di forza nel teatro mediterraneo nell'estate 1943 assicuravano alla Wehrmacht una netta supremazia nei Balcani e nell'Italia centro-settentrionale. Le truppe italiane dislocate nella penisola balcanica, nell'Europa orientale, in Francia erano comunque destinate ad essere sopraffatte dalle forze tedesche, superiori per armamento, mobilità, appoggio aereo e possibilità di rinforzi. Se il sacrificio di tanta parte delle forze armate era inevitabile, il prezzo fu però pagato nel modo peggiore. L'8 settembre il re e Badoglio, preoccupati soltanto di salvaguardare la continuità della monarchia e del governo assicurata con la firma dell'armistizio, lasciarono truppe e popolazione senza direttive chiare dinanzi alla pronta e bene organizzata reazione tedesca.

Governanti più consapevoli della loro responsabilità, nel difficilissimo momento del rovesciamento di alleanze, avrebbero dovuto assumersi l'onere di ordinare esplicitamente alle truppe di combattere contro il nuovo nemico, oppure di arrendersi senza spargimenti di sangue là dove una resistenza era impossibile (come nei Balcani): qualsiasi direttiva sarebbe stata preferibile alla mancanza di direttive, che, scaricando la scelta della direzione in cui sparare su anziani ufficiali educati all'obbedienza e non a decisioni politiche di questo livello, aggiungeva una tragica crisi morale al disastro materiale. Il compito delle forze tedesche Fu così grandemente facilitato: le truppe italiane furono non solo disarmate e fatte prigioniere, ma anche umiliate e gli episodi circoscritti di resistenza armata rapidamente stroncati e duramente pagati (Cefalonia insegna).

Non si conosce con esattezza il numero dei militari italiani catturati dai tedeschi nei giorni successivi all'8 settembre: confrontando le cifre ufficiali italiane del 1946/47 con quelle tedesche e con dati di singoli reparti, si arriva a un totale, generalmente accettato come orientativo, di 650.000 uomini. Di questi, 550.000 furono deportati nei lager di Germania e Polonia e 100.000 trattenuti nei Balcani, in parte in lager veri e propri, in parte alle dipendenze dirette dei reparti tedeschi.

Questi 650.000 internati militari (come li definirono i tedeschi, negando loro la qualifica di prigionieri di guerra in quanto sudditi dell'alleata repubblica di Salò) avrebbero potuto reputarsi traditi dal regime fascista, dalla monarchia, dal governo Badoglio, dai loro comandanti che non avevano saputo reagire alla crisi dell'armistizio, e pensare quindi al proprio interesse immediato, venendo a patti con i tedeschi.
Tuttavia, posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia (che per i soldati comportava il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni) e l'adesione al nazifascismo (che apriva la via al ritorno a casa e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle condizioni di vita), in grande maggioranza preferirono la fedeltà alle istituzioni e rivendicarono la loro dignità di uomini con una tenace resistenza al nazi-fascismo. Scelsero quindi di restare nei lager in condizioni durissime, che circa 40.000 di loro pagarono con la vita.



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L'internamento dei soldati

I soldati vissero il trauma della cattura e della deportazione in carri bestiame e l'impatto con il sistema concentrazionario nazista in modo non diverso dagli ufficiali: fame, stenti, sistemazioni in baracche inadeguate e affollatissime. Anche a loro fu offerto l'arruolamento nell'esercito nazista o in quello di Salò, seppure con pressioni minori (mentre l'adesione degli ufficiali aveva un rilevante valore politico, quella dei soldati creava piuttosto problemi di inquadramento senza procurare benefici di rilievo sul piano dell'immagine): come al solito, mancano dati precisi, ma il totale dei volontari non dovette superare il 10%.
La differenza sostanziale era rappresentata dal lavoro forzato: mentre gli ufficiali furono costretti a lavorare solo nei termini già indicati, i soldati, sin dall'inizio della loro prigionia, vennero obbligati ad un lavoro massacrante di dodici ore quotidiane per sei giorni la settimana. Nel 1943/44 quasi tutti i tedeschi tra i 18 e i 50 anni erano arruolati nella Wehrmacht o nelle varie organizzazioni naziste militari e paramilitari: la produzione industriale e agricola nel Reich dipendeva ormai dalla disponibilità di milioni di braccia straniere, lavoratori civili più o meno volontari, lavoratori coatti prelevati con la forza generalmente nei paesi slavi, prigionieri di guerra, deportati politici ed ebrei. Tra questi milioni di lavoratori erano mantenute rigide divisioni e differenze di trattamento anche notevoli, specie per vitto e disciplina, ma anche i più fortunati erano privati della libertà individuale e costretti ad un lavoro pesante, con la costante minaccia di percosse e di punizioni: era un enorme esercito di schiavi, impiegati quasi soltanto per la loro forza fisica.

I soldati italiani entrarono a far parte di questo esercito a un livello inferiore rispetto ai lavoratori civili e superiore rispetto ai deportati politici e razziali. Quelli che non furono destinati al lavoro nelle fabbriche, vennero impiegati nella manutenzione delle linee ferroviarie, nei lavori agricoli e forestali, nella costruzione di fortificazioni, nello sgombero di macerie, nel caricamento e scaricamento di navi e di treni. 
La sorte peggiore fu probabilmente quella dei soldati destinati a lavorare nelle miniere di carbone in Renania e in Slesia, dove il lavoro era massacrante, il trattamento pessimo e la disciplina durissima. Un numero imprecisato di soldati conobbe anche gli orrori dei più tristi campi di deportazione: almeno un migliaio di internati furono destinati a Dora, sottocampo di Buchenwald, per la preparazione di installazioni sotterranee e poi per la fabbricazione delle bombe V1 e V2: si sa inoltre che 1800 detenuti del penitenziario di Peschiera furono inviati a Dachau e che in gran parte soccombettero.

L'accordo Hitler-Mussolini dell'estate 1944, che trasformò i militari internati in lavoratori civili, non ebbe ripercussioni particolari tra i soldati. Con ogni probabilità, in molti lager i tedeschi non si curarono di informare gli internati, procedendo d'autorità alla loro "civilizzazione", e in altri lo presentarono come una semplice formalità burocratica: nella sostanza, comunque, nulla cambiava, perché i soldati avrebbero continuato a lavorare come prima. Va tuttavia sottolineato che, nonostante le pressioni dell'ambiente, le durezze delle condizioni di vita e l'oggettiva difficoltà ad organizzarsi per la dispersione nei vari "Arbeitskommando", il l° gennaio 1945 (secondo fonti tedesche) 69.300 fra soldati e ufficiali persistevano nel rifiuto di firmare il provvedimento di "civilizzazione": una forma di resistenza marginale, ma di estremo valore ideale perché condotta soltanto in nome della propria dignità di uomini e di soldati.
Per quanto riguarda gli ultimi mesi di prigionia, la liberazione, l'attesa del rimpatrio e infine il ritorno in Italia, le vicende dei soldati furono simili a quelle degli ufficiali. Sul fronte orientale, la liberazione fu però segnata da brutali massacri da parte dei tedeschi ormai in rotta: 130 soldati furono impiccati a Hildesheim il 27 e 28 marzo, una trentina fucilati a Bad Gandersheim in aprile, 150 a Treunbrietzen il 23 aprile. Valgano questi drammatici episodi come ammonimento a non dimenticare gli altri eccidi di prigionieri italiani perpetrati dai nazisti nei territori balcanici e orientali, che la memorialistica non può documentare.

grazie a:  G. Oliva, Appunti per una storia di tutti, prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Consiglio Regionale del Piemonte, Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Torino, 1982


collegamenti:

Museo Nazionale dell'Internamento

Gli schiavi di Hitler