inizio rosso e giallo


John le Carré

Accuso l'Occidente che cancella i diritti civili

LONDRA - Diceva John le Carré, qualche anno fa, ai tempi del suo bel libro sullo strapotere delle multinazionali farmaceutiche, Il giardiniere costante, che a spingerlo a raccontare era la Alterszorn, la rabbia dei vecchi. Ora che John le Carré di anni sta per compierne settantasette, seppure in grande forma, la sua Alterszorn è diventata semplicemente «rabbia».
La rabbia che prova il grande romanziere della guerra fredda (e non solo) di fronte contro il dramma delle migrazioni, la politica delle multinazionali, la minaccia del terrorismo usato come arma di pressione per imporre una nuova forma di colonialismo, l' etica distorta dagli imperativi politici di fronte alla confusione del presente.
E siccome John le Carré, nella vita David Cornwell, elegante e pacato gentiluomo britannico, osservatore attentissimo delle vicende politiche, è, appunto, un narratore, ha trasfuso questa sua rabbia in una storia, nutrendola delle sue esperienze e dei suoi ricordi, e ha costruito in Yssa il buono, il suo ventunesimo libro, un romanzo tanto avvincente quanto terribilmente possibile (Mondadori, pagg. 345, euro 18,60), che esce in Italia prima ancora che in Gran Bretagna.
Sullo sfondo della sua bella, intima casa di Hampstead, John le Carré fa una cosa che, spiega, è inconsueta per lui, elencare gli elementi che sono andati a combinarsi nel suo nuovo romanzo - o, come dice lui, le cose che ha infilato nel suo Ruecksack, nel suo zainetto.
Prima i personaggi. «Yssa. Ho conosciuto qualcuno molto simile a lui venti anni fa, in Russia, mentre facevo ricerche per La passione del nostro tempo, che si svolge in parte in Cecenia. Era un ragazzo, musulmano, figlio di un ufficiale russo e di una donna cecena che lui non aveva mai conosciuto, e, come Yssa, nutriva nei confronti del padre, che aveva usato violenza alla madre, un odio profondo. Quel ragazzo, con la sua purezza, con il suo estremismo morale, è rimasto lì, nella mia memoria, per vent' anni, come certi personaggi costretti ad aspettare di entrare in scena, e che a un certo punto saltano su, e occupano tutto lo spazio». Poi c'è lei, Annabel, la ragazza, il giovane avvocato che si batte per la causa dei diritti civili degli immigrati. «Ho avuto la fortuna di incontrare una giornalista tedesca che si è occupata del caso di Murat Kurnaz, un turco tedesco e formatosi a Brema, che a un certo punto del suo percorso umano è diventato profondamente religioso. Dopo l'11 settembre Murat Kurnaz si è trasferito in Pakistan per approfondire il suo studio dell' Islam. «Aveva diciannove anni quando a Karachi è stato arrestato dalla polizia pakistana perché il suo nome era su una lista di ricercati in quanto aveva frequentato la stessa moschea di Atta. È stato ceduto dai pakistani agli americani per tremila dollari, torturato a Kandahar da una squadra americana, ne è quasi morto, poi è stato spedito a Guantanamo e ha passato lì quattro anni e mezzo. Finché è emerso che era perfettamente innocente. Ora è in Germania. E ha scritto un libro sconvolgente, Five Years of My Life. Quando l' ho conosciuto era appena tornato da Guantanamo. E la mia amica giornalista stava girando un documentario per la televisione tedesca sulla sua vita. È stata lei a invitarmi a conoscerlo. Una ragazza molto carina, un'idealista, che, come Annabel, cercava di negare la sua femminilità con un modo di vestire deliberatamente triste. Vedendo la loro interazione ho cominciato a pensare al mio Yssa e ho trasformato lei in Annabel».
Il terzo personaggio chiave è un banchiere inglese che David Cornwell ha conosciuto anni fa a Vienna, molto simile al Tommy Bruer del libro. «Era il presidente di una banca privata e cercava sempre di convincermi ad aprire un conto segreto. Non c'è mai riuscito. E ci rimaneva male, perché voleva i miei soldi come un segno di fiducia. Beveva e la banca non andava tanto bene. «Un romantico di mezza età, come tanti uomini, specialmente nei servizi segreti, che vanno in pensione a sessant' anni e improvvisamente realizzano di non aver mai veramente vissuto per rispetto delle convenzioni. Anche lui si è depositato in qualche mondo nella mia memoria. Anche Tommy, come Annabel, come Yssa, ha avuto un padre ingombrante. Tutti e tre vivono e si comportano secondo norme che hanno ereditato. E sì, nel libro mi sono identificato con lui, e ho creato un triangolo immaginario».
Poi c' è, quarto personaggio, Amburgo. «Io ho una lunga storia con la Germania. Amburgo é la città dove sono stato spedito a fare brevemente il console quando il Foreign Office ha scoperto che avevo scritto La spia che venne da freddo e ha ritenuto opportuno allontanarmi da Bonn. Per caso, poi, ero ad Amburgo con mia moglie l'11 settembre, negli uffici della Deutsche Rundschau, davanti a un televisore, a vedere in dvd dei materiali su Rudi Dutschke negli anni ' 60 e ' 70. Gridava un messaggio che non si può non condividere: "Dobbiamo costruire un ponte tra chi ha troppo e chi non ha nulla". Poi ho ricevuto una telefonata dalla mia segretaria che mi diceva di accendere la televisione. E ho passato il pomeriggio incollato davanti alle Torri distrutte e alla faccia di Osama. Forse per questo nella mia testa si è stabilita una connessione tra il messaggio di Dutschke e quella sorta di anarchia antimodernista che è al centro della dottrina islamica più estremista. Amburgo è una città dalle mille identità. La città da cui è partito Mohammed Atta. La città di Ulriche Meinhof. Una città piena di fermenti politici, dove si avverte la particolare sensibilità dei tedeschi, una reazione probabilmente al passato nazista, ai diritti umani. E sullo sfondo, un paese che ha 800mila cittadini di origine turca, quattro milioni di turchi senza cittadinanza a cui la Germania chiede disperatamente di integrarsi e che hanno difficoltà culturali a farlo. Insomma, tutto mi riconduceva lì, a costruire attorno a Yssa una storia di pregiudizi, di complotti, di sospetti, l'immensa paura dell'altro». Ad Amburgo, racconta ancora le Carré, è basata Flucht Punkt, un'organizzazione diretta da due donne a cui si rivolgono gli immigrati «quando arrivano disperati in Germania e aspettano di essere cacciati di nuovo. Mi hanno accolto, mi hanno presentato a un loro assistito ceceno.
È stato così, collegando una cosa all'altra, punto dopo punto, che ho messo insieme il libro». Dove, attorno al triangolo composto da Yssa, Annabel e Tommy Bruer, c'è un affollarsi di servizi segreti in competizione, di polizie, di profittatori, di capitali più o meno sporchi, di gente che vuol farsi bella scoprendo l' ennesimo - e forse inesistente - complotto islamico.
«Provo una grande rabbia per come le democrazie occidentali stanno smantellando i diritti civili e la struttura stessa della democrazia. per difenderla. Gli inglesi in particolare hanno fatto dei gravissimi strappi al loro sistema costituzionale - anche se da noi non esiste costituzione, è tutta pragmatica. Ora si può mettere dentro una persona per sette settimane, quarantadue giorni, senza motivazione. E gli americani hanno ingannato se stessi, come racconta Jane Mayer in un libro sconvolgente, The Dark Side. La rottura dei diritti costituzionali messa in atto dagli Stati Uniti è stata decisa in silenzio, nel panico del dopo 11 settembre, da un piccolo circolo di persone che hanno immaginato i metodi per torturare la gente e per sottrarsi alla convenzione di Ginevra ancor prima di avere una sola persona da torturare, mettendo in campo tutte le forme di tortura - meno il sangue, perché siamo persone ben educate - dal waterboarding ai metodi di cui ancora non sappiamo niente per condurre la gente fino al punto della follia. È difficile crederlo: siamo qui, all'inizio del 21esimo secolo, a cercare il modo di introdurre dei sistemi medievali di tortura. Ma sono fermamente convinto che questi sistemi non riguardano tanto la ricerca delle informazioni quanto una forma di vendetta. Il sospetto è per definizione colpevole, e deve soffrire per quello che è stato fatto alla dignità e alla sicurezza americana».
Lui, David Cornwell, da ex «agente segreto», e quindi come uno che in passato ha condotto numerosi interrogatori, pensa che «non c' è niente di più stupido che estrarre informazioni con la tortura. Non è mai stato un mezzo produttivo. Costringi qualcuno a fare una finta confessione, ne ottieni nomi falsi, false informazioni, qualsiasi cosa pur di fermare la tortura. È molto più fruttuoso interrogare con pazienza, con umanità, con comprensione, creare delle alleanze». E intanto si parla di una nuova guerra fredda. «Non è una nuova guerra fredda. Sono i detriti della prima. La Georgia è governata da un signore che ha studiato in America. L'esercito georgiano è equipaggiato dagli americani, con il sostegno di Israele. Con una forma di diplomazia irresponsabile gli americani hanno messo in testa a Shakashvili l'illusione che avrebbe potuto combattere i russi - e che non ci sarebbe stata una reazione. Ma la sensibilità dei russi sul Caucaso è sempre stata enorme. L'iniziativa è stata presa dai georgiani, che hanno ucciso, violentato, assassinato». «Adesso stiamo prendendo un atteggiamento nobile: siamo tutti georgiani, ha detto McCain. Ma perché? Perché il petrolio muove tutto. È guerra fredda perché la Russia può aprire e chiudere il rubinetto del petrolio quando vuole? Non è la guerra fredda, è la frenesia delle grandi potenze per trovare risorse... Vuole sapere se sono nostalgico della guerra fredda? Sì, sono nostalgico della guerra fredda. Perché a quei tempi avevamo delle speranze per il giorno in cui sarebbe finita e avremmo ricostruito il mondo. Perché i contendenti si muovevano all'interno, grosso modo, dello stesso sistema culturale. Ora il potere si sta spostando verso Est e capiamo sempre meno i nostri interlocutori. No, è difficile vedere vie d'uscita».

Repubblica - 05 settembre 2008, Intervista di Irene Bignardi


*Tinker, tailor, soldier, sailor, rich man, poor man, beggar man, thief" è una filastrocca per bambini usata per codificare gli uomini del Circus sospettati di essere la talpa

Natalino Bruzzone

Intervista a John le Carré

Con il suo ultimo romanzo “Il giardiniere tenace” (2001), John le Carrè scende in campo contro “Big Pharma”, il cartello delle multinazionali farmaceutiche. Un vero e clamoroso atto d'accusa contro di esse che lo stesso le Carrè ribadisce in questa intervista.

Mister le Carrè “Il giardiniere tenace è uno spietato atto d'accusa contro le speculazioni delle multinazionali dei farmaci. Perché ha scelto questo tema?

Il potere sconsiderato delle grandi società sta ormai diventando la maledizione del XXI secolo. Cento multinazionali controllano un quinto dell'intera ricchezza del mondo. Delle cento economie più grandi del pianeta 51 sono società e 49 stati nazionali. Le mie ricerche mi hanno convinto che, fra tutte le industrie transnazionali, “Big Pharma” fosse proprio quella con i più alti profitti e anche la più cinica. Usando cittadini del terzo Mondo per i suoi test clinici – persone che mai avrebbero potuto permettersi i farmaci per i quali servivano da cavia – l'industria farmaceutica incarna una metafora perfetta per lo sfruttamento dei diseredati da parte dei ricchi.

Lo scandalo Bayer suggerisce che le sperimentazioni assassine non avvengono solo nel Terzo Mondo.

Lo scandalo Bayer è, al momento, di enormi proporzioni. Nel mio romanzo si può trovare il riferimento a un altro scandalo in cui la Bayer fu coinvolta. Il riferimento nel “Giardiniere tenace” è semplicemente un estratto pubblicato dal Times, ma sono certo che si può individuare una serie infinita di altri scandali, da rendere quello attuale un piccolo sussulto.

Il libro pone sotto accusa anche il processo di globalizzazione.

Il fatto che a Genova abbiano spaccato vetri e teste, non fa della causa dell'antiglobalizzazione una causa sbagliata, nello stesso modo in cui la morte di qualcuno non la rende per forza giusta. Che Berlusconi liquidi queste persone come un branco di anarchici teppisti è piuttosto volgare. C'è qualcuno che parla mai dei capitalisti che hanno provocato la morte di Ken Saro Wiwa e dei suoi nove compagni in Nigeria?

“Il giardiniere tenace” segna una svolta nella sua carriera di narratore in fatto di personaggi e di argomenti dominanti?

Ho sempre scritto quello che sentivo. La situazione di stallo tra comunisti e capitalisti è stata l'argomento di molti dei miei romanzi precedenti. Il mio interesse era puntato sulla sopravvivenza dell'integrità umana di fronte all'impasse ideologico. C'è immobilità e qualche volta anche stasi. Adesso quella immobilità ha ceduto il passo a un mondo sempre più instabile nel quale l'ingordigia armata di un capitalismo esasperato si annuncia chiaramente come il nemico numero uno dell'umanità.

Per lei, la caduta del muro di Berlino non ha segnato affatto una data d'inaridimento ispirativo.

Mi ha interessato come scrittore e, nonostante l'assurda pubblicità fatta all'epoca, non mi ha lasciato in alcun modo né orfano né derelitto. Una volta per tutte, quel evento ha messo fine allo stallo ideologico di cui parlavo, e ha sollevato un grande punto interrogativo sul futuro. Forse l'unico aspetto negativo del crollo del Muro è che non esiste più una piattaforma, per quanto degradata, che denunci i limiti del capitalismo. Lei ricorderà che ho scritto romanzi che non sono in alcun modo debitori della Guerra Fredda – “Il direttore di notte” e “La tamburina”, per citare soltanto due titoli – e altri come “casa Russia”, che annunciavano la conclusione della Guerra Fredda ben prima della sua fine ufficiale. Così, per rispondere alla sua domanda, mi sono sentito liberato e sfidato, e, allo stesso tempo, affascinato dal futuro, ancora non scritto, del dopo Guerra Fredda.

La religione documentaria contenuta negli archivi sembra affascinare lei e i suoi personaggi. Perché?

“Il giardiniere tenace”, come “La talpa”, attingono in larga misura proprio dagli archivi. Come pure sostanzialmente fa “La passione del suo tempo”. Penso di avere sempre ritenuto che prestiamo troppa poca attenzione al passato quando cerchiamo di spiegare il presente. È anche vero che il primo dipartimento di “intelligence” per il quale ho lavorato viveva interamente dei suoi archivi. Come bravi storici e accademici prestavamo una grandissima attenzione alla genesi di ogni singolo caso.

La figura del suo vecchio eroe George Smiley pare incarnare il genitore ideale. È d'accordo?

È corretto dire che George Smiley per me è stato una sorta di figura paterna. I due uomini che hanno maggiormente contribuito alla sua creazione erano entrambi abbastanza vecchi da essere miei padri. Da bambino sono cresciuto senza madre e sotto l'influenza di un uomo, mio padre, dal carattere mercuriale e pieno di difetti. Guardando al passato era inevitabile che il primo personaggio in assoluto di cui abbia mai scritto, come George Smiley, fosse una figura paterna sostitutiva. Per la stessa ragione ho incontrato qualche difficoltà agli inizi della mia carriera di scrittore quando si trattava di creare dei personaggi femminili. Significativamente, Ann, la moglie di Smiley, non faceva altro che scappare via, e quando lui l'aveva, non riusciva a tenerla.

da Il Secolo XIX, 05/09/2001

Irene Bignardi

La guerra delle bugie

Londra. È il 1986. Esce La spia perfetta di John le Carré. E il 17 novembre, David Cornwell, lo scrittore che si nasconde dietro la maschera letteraria di John le Carrè, l'autore di La spia che venne dal freddo, La talpa, La tamburina, entra al Quirinale assieme a George Smiley e a Bill Haydon, a Karla e a Alec Leamas, a cugini e calzolai, a talpe e lampionai, insomma a tutto il mondo fittizio, ma non tanto, dello spionaggio britannico così come l'ha raccontato lui, il re della spy story, invitato a pranzo con gesto eccentrico dall'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

È, La spia perfetta, undicesimo romanzo di le Carré, il suo più personale. Si sente, dietro la finzione, l'autobiografia. Si avverte, dietro la figura del padre indegno di Magnus Pym, la figura di Ronnie, il vero padre di David Cornwell, fascinoso imbroglione e truffatore, sempre dentro e fuori dalle imperiali galere, sempre pronto a ricominciare, abbandonando qua e là, in eleganti scuole di cui non paga la retta, la sua prole. Si sente la stanchezza di chi ha lavorato tutta la vita sulla complessità morale del mondo ambiguo dei servizi segreti. E, intervistato all'epoca, John le Carré (ma è David Cornwell, fascinoso, pacato, articolato, a parlare), che ha per il momento abbandonato il suo personaggio centrale, il grigio e ligio George Smiley, grand commis dei servizi segreti britannici, annuncia: sta diventando «più radicale», «più libero spiritualmente»; ha «cominciato a nutrire un certo disprezzo per Smiley e la sua capacità di abbandonare molto spesso la propria coscienza per fare le cose sporche che è necessario fare». Smiley che diceva «facciamo cose spiacevoli, ma per difenderci e le facciamo perché la gente qui e altrove possa dormire tranquilla nel suo letto». Smiley che sosteneva: «Ognuno di noi ha solo una certa quantità di compassione. Se la sprechiamo su ogni gatto randagio non arriveremo mai al centro delle cose».

Allora Cornwell / le Carré aveva iniziato a chiedersi: «Che differenza c'è tra abbandonare di quando in quando la morale e non averne affatto? E dove corre la linea sottile che separa lealtà e tradimento? E quanto lontano possiamo andare nella giusta difesa dei nostri valori occidentali senza perderli lungo la strada? E così io e Smiley abbiamo cominciato a litigare».

Quasi trent'anni e dodici libri dopo, questo - della morale abbandonata, della contrapposizione tra un'etica pubblica adattabile e un'etica personale da rispettare, del dramma che esplode quando gli uomini d'onore capiscono che il patriottismo o la lealtà al proprio Paese sta prendendo una forma diversa da quella insegnata loro dallo Stato, che stanno diventando i servi sciocchi degli interessi della potentissime multinazionali - è il tema centrale di A Delicate Truth, Una verità delicata, il nuovo romanzo di John le Carré che ora arriva in Italia (Mondadori, pp. 350, euro 20, traduzione di Mariagiulia Castagnone). E che appunto, sotto la cornice romanzesca e la suspense del thriller politico, sotto la cronaca di un blitz segreto condotto a Gibilterra da agenti e mercenari britannici e americani per catturare un pericoloso terrorista, ma a prezzo della morte di due innocenti, sotto la storia, dice Le Carrè, «di due persone per bene che scoprono come la loro personale moralità sia in opposizione alla supposta etica dello Stato, e si ribellano alle regole/non regole del segreto di Stato a rischio della loro vita», ripropone l'interrogativo che ha tormentato lo scrittore per tutti questi anni. Anni nei quali ha visto dissolversi sotto l'urto della storia le certezze del confronto Est/Ovest, degli schieramenti della guerra fredda, del mondo ben delimitato di un Occidente democratico contrapposto a un mondo «altro» senza regole, del right or wrong my country.

Dove sta il confine tra patriottismo e tradimento? È giusto che esista una sorta di morale parallela valida solo per chi ci governa? Che chi ci governa possa esercitare una giustizia fuori dalle regole e dai controlli, in una guerra non dichiarata, ma combattuta a colpi di legale illegalità? E, per dirla con le parole di le Carré, che ha visto uscire il suo libro con tempistica casuale, ma perfetta, proprio nei giorni del caso Snowden, non è forse giusto «decidere che i whistleblower, gli informatori che denunciano le verità segrete, sono una voce essenziale in ogni democrazia? Nel mio libro due funzionari leali e patriotici, uno più vecchio, ormai in pensione, promosso a baronetto per cementare la sua lealtà allo status quo, l'altro giovane, promettente uomo politico, decidono, autonomamente, che il loro Paese è servito meglio se dicono la verità su ciò che di sbagliato è stato fatto. È la stessa cosa che ha deciso di fare Snowden. E sì, penso che in questa stagione di manipolazione delle notizie, di bugie ben organizzate, di verità artefatte, i whistleblower sono un voce essenziale in ogni democrazia. Anche se ovviamente non c'è un governo che possa permettersi il lusso di dare loro libertà d'azione, tanto meno quando escono dai ranghi della comunità della corporate intelligence, i servizi segreti delle grandi società, dotate di un potere che sta diventando eccessivo».

Ma, aggiunge le Carré, Una verità delicata denuncia anche «lo spettro dei tribunali segreti che in Gran Bretagna, nonostante le proteste degli avvocati e del pubblico, stanno prendendo sempre più spazio, e che negli Stati Uniti sono pratica comune». Quanto a Snowden, «gli Stati Uniti lo perseguiteranno fino alla fine dei suoi giorni. E quando lo avranno raggiunto, lo trascineranno a Washington, lo marchieranno come una spia, un traditore, discuteranno se impiccarlo, fucilarlo, mandarlo sulle sedia elettrica, avvelenarlo o semplicemente tenerlo in isolamento finché muore. Lo hanno fatto con Bradley Manning (l'informatico che ha denunciato l'assassinio di molti civili disarmati in Iraq, e che per questo è stato arrestato e condannato a 35 anni). E, se ci riescono, faranno lo stesso con Assange. E ora passiamo a Prism, il programma di sorveglianza elettronica di Internet, e alle organizzazioni similari: anche se i governi europei simulano sdegno e riprovazione, ci sono tutti dentro, come protagonisti o come clienti. Qualsiasi cosa va bene in nome dell'antiterrorismo. Peccato che le agenzie Usa manovrino l'antiterrorismo come un circolo di amici».

Le Carré ricorda che quando il Regno Unito stava prendendo in considerazione l'ipotesi di attaccare l'Iraq e al Parlamento si annunciava il dibattito, nei corridoi succedeva qualcosa di molto familiare: «I politici e i lobbysti del mondo dell'intelligence prendevano da parte i parlamentari e dicevano: "Se sapeste quello che abbiamo visto noi?". Bene, quello che avevano visto, nel caso dell'Iraq, era una montagna di bugie. Erano montature provenienti da due fonti, una francese e una tedesca. Falsi. Ma è difficile per il cittadino comune, per un qualsiasi parlamentare, dire a quelli dei servizi segreti: "Non ce la raccontate giusta, non vi credo". Perché ogni tanto hanno ragione».

Ma sarà pure necessario proteggere qualche segreto di Stato. O No?
«Forse è un bene che non ci siano segreti da proteggere. Anche se è ovvio che un buon sistema di intelligence, che dia forgetty ma alla politica estera e interna, sarebbe molto utile. Ma come si fa a delegare le nostre scelte e le nostre decisioni a questa gente, che per di più non abbiamo scelto noi?»

Le Carré si rende conto che buona parte di quello che scrive sotto la forma del thriller politico «consiste in domande che non hanno risposta». Ma dice anche: «Se conoscessi tutte le risposte alle mie stesse domande smetterei di scrivere».

E ora, dopo il tempo di un mondo in bianco e nero, dopo la stagione del grigio seguita alla caduta del muro, ha affrontato negli ultimi suoi libri, da Il giardiniere tenace a Yssa il buono fino a Una verità delicata, un nuovo bianco e nero, in cui i cattivi sono Big Pharma, le banche, le multinazionali, l'islamofobia, i politici disonesti o ambiziosi, le disinvolte scorciatoie in tema di legalità pubblica del suo Paese e degli Stati Uniti. Ragion per cui è stato accusato da una parte della stampa Usa di essere antiamericano.
«Ma figurarsi. Penso però che, in un regime presidenziale come quello degli Stati Uniti, l'intreccio di potere delle corporation e della destra, crei seri problemi alla governabilità. Da cittadino britannico, credo che la loro influenza sul Regno Unito andrebbe limitata. E mi vergogno per la facilità con cui partecipiamo alle guerre americane senza buone motivazioni. Questo mi rende antiamericano? Forse in realtà sono antibritish...»

Ma Una verità delicata racconta anche in trasparenza come è cambiato David Cornwell nei cinquant'anni trascorsi da quando, giovane diplomatico, ha lasciato il Foreign Office e l'MI6, ha pubblicato La spia che venne dal freddo per essere rapidamente proiettato nei ranghi degli scrittori di successo.

«Sono nato nel 1931. E quando ho cominciato a capire qualcosa stavamo combattendo la Germania. Alla fine della guerra il patriottismo che mi è stato inoculato mi ha spinto a cogliere l'occasione di arruolarmi come diplomatico, ma in realtà nell'intelligence, e a combattere almeno nella Guerra fredda contro il comunismo degli anni stalinisti. Ma con La spia che venne dal freddo ho abbandonato anche quella posizione, quella causa. E, se guardo all'arco della mia vita, vedo che è stata una continua serie di impegni e di fughe. Che io stessi insegnando o che stessi lavorando per il mondo dello spionaggio, tutto mi è stato offerto in modo che potessi prima abbracciare e poi fuggire le situazioni che avevo scelto. Finché non ho scoperto la scrittura: e la scrittura è un luogo da cui non posso più fuggire».

E in cui si è rifugiato di nuovo, a scrivere il ventiquattresimo episodio prossimo venturo della sua tragicommedia umana.

Venerdì di Repubblica, 30.08.2013