inizio rosso e giallo


James Crumley


James Arthur Crumley (1939-2008) è stato il principale autore hard bolied degli anni '80 e '90.

Tutte le sue opere sono in corso di pubblicazione, con nuove traduzioni, per Einaudi Stile Libero.

  • Uno per battere il passo (One to Count Cadence, 1969), Esedra, 1998
  • Il caso sbagliato (The Wrong Case, 1975), Mondadori, 1993, 1995; Einaudi, 2008
  • L'ultimo vero bacio (The Last Good Kiss, 1978), Mondadori, 1981, 1996; Einaudi, 2004
  • Dalla parte sbagliata (Dancing Bear, 1983), Interno Giallo; Mondadori, 1994; o La cattiva strada, Einaudi, 2010
  • L'anatra messicana (The Mexican Tree Duck, 1993), Baldini Castoldi Dalai, 1994; Mondadori, 1999
  • Il confine dell'inganno (Bordersnakes, 1996), Mondadori, 1997
  • Sorgenti calde (Hot Springs, 1996), in Black Kiss - 16 storie gialle, Mondadori
  • La scrofa messicana (The Mexican Pig Bandit, 1999), in: The Dark Side, Einaudi, 2006
  • La terra della menzogna (The Final Country, 2001), Einaudi, 2002
  • Ostaggi (Hostages, 2003), in Gli occhi della paura, Piemme, 2006
  • Una vera follia (The Right Madness, 2005), Einaudi, 2006

Il caso sbagliato a suo tempo passò quasi sotto silenzio: l'ennesimo hard boiled... E invece di questo genere/sottogenere rappresentò una sorta di pietra tombale: Spade, Archer, ma anche Hap & Leonard o il mediterraneo Fabio Montale, investigatori antieroici e spesso sfortunati, acquistano quasi un sapore epico e avventuroso di fronte alle miserabili qualità dei personaggi di Crumley: detective privati senza arte nè parte, costantemente alle prese con delitti idioti, squallidi drammi familiari, "cattivi" di poco prezzo.

Ma per mettere a fuoco Crumley forse la cosa migliore è leggere le prime righe di quel romanzo:
Bravo chi sa spiegarle, le leggi. O come siano state cambiate dal tempo e dagli uomini. Per quasi ottant’anni, dalle nostre parti, l’unico modo per ottenere un divorzio era che uno dei coniugi finisse in galera per qualche reato o si facesse beccare in flagrante adulterio. La violenza fisica o la malattia mentale non contavano niente. E, nei dieci anni successivi alle mie dimissioni da vicesceriffo di contea, quelle antiquate leggi sul divorzio erano servite a riempirmi le tasche. Poi l’assemblea legislativa dello Stato, in un vortice di attivismo al termine di una seduta straordinaria, le aveva modificate lasciandomi in brache di tela. Adesso, da noi, i matrimoni possono terminare per divergenze inconciliabili. Entrambi gli schieramenti, favorevoli e contrari, erano rimasti più che spiazzati dall’imprevista iniziativa del legislatore, ma non tanto quanto il sottoscritto, che aveva passato i due giorni seguenti in ufficio, con un consistente malumore, a bere e godersi il panorama, soppesando un futuro che si presentava inaspettatamente buio. E il panorama aveva un’aria di gran lunga più piacevole delle mie prospettive.

Il mio ufficio ha sede al terzo piano del Milodragovitch Building. Ho ereditato il palazzo da mio nonno, ma gran parte dei profitti finisce nelle tasche di una società di gestione immobiliare, in quelle della mia prima moglie e in quelle degli eredi della seconda. A me sono rimasti un affitto vantaggioso e un fantastico panorama. Fantastico, certo, almeno quando il vento dell’est non ci massacra con i fumi della cartiera, o quando un’inversione termica non tappa la Meriwether Valley come un tappo su un pozzo solforoso. Dalle finestre a nord il mio sguardo può spaziare per tutto il bacino di scolo di Hell-Roaring fino ai tre acri di bosco, appena sotto le cime più basse del Diablo Range, che ho anch’essi ereditato da mio nonno. E dalle finestre a ovest, se non faccio caso alla squallida periferia occidentale di Meriwether, la vallata si stende come un lussureggiante tappeto verde che corre tra ripidi crinali rocciosi. Sul versante nord della vallata, invece, si staglia imponente lo Sheba Peak, su cui la neve indugia fino a estate inoltrata, una montagna bianca e conica come il seno di una giovane donna, una donna concepita negli strani sogni di un lurido minatore, un sogno che solo l’oro e l’argento possono comprare.

A differenza delle mie prospettive, il panorama meritava un brindisi, cosa che feci. Da quando avevo ipotizzato che i matrimoni in via di sfascio si sarebbero sistemati da soli, senza la mia assistenza professionale, quelle prospettive erano numerose ma anche improbabili. Potevo darmi a tempo pieno al recupero delle macchine usate e dei mobili a buon mercato così soavemente promessi dalle finanziarie, inseguendo cattivi pagatori come un segugio spuntato fuori da un inferno economicamente solvibile. Potevo, come no; ma sapevo che non l’avrei fatto. Come non avrei certo potuto vivere con i quarantasette dollari e spiccioli avanzati dall’affitto mensile dell’ufficio, né risolvermi a tagliare il mio bosco per farne legna, né – ancora – convincere il fondo che gestiva i beni del mio defunto padre a mollarmi parte delle sue fortune prima del mio cinquantacinquesimo compleanno. L’unica consolazione era che dalla bottiglia dell’ufficio sarebbe scappato un altro drink, accompagnato dall’ennesima occhiata circolare alla ricerca di qualsivoglia cosa di valore in quella stanza.

La grande cassaforte nell’angolo, un vecchio modello che aveva visto le glorie di mio nonno banchiere, era vuota, fatta eccezione per duemila dollari di losca provenienza che ero riuscito a sottrarre alle grinfie delle tasse. I tre schedari da parete erano pieni di resoconti di matrimoni falliti, privi di ogni valore anche per quei poveri disgraziati che ne erano oggetto. Il ritratto del mio bisnonno era opera di un celebre (anche per la sua ubriachezza) pittore del West, e magari valeva anche qualcosa, ma l’idea di mettere in vendita il mio antenato mi sembrava ben poco opportuna. Prima, senza dubbio, sarebbe toccato agli alberi. O alla vecchia scrivania e al tappeto orientale, che avevano un’aria abbastanza malconcia da essere presi per pezzi d’antiquariato, solcati com’erano da bruciature di sigaretta e lordi dei detriti di dolore e indignazione che si erano staccati da tutti i mariti e le mogli che, in preda all’agitazione, erano transitati nel mio ufficio. L’età e il rimpianto, ecco gli unici attivi e passivi del mio conto economico.

Ma, come tutti gli uomini che bevono troppo, avevo trascorso gran parte della vita a rimuginare sul mio sciagurato futuro, e la faccenda aveva smesso di divertirmi. Così mi sparai un altro drink e mi accostai alle finestre a nord per scrutare gli allegri lavoratori di Meriwether. Un tempo i Milodragovitch erano stati dei veri pezzi grossi, in città, ma ormai l’unico modo che mi era rimasto per guardare qualcuno dall’alto in basso era quello di andare su in ufficio e affacciarmi alla finestra. La pausa pranzo era ormai terminata e la gente si affrettava a rientrare al lavoro, tornando in ufficio o in negozio a bordo di macchine con l’aria condizionata, anche se il clima era più primaverile che estivo. Io, che di macchine con l’aria condizionata non ne avevo mai avuta una, potevo quindi sentirmi un po’ superiore. Almeno fino ad agosto.

Cristiano Idini

James Crumley

James Crumley nasce a Three Rivers, Texas, il lontano 12 ottobre 1939.
Dopo il diploma inizia l’università, che sospende per arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti sino al 1961, quando riprende gli studi e si laurea in Storia, ma solo dopo essersi iscritto ad un master in scrittura creativa in Iowa. La cosa curiosa è che per potersi iscrivere al master avrebbe dovuto prima ottenere la laurea, ma avendo fretta di imparare e conoscendo i tortuosi percorsi della burocrazia, sa bene che ci vorrà un sacco di tempo prima che chi di dovere si accorga dell’inganno. Nel frattempo, James aveva raggiunto lo scopo: imparare i trucchi del mestiere.
E a proposito di mestiere, si può ben dire che Crumley ne ha cambiato veramente tanti: nella sua vita è stato autista di camion, barista, portuale, soldato, giocatore di football, insegnante.
Ma soprattutto, grazie a Dio, è stato scrittore.
È lui stesso, in diverse interviste, a raccontare di come la folgorazione per la letteratura hard-boiled sia avvenuta con un libro di Chandler, uno dei tanti con protagonista quel Philip Marlowe di cui in futuro si riconoscerà sempre debitore. Disse una volta: “Saccheggio Chandler a piene mani. Lo diceva anche Eliot: i cattivi scrittori copiano, i buoni rubano. Questa, lui l’aveva rubata ad un poeta francese”.
Fino a quel momento le sue passioni erano indirizzate più verso la letteratura classica, Dostoevskij e giù di lì. Con Chandler tutto cambiò. È forse anche per questo che Crumley amava definirsi il suo “figlio illegittimo”.
Il primo libro che pubblica, Uno per battere il passo” (One to count cadence) è basato sul riadattamento della sua tesi di laurea, ma è solo nel 1975 che da alle stampe il primo dei suoi lavori nati e pensati come romanzi hard-boiled: Il caso sbagliato (The Wrong Case).
Ne è protagonista il detective privato Milo Chester Milodragovitch, così come in Dalla parte sbagliata (Dancing Bear) e La terra della menzogna (The final country); mentre è C.W. Sughrue il personaggio principale de L’anatra Messicana (The Mexican Tree Duck), Una vera follia (A real madness) e L’ultimo vero bacio (The last good kiss)
È soprattutto quest’ultimo libro ad aprire a Crumley le porte dell’Olimpo del noir. Uscito nel 1978, raccoglie la summa dello stile crumleyano, segnando un profondo solco nella letteratura noir tra tutto ciò che era stato scritto sino ad allora e ciò che in seguito avrebbe dovuto confrontarsi con esso. È la storia di C.W. Sughrue, investigatore privato, e della sua ricerca di Betty Sue Flowers, una donna davanti a cui gli uomini si mettono “tutti in fila in attesa del turno”, scomparsa dieci anni or sono da una madre barista che non sa più a che santo votarsi. Non è per danaro che Sughrue accetta, e non è per convenienza che sceglie la compagnia che gli starà attorno durante quel lungo viaggio: lo scrittore alcolizzato di nome Abram Trahearne, che lo stesso Sughrue era appena riuscito ad acciuffare dopo l’ennesima fuga dalle grinfie della moglie, e soprattutto un cane alcolizzato di nome Fireball Roberts.
Cosa fa de L’ultimo vero bacio un capolavoro della letteratura? Forse non certo la trama, abbastanza modellata sui classici canovacci di genere, quanto lo spessore dei personaggi e soprattutto lo stile della narrazione e dei dialoghi. Il libro è un lungo ed estenuante macinare chilometri, quasi sempre in macchina, lungo strade di cui non si vede mai la fine, scandito da fermate presso qualche bar a mangiare qualcosa e a buttare giù litri d’alcol.
I personaggi che popolano il romanzo sono uomini disincantati che la vita non riesce più a sorprendere, orfani malinconici del sogno americano, gente nata dalla parte sbagliata del paese che tenta di tirare avanti come meglio può. In mezzo a tutto questo, un barlume di ottimismo è rappresentato proprio da lui, C.W. Sughrue, l’anti eroe per eccellenza, un uomo che fa del sarcasmo il suo scudo, che ostenta quel suo non credere più in niente e in nessuno, che guarda sprezzante il mondo con il gomito perennemente appoggiato al bancone di un bar, ma pronto a mettersi in viaggio e a intraprendere una ricerca disperata per solo “ottantasette dollari, due birre e un sorriso”. È Sughrue, così come il suo quasi omologo Milodragovitch, a rappresentare la summa della filosofia di Crumley: è anti nel suo essere sciatto, debordante, a tratti volgare e così nostalgicamente disincantato; ma è soprattutto eroe in quella sua ostinata convinzione, nascosta prima di tutto a se stesso, che alla fine di tutto è la bontà che paga, è l’amore che continua a far muovere il mondo. Gli eroi di Crumley agiscono per un ineluttabile senso di giustizia, magari del tutto personale e non sempre coincidente con la legge, ma di certo coerente e sorretto da una personale e incrollabile etica. Alcune cose sono permesse, altre non si possono nemmeno pensare. Ci sono valori che non si possono tradire, o non si è più uomini. L’amicizia per esempio, quello strano legame che può sorgere all’improvviso, quando scoccano le tre del mattino e anche l’ultimo bar ha chiuso, e Sughrue si ritrova a ingoiare tequila con lo scrittore Trahearne in attesa che la notte finisca, e si sente vicino a lui come a nessun altro, e sa che non lo tradirebbe mai perchè ci sono cose che semplicemente non si fanno, e quando invece è lui che viene tradito, sa che non potrà portare a lungo rancore, perchè lui è fatto così.
Sughrue e Milodragovitch sono le proiezioni su carta del loro creatore. Entrambi veterani di guerra, entrambi forti bevitori, entrambi pessimisti. Sono persone su cui si può contare, pieni di lealtà sino al midollo, generosi nel restituire dieci volte quanto hanno ricevuto.
Nei suoi romanzi Crumley celebra valori che affratellano gli uomini con echi del più puro Hemingway, e non nasconde, anzi ostenta, i suoi debiti verso Raymond Chandler, da cui però prende anche le distanze. Philip Marlowe è un uomo disilluso, cinico e all’apparenza nichilista. Il mondo in cui si muove è marcio e corrotto, eppure sembra sempre di cogliere un vago confine, un limite oltre il quale si è certi che il male non possa arrivare. In Crumley quel limite è non solo superato ma addirittura calpestato e irriso. La cattiveria è la vera natura dell’uomo, e i suoi effetti ci vengono descritti in tutta la loro durezza, senza soffici giri di parole.
Ma il segreto di Crumley risiede proprio nel modo in cui ci descrive tutto questo. Come per volerci rassicurare, il suo linguaggio è costantemente venato d’ironia, la narrazione puntellata da dialoghi brillanti e vivaci, alternati a passaggi di una malinconia quasi dolorosa.
James Crumley si spegne il 17 settembre del 2008. Lascia in eredità il racconto della sua personale e onesta visione del mondo, senza ipocrisie o inganni.
Un mondo in cui vivere può essere un’esperienza terribile, ma dove è sempre possibile trovare un bar aperto, e un amico seduto al bancone pronto a offrirti una birra e una spalla su cui piangere.

grazie a: http://www.thrillercafe.it