inizio rosso e giallo


Ray Bradbury


Su di lui hanno detto di tutto: barocco, crepuscolare, mistico, decadente.
Eppure è il più grande scrittore di fantascienza: Cronache marziane, Fahrenheit 451 (e il bellissimo film di Truffaut, del 1966), L'uomo illustrato...
Sempre ai confini della realtà, comunque, in quella zona dove...
Mistero è la chiave di tutto. Le cose che non conosciamo, le domande che riusciamo a farci.
E quindi anche un horror profondo, senza dover ricorrere a troppa macelleria, ma per ghiacciare le vene ai polsi. Molto dopo mezzanotte è il titolo assolutamente intelligente di una sua raccolta.

Ma all'inzio Bradbury pensava più al poliziesco che ad altro, e qui sotto ci racconta com'è andata.
Fece anche lo sceneggiatore, cominciando addirittura con il Moby Dick di John Huston (1956).

Ancora una cosa: Bradbury è stato uno degli scrittori americani che meglio ha parlato di bambini e adolescenti (prima di lui Mark Twain, e poi il grande Stephen King di It e di Stand by me), con toni lievi e crudeli. Già, perché Bradbury sa quanto di poetico (e dunque di drammatico, micidiale) c'è nei piccoli uomini.
E Il piccolo assassino (Small Assassin, 1946; in Omicidi di annata) è uno dei racconti gialli (fantasy, horror) più belli e terrificanti che siano mai stati scritti.

La sua produzione poliziesca, che sconfina sempre in territori d'ombra, è comunque molto ridotta:

  • Omicidi di annata (A Memory of Murder, 1984), Mondadori, 1986, 2017; l'Unità, 1993 - raccolta che comprende: Il piccolo assassino, Morte di un uomo prudente, Un po' di cenere grigia, Il grassone e l'estintore, La lunga notte, I siamesi, Un'infernale mezz'ora, È lunga la strada per casa, Veglia al vivo, Sono mica stupido io!, La Signora nel baule, Vissi ieri!, I morti non risorgono, Il teschio di zucchero
  • Morte a Venice (Death Is a Lonely Business, 1985), Rizzoli, 1987; Mondadori, 2018; o La morte è un affare solitario, Fazi, 2000
  • La follia è una bara di cristallo (A Graveyard for Lunatics, 1990), Rizzoli, 1990, Fabbri, 1995; o Il cimitero dei folli, Mondadori, 2003
  • Constance contro tutti (Let's all Kill Constance, 2003), Mondadori, 2003

 

 

Ray Bradbury

Hammett? Chandler? Non vi preoccupate!

Agli inizi degli anni Quaranta, quando le mie prime storie gialle cominciarono ad apparire su Dime Detective, Dime Mystery Magazine, Detective Tales e Black Mask, non suscitarono alcuna eco preoccupata nel campo che era di Hammett - Chandler - Cain. (Il peggio è che neanche in seguito accadde qualcosa del genere.) Non rappresentai mai una minaccia. Non potevo, per citare le immortali parole di Brando, aspirare a essere uno dei contendenti.
Ero uno che sopravviveva, comunque, e uno dei miei eroi era Leigh Brackett, (1) con cui mi incontravo tutte le domeniche, a mezzogiorno, a Santa Monica, alla Spiaggia dei Fusti, per leggerle le mie tristi imitazioni delle sue storie su Stark di Marte o le mie copie carbone delle sue storie gialle di prim'ordine che stavano cominciando a essere pubblicate in tutte le riviste summenzionate. Avrei voluto giacere sulla spiaggia e piangere di gelosia per quanto facilmente i suoi personaggi scivolavano di pagina in pagina, rischiavano la vita, morivano o vivevano per rattristarsene a morte. Non so come faceva a capirci qualcosa nelle mie prime agoniche invenzioni. La parola amicizia era il lubrificante che oliava il meccanismo.
Leigh Brackett sapeva che volevo diventare uno scrittore con tutto il mio cuore, l'anima, i visceri. Non avevo ancora trovato una mia cifra stilistica, comunque stavo cominciando a trovare una delle mie verità nei racconti soprannaturali e in quelli di fantascienza, ma mi sentivo un po' in imbarazzo. Leigh era la mia amata maestra, e io dovevo liberarmi dalla sua influenza sia creativamente sia strutturalmente.
La maggior parte delle storie qui raccolte furono scritte per farle piacere, per averne un occasionale «Ben fatto» o, una volta tanto, un «Questo è il migliore».
Torniamo indietro nel tempo. L'anno in cui lasciai le superiori di Los Angeles, mi costrinsi alla disciplina di scrivere una storia la settimana per il resto della mia vita. Sapevo che senza quantità non ci sarebbe stata qualità. A quel tempo sentivo che le mie storie erano così brutte che solo la pratica quotidiana avrebbe ripulito la mia testa da tutta la chincaglieria inutile per lasciarvi solo il meglio. Contemporaneamente, cercavo di ammassare più esperienze letterarie possibili nei miei occhi - buone, cattive, neutre o eccellenti - sì che alla fine qualcosa di buono sarebbe balzato fuori da solo dalla punta delle mie dita.
Tutti i lunedì scrivevo una prima stesura di una qualsiasi storia che mi passava per la testa. Martedì ne scrivevo la seconda. Mercoledì, giovedì e venerdì seguivano la terza, quarta e quinta versione. Il sabato spedivo quella finale. Mi abbandonavo sulla spiaggia la domenica, per quel solo giorno, con Leigh, e il lunedì iniziavo un nuovo racconto. È andata avanti così per circa quarantaquattro anni. Ancora adesso scrivo una storia la settimana, o il suo equivalente. Vale a dire scrivo sette o otto poesie la settimana, oppure una commedia in un atto, o tre capitoli di un nuovo romanzo, o un saggio. Produco adesso lo stesso numero di pagine di tanti anni fa: qualcosa che sta fra le diciotto e le trentadue cartelle a settimana.
Però ci tengo ad assicurarvi che non si tratta di un atto meccanico. Né lo faccio per il profitto. Non me ne curo. Amo quello che faccio, come una madre può amare i suoi bambini, per quanto comuni o brutti essi siano. I miei figli potranno piacervi o meno, ma quando li ho creati io era un periodo in cui aravo con la mia macchina per scrivere e mietevo paragrafi su paragrafi. Dio protegge i giovani scrittori così che loro non si rendano conto di quanto squattrinati siano in quel momento. Questo succede quando la quantità è tutto. Le buone storie che scriverete in seguito saranno un ombrello da mettere su tutto il cattivo materiale che scoprirete di esservi lasciati alle spalle lungo gli anni. E così tutto si equilibra. E, se vi piace scrivere, sarà tutto un gioco.
Ne consegue che la narrativa gialla, così come i generi fantastici, scientifici o soprannaturali, sono una sorta di scherzo personale. Il mio talento si è sviluppato velocemente in questi generi perché è del tipo intuitivo. I miei concetti soprannaturali, fantastici, fantascientifici, arrivavano come lampi di luce e bussavano alla mia testa dopo che erano giunti alla macchina per scrivere. I racconti gialli invece, poiché necessitano di un duro lavorio mentale, impedivano questo flusso, danneggiando così la mia abilità nel'usare l'intuizione al massimo grado. Era come se mi costringessero a camminare con un piede legato. Oggi, ad anni di distanza, con un'enorme conoscenza nel settore, avendo nel frattempo appreso la lezione da Ross Macdonald, sono convinto che riuscirei a fare molto meglio. E lo so così bene, aggiungo, da aver da poco terminato il mio primo romanzo giallo, Death Is a Lonely Business.

Ma veniamo ai racconti qui antologizzati. [Questo testo è l'introduzione all'ottima raccolta pubblicata in Italia da Mondadori, nel 1984, Omicidi d'annata]
Per primi, i titoli. Avrei voluto cambiarne qualcuno di quelli che avevo a suo tempo scelti per le riviste popolari, semplicemente perché non mi piacevano quelli che i direttori delle varie riviste avevano appiccicato alle mie storie senza chiedermene il permesso. In fin dei conti, alcuni di loro non sono esattamente esempi da citare su come scrivere titoli. Rimasi esterrefatto quando quei direttori lasciarono passare titoli miei quali La Signora nel baule e La lunga notte.
Quello che troverete in questa antologia è la registrazione del modo in cui scrivevo e di come cercavo di sopravvivere agli inizi degli anni Quaranta, con Leigh Brackett che cercava di aiutarmi pur mantenendosi ai margini. Mi dibattevo, mi agitavo, a volte persi, a volte vinsi. Ma ci stavo provando. Forse questo volumetto ha un interesse storico solo per quei pochi che nutrono una grandissima curiosità per il mio lavoro in un campo che non ho molto arato, ma lasciate almeno che vi citi i miei favoriti, che sono La lunga notte e La Signora nel baule, e aggiungeteci pure Il piccolo assassino, che mi sembra essere una delle migliori storie che io abbia mai scritto in qualsiasi campo letterario. Ebbe così tanto successo che credo abbia influenzato una decina di romanzi e di film, fra quelli scritti e prodotti nell'ultima decade.
Per quanto riguarda gli altri racconti, dovete solo leggerli e giudicarli. Ma spero che lo farete con benevolenza e che mi tratterete con indulgenza. Ero, dopotutto, un ventenne con ancora tanta strada da percorrere, con Hammett e Chandler e Cain che torreggiavano lontani, laggiù all'orizzonte, mentre io me ne stavo sulla spiaggia a sudarmela e ad assorbire consigli da Leigh Brackett. Spero che il suo caro fantasma non se la prenda se questo libro, e i racconti che esso contiene, sono dedicati a lei con amore.

febbraio 1984

(1) Leigh Brackett (1915-1978), scrittrice americana specializzata soprattutto in fantascienza, per la quale ha scritto numerosi romanzi e racconti. Ha esordito nel 1940 conquistandosi subito un posto di rilievo in questo genere letterario. Si era sposata nel 1946 con lo scrittore Edmond Hamilton. Ha lavorato molto anche per il cinema, specie per Howard Hawks, scrivendo diverse sceneggiature fra le quali ricordiamo quelle per II grande sonno, Il lungo addio e Un dollaro d'onore. [N.d.T.]


Enrico Assante

Addio a Ray Bradbury maestro di sogni


L'autore di "Cronache marziane" e "Fahrenheit 451" aveva quasi 91 anni. Ha fatto viaggiare nel tempo e nello spazio milioni di lettori in tutto il mondo. Ha raccontato il futuro, ma non amava essere definito uno scrittore di fantascienza

"Immaginate un bambino di quasi nove anni che, seduto sulla soglia spalancata di una notte estiva, sparpaglia attorno a sé la sua raccolta di fumetti di Buck Rogers, con Buck e Wilma sul Pianeta Rosso. Il ragazzo raccoglie e legge un altro capitolo degli "Dei di Marte" di Edgar Rice Burroughs (...) Ora spalanca gli occhi e le labbra muovono silenziose parole pronunciate in un sussurro. "Marte. Oh Marte, portami a casa!". E dal suo corpo, l'anima scivola via silenziosa per navigare dolcemente verso Marte e non tornare più. Chi era quello strano e curioso ragazzino fermo nella distesa notturna di quel vuoto 1930? Potreste essere voi, posso essere io. Sì, io Raymond Bradbury, nato il 22 agosto del 1920 a Waukenag, Illinois, destinato a viaggiare su Marte e da quella notte non tornare più."

Ray Bradbury ci ha lasciato, ma in tanti, in milioni, per tantissimi anni, hanno viaggiato nel tempo e nello spazio con lui, hanno visto mondi lontani, hanno vissuto avventure fantastiche, attraverso i suoi libri e in tanti, per moltissimi anni ancora, continueranno a farlo, perché le sue storie continueranno ad essere lette.

Bradbury aveva 91 anni. Quando ne aveva compiuti 85, amava dire, ridendo: "Non sono molti se usciamo da una prospettiva terrestre. Quando mi guardo allo specchio, la persona che ho di fronte è un giovane ragazzo, con la testa ed il cuore pieni di sogni ed eccitazione e un inarrestabile entusiasmo per la vita. Certo, ha i capelli bianchi, e allora? Spesso la gente mi chiede come faccio a restare così giovane e la risposta è semplice: basta vivere una vita in cui ti mescoli con qualsiasi tipo di attività, qualsiasi tipo di metafora, qualsiasi tipo di amore. E nella quale trovare il tempo di ridere, trovare ogni volta qualcosa che ti rende veramente felice, ogni giorno della tua vita. E questo è quello che ho fatto io, dai miei primi giorni ad oggi. E per mia fortuna sono stato sostenuto dalla passione, soltanto passione. E' un dono divino, non ha nulla a che vedere con la disciplina o con qualche regola. Io scrivo senza regole precise. Credo che proporsi preventivamente un piano uccida la creatività. Io le storie le voglio vivere mentre le scrivo".

È stato uno straordinario scrittore Ray Bradbury, uno dei più importanti e influenti del secolo scorso. Ci ha fatto sognare, viaggiare nel tempo e nello spazio, ci ha parlato di noi raccontando il futuro, ha immaginato cose che sono diventate realtà, ha capito prima e meglio di altri l'evoluzione delle tecnologie e come avrebbero cambiato la nostra vita. Non ha mai avuto paura delle cose sconosciute, non ha mai temuto il diverso, il nuovo, l'inatteso. E ha trasformato tutto questo in racconti, romanzi, articoli, studi e soprattutto in storie. Storie che, badate bene, non erano di "fantascienza": "Quei romanzi li leggi quando sei giovane, e io all'epoca ho divorato H. G. Wells. Poi cresci e leggi Shakespeare. Io ho scritto solo un libro di fantascienza, Fahrenheit 451. Il resto, i miei romanzi, i miei racconti, sono fantasy. La fantasy racconta cose che non possono accadere. La fantascienza racconta cose che possono, invece, accadere. Fahrenheit 451 è l'unico libro che ho scritto in cui parlo di cose che sono accadute o che possono accadere davvero. Per questo è un libro ancora attuale, e non solo per i temi legati alla censura, alle dittature che ancora nel mondo pensano di poter controllare il pensiero umano, decidendo cosa i cittadini possono leggere e cosa no. Lavorai a Fahrenheit 451 mentre Joseph McCarthy stava facendo vivere un brutto periodo a molta gente e la sua commissione non lavorava davvero secondo i dettami della nostra democrazia. Finii di scrivere il racconto e, visto che avevo bisogno di soldi perché la mia famiglia stava crescendo, pensai di venderlo a qualche rivista, prima della pubblicazione su libro, ma tutti quelli a cui la feci leggere avevano paura a pubblicarla per timore di finire proprio sotto le grinfie di McCarthy e della sua commissione. Finché venni contattato da un giovane editore. Mi disse che stava lanciando una nuova rivista, che aveva bisogno di materiali interessanti e che stava contattando una serie di scrittori. Mi disse anche che aveva poco, pochissimo denaro, ma che aveva letto quello che scrivevo e amava molto il mio stile. Poi fece una pausa. E aggiunse che poteva spendere solo 400 dollari. Io gli dissi che per quella cifra poteva avere un mio nuovo racconto, prima che lo pubblicassi su libro. Così Fahrenheit 451 uscì sul secondo, sul terzo e sul quarto numero di Playboy".

Fahrenheit 451, il capolavoro di Truffaut

Avesse scritto anche soltanto quel libro Bradbury avrebbe meritato il successo che ha avuto. Ma di libri ne ha scritti molti di più, diverse centinaia, dall'esordio nel 1938 fino ad oggi. Libri che non sono fatti di robot, di macchine speciali, di invenzioni fantasiose, ma piuttosto di sentimenti, di passioni e di tensioni: "Il mio lavoro, in realtà, è quello di aiutarvi a farvi innamorare. Innamorare della vita, delle meraviglie del mondo che abbiamo attorno, delle persone che incontrate, delle scoperte meravigliose che ognuno di noi fa nel corso della sua vita". E infatti Bradbury non era legato alle tecnologie, non possedeva un'automobile, per molti anni non è salito su un aeroplano, non ha mai amato i cellulari e tantomeno Internet. Della tecnologia ha raccontato i rischi e i pericoli, non insiti nella tecnologia stessa ma nel modo in cui l'uomo tende ad usarla: "Ricordo una notte, nell'estate del '46 o del '47, quando i nostri scienziati stavano per fare il primo esperimento di superbomba in un atollo e nessuno, nemmeno i tecnici che l'avevano messa a punto, conoscevano tutte le possibili conseguenze di quella esplosione. Quella notte mi convinsi che lo sviluppo tecnologico ci stava portando dalla parte sbagliata. Molti dei miei pensieri di allora sono finiti nelle Cronache marziane. Certo, con gli anni ho cambiato idea, le cose sono migliorate, e molte scoperte sono state utilissime per l'uomo. Oggi ho un buon rapporto con la tecnologia. Insomma, non è la tecnologia il problema, ma il modo in cui la si usa".

È stato un pensatore creativo, un conservatore in politica, un polemista accanito. I suoi pensieri sono raccolti in un libro, una raccolta di saggi intitolata Too Soon from the Cave, Too Far from the Stars, titolo ricavato da una frase che Bradbury diceva spesso, riferita all'uomo e all'esplorazioni spaziali: "Siamo usciti troppo presto dalle caverne e siamo ancora molto lontani dalle stelle. Andare nello spazio, cercare di scoprire parti sempre più grandi dell'universo fa parte del nostro sforzo per diventare immortali. Non ci fermeremo. Noi siamo figli di questo universo, non solo della Terra, di Marte o del nostro sistema solare, ma di tutto l'universo. E se siamo interessati a scoprire com'è questo universo è solo perché conosciamo il nostro passato e ci preoccupiamo terribilmente del nostro futuro". E aggiungeva "Predire il futuro è troppo facile, basta guardare la gente attorno a te, la strada dove vivi, l'aria che respiri, e predire che sarà ancora così. Al diavolo! Voglio di meglio".

Chissà se qualche abitante di un pianeta lontano arriverà mai sulla terra. Bradbury ha immaginato più volte che altri esseri, di galassie lontane potessero arrivare, prima o poi sulla terra. "Il problema è sapere quanto tempo, dopo la nostra scomparsa, arriverà qualcuno a scoprire chi siamo stati. E a seconda di quello che troverà penserà di noi che siamo stati grandi o pessimi. Se troverà solo le scorie nucleari il ricordo che ci sarà di noi non sarà granché. Se troverà i libri, l'arte le costruzioni, potrà dire che gli esseri umani hanno fatto il loro tempo sul pianeta terra".
Se troverà i libri di Ray Bradbury saprà che l'essere umano sapeva davvero sognare.

la Repubblica, 06 giugno 2012