Massimo Bonfantini

Il giallo e il noir



Parte Terza. Il filosofo e il segugio: Peirce e Hammett

1. Peirce e il caso del furto dell’orologio

Il rapporto fra (1) percezione, (2) giudizio interpretativo, (3) presa di coscienza e retta testimonianza era il problema, ricordate?, del Giudice Purley e di Perry Mason.
Si può dire che è anche il problema fondamentale di teoria della conoscenza del grande filosofo americano Charles Sanders Peirce, inventore di tre parole-chiave del pensiero di oggi: pragmatismo, semiosi, abduzione.
Ma è anche questo rapporto fra percezione e indovinamento di verità il problema che tormentò Peirce, come vittima del furto del suo orologio, un bel giorno, o un brutto giorno, della seconda metà dell’Ottocento.

Ma andiamo con ordine: al Professor Peirce di Boston (era nato nel 1839), la sua bella o brutta avventura occorse, naturalmente, come tutte le disgrazie, di venerdì, e precisamente il 20 giugno 1879.
Ma sentiamo il racconto dell’avventura dallo stesso Peirce, dallo scritto del 1907, che, notate bene, fu pubblicato postumo nel 1929 sulla rivista “The Hound and Horn”, che in italiano suonerebbe qualcosa come “Il segugio e il corno da caccia”.
Leggo dunque dalla traduzione italiana di Guessing (che vuol dire pressappoco Tirare a indovinare), traduzione di Giampaolo Proni, pubblicata nel 1984 su “Il Protagora”. Leggo per comodità, anche fisica, dal numero speciale del 1984 de “Il Protagora”, dedicato alla Ragione abduttiva, che sarebbe come dire ‘ragione che interpreta, ipotizza, indovina’. Ma avverto che questo saggio-racconto di Peirce è riprodotto nel volume delle Opere (Bompiani, 2003) da me curato.

"Molti anni fa, quando ero al servizio della U.S. Coast Survey, fui incaricato di un compito che mi richiedeva di poter conoscere quasi quotidianamente e in ogni momento l’ora esatta. Siccome era troppo scomodo dover portare in giro ovunque un cronometro da marina, mi fu data istruzione di procurarmi e portare sempre con me l’orologio più affidabile che potessi trovare. Presi da Tiffany i due migliori orologi ad àncora tascabili che avevano, e, dopo circa un mese di severo collaudo, scelsi quello che si era provato migliore, e lo portavo sempre addosso, poiché questo è essenziale al funzionamento di un buon orologio. Costò al governo 350 dollari. Alcuni anni dopo mi dovetti recare da Boston a New York, e presi il battello del Fall River Line. L’atmosfera della mia cabina era pessima, dato che si trovava sottovento, e quando mi svegliai al mattino avevo uno strano senso di pesantezza al capo – la mente annebbiata, come si suol dire – e sentii che dovevo uscire all’aria aperta il più presto possibile. Mi vestii in fretta e furia, scesi a terra e presi una carrozza per Brevoort House, dove quel mattino dovevo presenziare a una conferenza. Come fui arrivato là mi recai in bagno, e mi accorsi che dovevo aver lasciato in cabina l’orologio del governo, con la mia catena e il piccolo astuccio d’oro con la bussola che vi era attaccato, assieme al mio soprabito. Corsi fuori, ritrovai la stessa carrozza e tornai al battello, in grande apprensione. I 350 dollari erano il meno.
Non era facile rimpiazzare quell’orologio a nessun prezzo, e se non fossi riuscito a restituirlo nelle stesse perfette condizioni in cui lo avevo ricevuto l’avrei ritenuta una macchia professionale per tutta la vita. Giunto al battello corsi in cabina e scoprii che era sparito tutto. Allora feci chiamare tutti i camerieri di colore, non importa a quale ponte fossero addetti, e li feci mettere in fila. Saranno stati una ventina. Camminavo su e giù lungo la fila e, nel modo più disinvolto possibile, mi intrattenevo brevemente con ognuno di essi, parlando di qualsiasi cosa potesse interessarlo, ma che meno si sarebbe aspettato da me. Speravo così di riuscire a fare la parte del babbeo abbastanza bene da indurre il ladro a tradirsi comunicandomi un qualsiasi sintomo.
Quando fui giunto in fondo alla fila, mi voltai e feci qualche passo, senza però allontanarmi, e mi dissi: «Neanche la più piccola scintilla di luce da cui partire…». Ma subito un altro mio io (poiché le nostre comunicazioni interiori sono sempre dialogiche) mi disse: «Ma tu semplicemente devi puntare il dito contro il tuo uomo. Non importa se non hai un motivo, devi dire chi pensi sia il ladro». Interruppi il mio andirivieni, che non era durato più di un minuto, e, come mi volsi verso i camerieri, ogni ombra di dubbio era svanita. Nessuna autocritica. Tutto ciò era ormai fuori luogo. Andai da quello che avevo deciso fosse il ladro e gli dissi di entrare con me nella cabina. Avevo giusto un biglietto da cinquanta dollari nel taschino del panciotto. Lo tirai fuori e lo distesi davanti a lui. «Ecco» - dissi - «questi soldi sono tuoi, se te li saprai guadagnare. Non voglio scoprire chi ha rubato il mio orologio, se posso evitarlo, perché se lo faccio sarò costretto a mandarlo a Sing Sing, il che mi costerebbe più di cinquanta dollari, e inoltre mi dispiacerebbe profondamente per quel poveretto che credeva di essere tanto più furbo delle persone oneste. Va a prendere il mio orologio, la catena e il soprabito, e sarò fin troppo felice di darti questi cinquanta dollari e andarmene, e puoi stare sicuro che sono il tipo che pensa sia più saggio mantenere le sue promesse che romperle e rovinarsi la reputazione per cinquanta miserabili dollari. Stai a sentire, non lo sai che ci sono degli uomini così e che io sono uno di questi? Guardami e te ne accorgerai. Allora, vuoi guadagnarti questi cinquanta dollari?». «Beh» - disse - «vorrei tanto guadagnare quei cinquanta dollari, ma vedete, io non so proprio niente delle vostre cose, e dunque non posso farlo». «Allora» - dissi io, attenuando, abbassando e intensificando il tono di voce - «vorrei far finta di non vedere il ladro, perché i ladri sono degli sciocchi, e mi dispiace per lui. Inoltre, se dovessi perseguirti legalmente mi costerebbe un bel po’ di più di cinquanta dollari. Lo sai, vero, che nessun banco dei pegni di New York ti darà più di cinquanta dollari per la mia roba, e che appena uscirai dal negozio ci sarà un poliziotto che ti agguanta per la collottola? Non hai una moglie? Pensa anche a lei. L’uomo che va a Sing Sing va in rovina e spesso anche all’inferno. Pensaci un attimo a che cosa significa, anche da questo lato della tomba, da vivo. Mi hai già confessato che il ladro sei tu, non te ne sei accorto? Lo hai detto chiaramente, perché hai detto che non potevi guadagnare i cinquanta dollari perché in questo momento non sapevi che cosa era stato della roba. Ma cinquanta dollari sono una bella ricompensa per un tipo furbo come te, che nessuno sospetterebbe che lavorasse per me, per scoprire come è andato il furto. Il fatto è che tu non puoi convincere nessun altro, perché il ladro sei tu. Lo so, e mi dispiace per te. Ma puoi ancora evitare Sing Sing e guadagnarti questo biglietto da cinquanta portandomi la roba. Tu fai affidamento sulla tua astuzia, ma vedrai che nella testa di un uomo onesto c’è qualcosa più forte di tutte le astuzie del mondo. Ti dico né più né meno che la verità e non farei diversamente neanche per un orologio che valesse cinquanta volte questo - ma come è vero che sei vivo, se non fai come ti dico, ti troverai sul treno per Sing Sing non appena il battello ritorna da Fall River». (Non posso assicurare l’esattezza di tutti i dettagli della conversazione, ma in sostanza fu così). Il negro rispose: «Mi dispiace di non sapere nulla del furto, sempre che ci sia stato» - e io me ne andai. Corsi sul molo e mi feci portare, alla massima velocità consentita alla carrozza di piazza, da Pinkerton.
Giuntovi, e condotto in presenza di Mr. Bangs, il capo della sezione di New York di questa formidabile organizzazione, dissi: «Mr. Bangs, un negro, cameriere del Fall River Line, che si chiama così-e-così, mi ha rubato orologio, catena, soprabito. L’orologio è un Charles Frodsham ed ecco qui il numero dell’orologio. Questo cameriere smonterà dalla nave Bristol all’una, e andrà immediatamente a impegnare l’orologio, da cui caverà cinquanta dollari. Desidero che lo facciate pedinare, e che lo facciate arrestare non appena avrà in mano la ricevuta». Mi rispose Mr. Bangs: «Che cosa vi fa pensare che sia lui il ladro del vostro orologio?». «Mah!», dissi io, «Non ho nessuna ragione per pensarlo. Ma ne sono assolutamente certo. Se non dovesse recarsi a un banco di pegni per lasciarvi il mio orologio, come sono sicuro che invece farà, potremo lasciare perdere la faccenda e non vi sarà più bisogno di nessun vostro passo ulteriore. Ma io so che il mio uomo si recherà a un banco di pegni. Insomma, vi ho dato il numero dell’orologio. Questo è il mio biglietto da visita. Potrete arrestarlo tranquillamente». Mr. Bangs esitò non più di cinque secondi, poi disse: «Se me lo consentite, oserei avanzare una proposta. Sono sicuro che non avete familiarità con i ladri e siete completamente digiuno della materia. Noi invece li conosciamo bene. È il nostro mestiere. Conosciamo le abitudini di ogni tipo e di ogni banda, e conosciamo anche personalmente i ladri, la maggior parte di loro. Permettetemi di suggerire quanto segue: manderò il mio uomo migliore; costui ricorderà e darà il massimo peso alle vostre impressioni. Soltanto, non imbarazziamolo con ordini precisi. Lasciamolo che agisca in base alle sue inferenze, dopo che avrà vagliato tutte le indicazioni». «Devo dire che tutto questo» - confessai - «mi appare ragionevole. Dopotutto, che diritto ho io di reputarmi infallibile? Sia come dite».


Il detective si recò a bordo e scoprì che il «mio uomo», come lo chiamerò, intendendo colui che ero così sicuro fosse il ladro, era stato per molti anni il cameriere personale del capitano e non poteva trovarsi sul ponte in cui era la mia cabina, mentre, tra i camerieri che con ogni probabilità vi si trovavano, c’era un noto imbroglione.
Di conseguenza, l’imbroglione fu pedinato, mentre non lo fu «il mio uomo», ma non lo si vide impegnare alcun orologio. Il mattino successivo fui presto a far visita a Mr. Bangs. «Dunque sembra che l’orologio sia perduto» - dissi - «E ora che cosa si fa?». «Beh» – disse – «non ci resta che inviare delle cartoline postali a tutti i banchi di pegni di Fall River, New York e Boston, offrendo una ricompensa per il recupero dell’orologio». «Una ricompensa!» - esclamai - «Ci vorranno, per quello che avete in mente, qualcosa come un centinaio di dollari!». «Oh» - replicò il mio interlocutore - «non credo che basteranno. Dovete offrire almeno centocinquanta dollari». «E sia, centocinquanta dollari, allora» - dissi io. Le missive, suppongo, vennero inviate. Ad ogni modo, il giorno dopo o quello seguente ricevetti un invito da parte di un avvocato di Broadway a recarmi nel suo ufficio di fronte al parco. Lo feci e trovai che aveva già preparato una dichiarazione di indennizzo del suo cliente lunga come una vela di maestra, pronta per la firma. La firmai e pagai i centocinquanta, a quei tempi una bella sommetta per un giovane, ma sempre poco a paragone dell’onore professionale. «Allora» - lo interrogai - «chi è, la prego, questo suo cliente?». In effetti avrei potuto scoprirlo leggendo la dichiarazione che avevo firmato, ma al momento non lo avevo fatto. Mi diede il nome, e mi informò che si trattava di un banco di pegni al numero tale della Cinquantesima Strada (o lì vicino, ho dimenticato il luogo e il nome precisi). Mi rivolsi di nuovo alla Pinkerton e, portando con me il mio detective, mi recai al banco di pegni. Il proprietario descrisse la persona che aveva impegnato l’orologio con tale precisione che non vi fu dubbio che si trattava del «mio uomo». Ormai il battello era ritornato a Fall River, ma sarebbe arrivato il mattino seguente. Insistetti perché il detective mi accompagnasse al domicilio del «mio uomo» - cioè al suo appartamento, in una zona assai rispettabile della Sesta Avenue.
Arrivati di fronte all’edificio chiesi al detective di salire soltanto le scale e di riportarmi la catena (con l’astuccio) e il soprabito. «Oh», - disse questi - «neanche a pensarci… Non ho un mandato, e chiamerebbero subito la Polizia!». Non mi scomposi più di tanto. «Molto bene» - dissi io - «ad ogni modo, vorreste essere così gentile da fare una passeggiatina di dieci minuti, o di aspettarmi, diciamo, per dodici minuti? Sarò di ritorno con la mia roba». Salii dunque tre rampe di scale e bussai alla porta dell’appartamento. Venne ad aprire una donna asiatica; un’altra più o meno dello stesso aspetto stava proprio dietro di lei, ed era senza cappello. Entrai e dissi: «Vostro marito sta per finire a Sing Sing per il furto del mio orologio. Ho saputo che la mia catena e il mio soprabito, anch’essi rubati, sono qui, e vado a prenderli». Al che le due donne cominciarono a fare un gran baccano e minacciarono di andare a chiamare subito la Polizia. Non ricordo con precisione che cosa dissi, so soltanto che ero assolutamente calmo e dissi loro che si stavano sbagliando se pensavano di chiamare la Polizia, perché ciò avrebbe soltanto peggiorato la situazione per l’uomo. Inoltre, siccome sapevo benissimo dov’erano la catena e il soprabito, li avrei presi prima che la Polizia arrivasse. Non ricordo se accennai o no al fatto che la donna si sarebbe resa complice se la Polizia fosse arrivata e avesse visto che avevo io già rinvenuto catena e soprabito. Comunque, non vedevo nessun posto in quella stanza in cui potesse trovarsi la catena, e mi infilai in un’altra stanza. C’era poco mobilio, oltre a un letto matrimoniale e un baule di legno dall’altra parte del letto. Dissi: «Ecco, la mia catena è in fondo a quel baule sotto i vestiti, e adesso la prendo. Porta attaccato un astuccio d’oro con una bussola, e potrete constatare che prenderò solo queste cose, che so che sono qui, e nient’altro». Mi chinai e fortunatamente il baule non era chiuso a chiave.
Tirati fuori tutti i vestiti - abiti di ottima qualità - giunsi a un giacimento di ciondoli e catenelle di evidente provenienza, tra i quali si trovava la mia catena. Subito la attaccai al mio orologio, e nel farlo notai che la seconda donna (quella senza cappello) era scomparsa, nonostante il vivo interesse con cui aveva seguito tutti i miei gesti. «Adesso» - dissi – «resta solo da trovare il mio soprabito». Posso aver usato anche altre parole, non fa differenza. La donna allargò le braccia e disse: «Favorite pure di guardare dove vi pare». Dissi io: «Vi sono grato signora, perché lo straordinario cambiamento nel vostro tono rispetto a quando cominciai a frugare nel baule mi assicura che il cappotto non è qui. Vi ringrazio cordialmente ma credo che riuscirò a trovarlo, proprio così». Uscii dunque dall’appartamento e subito notai che ce n’era un altro sullo stesso pianerottolo.
Anche se non ricordo con certezza, probabilmente ero convinto che la scomparsa dell’altra donna fosse collegata con la mia evidente determinazione a cercare il soprabito nell’appartamento da cui ero appena uscito. Di sicuro pensavo che l’altra donna non doveva abitare lontano. Tanto per cominciare bussai alla porta dell’appartamento di fronte. Vennero ad aprire due ragazze di razza gialla o simile. Alle loro spalle vidi un salotto dall’apparenza rispettabile con un bel pianoforte. E sul pianoforte c’era un bel pacco proprio della grandezza e della forma adatte a contenere il mio soprabito. Dissi: «Ho bussato perché c’è un pacco, qui, che mi appartiene; oh, guarda, è quello là, lo prendo subito». Così dicendo le spinsi gentilmente da parte, presi il pacco, lo aprii, trovai il mio soprabito e lo indossai. Scesi in strada e raggiunsi il mio detective giusto quindici secondi prima che i dodici minuti fossero scaduti.

2. Il fiuto del filosofo

Qui Peirce dà dunque libera cittadinanza al principio della possibile validità di ciò che si chiamerebbe correntemente intuito, e che più sofisticatamente si direbbe oggi frutto di una percezione e di un lavorìo in gran parte subliminale.
Scrive Peirce a commento e spiegazione per analogia della sua riuscita impresa, sempre in Guessing:

La mia supposizione è che al fondo del piccolo mistero sia celato un principio spesso asserito ma mai, credo, sostenuto dall’osservazione scientifica, almeno finché il professor Joseph Jastrow e io eseguimmo alla Johns Hopkins University una certa serie di esperimenti.
Questi esperimenti avevano mostrato che c’erano variazioni piccolissime di peso, che non venivano consapevolmente riconosciute, ma che invece venivano, con maggioranza statistica rilevante, correttamente enunciate, quando i soggetti osservati si abbandonavano a tirare a indovinare, come superando il blocco psichico dell’eccessivo impegno dell’autocoscienza, tutta tesa nell’autoriflessione.

Per parte mia, nella mia Premessa a Guessing, nel volumone citato delle Opere di Peirce, a pagina 1001, ho cercato di approfondire così la questione:

Noi, in questi casi, come quando a una prima impressione diciamo nel nostro cuore decisi «questa faccia non mi piace», o come fa Peirce quando riesce a riconoscere un sintomo di colpevolezza nel ‘negro’, siamo ben sicuri di questa conclusione, di questo giudizio-impressione. Ma non riusciamo a risalire alle premesse di questo argomento ipotetico.
Perché? Qui commento ed esplicito la linea di ragionamento che ha in mente Peirce. Spesso queste impressioni, soprattutto negative, sono riattivazioni o campioni di impressioni che noi abbiamo ricevuto, o meglio campioni di quella classe di impressioni che noi abbiamo imparato a ricevere e a immagazzinare, quando eravamo molto piccoli. Quando non sapevamo parlare del tutto o quasi. Tuttavia le abbiamo immagazzinate. E abbiamo imparato a stabilire certe connessioni. Per esempio: fra un certo odore e la malvagità o l’aggressività o la paura o la malevolenza.
Queste connessioni o inferenze della nostra prima infanzia, spesso confermate, e di vitale importanza, si sono radicate profondamente nella nostra memoria. Ma quando le abbiamo stabilite, non sapevamo etichettarle con i simboli. Né le premesse né le conclusioni erano espresse in parole. Quando abbiamo cominciato a parlare, era più facile e più importante verbalizzare la conclusione, il no, il non mi piace, invece delle premesse. Del resto la capacità di autoanalisi e di giustificazione di un giudizio di valore è molto tardiva e sempre difficilmente obiettivabile.
Ma vi è di più. Questi giudizi si fondavano su segnali olfattivi. Cioè su un senso il cui uso è molto fondato nella nostra animalità, nel nostro istinto della caccia, ma sempre più penalizzato nella nostra civiltà e nella nostra educazione. Ci insegnano molto presto che dobbiamo cancellare i nostri odori, non annusare gli odori degli altri e sforzarci di non sentirli.

Così i giudizi del tipo di quello vincente di Peirce sono al contempo molto repressi, anche se non propriamente rimossi, e quindi di difficile recupero, non verbalizzabili nelle premesse, ma, quando siano autenticamente riattivati, molto convincenti e ragionevoli quasi quanto un’asserzione o una previsione della fisica. Perché, se questo odore, che pure non so di primo acchito definire, non mi ha mai ingannato, e ha costituito un abito di riconoscimento di persona-di-cui-non-fidarsi, per quale motivo mi dovrebbe ingannare ora?
Naturalmente non è facile cogliere questi segnali. Ci vuole appunto, come si dice, fiuto. Questa fiutata va preparata. Non bastano forza logica e scientificità alla Holmes, energia interattiva e caparbietà, ci vuole l’abito alla Peirce del filosofo-segugio, la capacità, che è anche dell’artista, di distendere il massimo di intenzionalità nell’ottusità apparente del massimo di ricettività: per saper cogliere le piccole percezioni e le nostre risposte più profonde o più antiche.

In realtà io ho dato un’interpretazione della detection di Peirce, del suo comportamento interattivo, del suo successo, che è perfettamente fedele ai fatti da lui raccontati, e che, per le spiegazioni di questi fatti, porta a maggiore esplicitatezza e chiarezza quanto mi sembra suggerito da alcune considerazioni di Peirce: quelle ancorate al carattere sicuramente sensoriale e corporeo di certe «notificazioni di verità» e quelle che discendono dagli esperimenti sulla percezione inconsapevole, o imperfettamente fissata nella coscienza, delle piccole differenze di peso.
E così è tornato in ballo il fiuto, che avevamo già visto svolgere una funzione decisiva nel test, un po’ porcello e un po’ parodia sapida della medicina di qui tempi, condotto sull’orina da uno dei tre principi di Serendippo. Ma serendipità, coincidenze, azioni e iniziative sono la caratteristica originale nel Novecento del giallo americano: pragmatista, appunto.

3. La filosofia del detective

Nel 1929, nell’anno fatidico del crollo di Wall Street e della Grande Depressione, nel 1929, anno in cui appare il racconto giallo di Peirce nella rivista “The Hound and Horn”, Hammett sta scrivendo il suo capolavoro: Il falcone maltese.

Che Dashiell Hammett abbia letto il racconto di Peirce e sia influenzato dal fondatore del pragmatismo, è secondo il critico Steven Marcus estremamente probabile. Si veda al proposito la sua Introduzione all’edizione da lui curata dei racconti di Hammett dedicati al Continental Op (in ed. it. Mondadori). Questa ispirazione peirceana è denunciata, secondo Steven Marcus e secondo me, da un chiaro indizio filologico lasciato da Hammett. Che consiste in una sorta di manifesto filosofico che Sam Spade, il detective privato protagonista del romanzo Il falcone maltese, recita, al principio del capitolo VII, alla sua cliente: Brigid O’Shaughnessy:

Senza alcun preliminare, senza introduzione di sorta, cominciò a narrare alla ragazza [che è naturalmente Brigid] qualcosa che era successo alcuni anni prima nel Nord-ovest. Parlava con voce continua e decisa, priva di enfasi e di pause…

Spade parlava dunque come un saggista che legge un testo o come un conferenziere che ha una tesi che conosce bene da esporre, non come un predicatore, perché la voce era «priva di enfasi».

Ma veniamo infine a questa storia (seguendo l’ed. Longanesi del 1970):

Una volta a Tacoma un uomo chiamato Flitcraft era uscito dal suo ufficio in una società immobiliare, per andare a pranzo, e non era più tornato. Non si presentò ad un appuntamento che aveva alle quattro del pomeriggio per andare a giocare a golf, per quanto egli stesso avesse preso l’iniziativa di quell’incontro meno di mezz’ora prima di uscire per il pranzo. La moglie e i figli non lo videro mai più. Per quel che se ne sapeva, Flitcraft e la moglie erano in ottimi rapporti. Aveva due ragazzini, uno di cinque e uno di tre anni. Possedeva una casa nei sobborghi di Tacoma, una Packard nuova, e tutti gli altri ingredienti di un cittadino americano che ha raggiunto il successo.

Qui si vede chiaramente la satira di matrice anarco-marxista ai miti dell’American way of life. Hammett era di formazione più anarchica che marxista, anche se sarebbe stato iscritto al partito comunista. Nel dopoguerra, avrebbe passato anche sei mesi in prigione, per essersi rifiutato di deporre e di riferire i nomi dei suoi compagni, durante la famosa campagna maccartista contro le cosiddette attività «antiamericane». E forse un po’ del sentimento di solidarietà di Spade per il socio e del sentimento di solidarietà di Hammett per i compagni di partito doveva venire da un abito che Hammett aveva cominciato a formarsi quando militava in un’organizzazione che non era certo progressista, come l’Agenzia di Investigazione Pinkerton, che teneva bordone ai capitalisti e intimidiva anche nei modi più delittuosi operai e sindacalisti.
La sua compagna Lillian Hellman ci dice dell’influenza su Hammett degli anni giovanili di lavoro come agente della Pinkerton. E anche della difficoltà di Hammett di staccarsi da questi suoi precedenti. E il primo modo di staccarsi fu quello di un rifiuto anarchico della violenza dello sfruttamento e della corruzione.

Ma riprendiamo il racconto di Spade:

Flitcraft aveva ereditato settantamila dollari da suo padre e, con i successi che aveva ottenuto nel settore immobiliare, nei dintorni veniva valutato duecentomila dollari, all’epoca in cui scomparve. I suoi affari erano in ordine, per quanto i conti non fossero chiusi e sistemati in modo tale da rivelare i preparativi di uno che ha intenzione di andarsene. […]. Bene, questo accadde nel 1922. Nel 1927 facevo parte di una delle più importanti agenzie di investigazione di Seattle. La signora Flitcraft venne a raccontarci che qualcuno aveva visto un uomo, a Spokane, il quale somigliava notevolmente a suo marito. Ci andai. Era Flitcraft, infatti. Abitava a Spokane da un paio di anni come Charles (che era il suo vero nome) Pierce.

Sì: è scritto «Pierce» invece che «Peirce». Ma la differenza è lievissima. Peirce è appena anagrammato: una semplice inversione nell’ordine delle due vocali e-i.
Hammett avrebbe potuto leggere il testo di Peirce ed essere indotto a ripensarne il pensiero. E la cosa è resa più plausibile da un’innegabile convergenza che si può riscontrare tra la fine e, diciamo, la morale della favola della storia di Flitcraft alias Pierce e i temi dell’alternanza fra dominio della fissazione dell’abitudine e slancio innovativo-abduttivo nella riflessione di Peirce.
Vediamo. Spade continua il suo racconto, dicendoci che questo Flitcraft ritrovato, a Spokane «aveva una rappresentanza di automobili che gli rendeva venti o venticinquemila all’anno, una moglie, un bambino, possedeva una casa alla periferia di Spokane, e aveva l’abitudine di andare a giocare a golf dopo le quattro del pomeriggio, nella stagione favorevole».
Dunque, nella sua nuova vita, Flitcraft-Pierce si comportava quasi esattamente come prima, come prima della fuga.
A Spade non avevano detto con molta precisione che cosa avrebbe dovuto fare quando avesse rintracciato Flitcraft. Chiacchierarono nella stanza di Spade al Davenport. Flitcraft non aveva alcun senso di colpa. Aveva lasciato la sua prima famiglia ben provvista di mezzi, e quel che aveva fatto gli sembrava perfettamente ragionevole. La sola cosa che lo preoccupava era di riuscire a rendere questa ragionevolezza evidente anche a Spade. Non aveva ancora raccontato a nessuno la sua storia e così non si era mai trovato nella necessità di rendere esplicita la sua logica [corsivo mio]. Ci provò allora.
In un certo senso, la struttura di questa specialissima storia nella storia è quella rituale di una qualsiasi detection. Il detective Spade ha fatto la sua inchiesta: ha trovato il suo uomo, e conosce i fatti. Ora lui e noi vogliamo sapere il perché, i moventi, la logica, appunto, di questa fuga per rifarsi la vita. E come un molto speciale colpevole che non si sente tale, Flitcraft si confessa.

La strategia enunciazionale, invece, con cui viene introdotta la ‘confessione’ di Flitcraft è quella della parola distanziata e riportata. Hammett, per parlarci della sua concezione della vita, dà la parola a Spade, il quale dà la parola a Flitcraft. Esattamente come Platone nel Simposio per esprimere la sua filosofia dell’amore dà la parola a Socrate, che dà la parola alla voce di maga e di straniera di Diotìma che sale dalla profondità del ricordo…
È questa la modalità di enunciazione quasi canonica dei miti nel senso moderno, cioè da Platone in poi, dei miti di invenzione, in cui chi parla si distanzia, anche ironicamente, dalla fonte, e la fonte vale ambiguamente per la sua intensità di vissuto e bizzarria o irregolarità di esperienza. Tutto al contrario rispetto ai miti arcaici: sacri o di rivelazione. Dove chi parla, come Esiodo nella sua nostalgica e restaurativa Teogonia, si schiaccia sulla fonte, proclamandosi portavoce direttamente ispirato, e la fonte vale quanto è meno contaminata dal vissuto umano: è più divina o legata alla regolarità sacerdotale.

Comunque sia, va avanti nella sua rievocazione Spade rivolto a una più o meno fintamente interessata Brigid O’Shaughnessy, questo Flitcraft «convinse me» [corsivo mio]. Ma «non così la signora Flitcraft». La moglie, dico la prima moglie piantata, pensava che la fuga del marito fosse stata «una sciocchezza». E uno Spade qui molto intellettuale sospende il giudizio per ora. Concede che «forse lo era». Comunque la situazione si appianò tranquillamente. Continua Spade: «Lei non voleva scandali e, dopo lo scherzetto che lui le aveva giocato (era così che lei lo vedeva), non rivoleva neppure il marito. Così divorziarono zitti zitti ed ogni cosa tornò al suo posto».
È Spade che ha la parola e riferisce la confessione di Flitcraft. È Spade, un personaggio, che parla, e perciò il discorso è riportato fra virgolette:

«Ecco che cosa gli era successo. Andando a pranzo era passato sotto un edificio in costruzione, di cui era stato eretto solo lo scheletro. Un pezzo di trave, o roba del genere, precipitò da un’altezza di otto o dieci piani e venne a cadere sul marciapiede a poca distanza da lui. Lo sfiorò quasi, ma non lo toccò; però un pezzo di marciapiede, proiettato in alto dall’urto, andò a colpirgli una guancia. Gli portò via solo un pezzetto di pelle, ma gli era rimasta ancora la cicatrice quando lo vidi. Se la massaggiava con un dito, dolcemente, con affetto, mentre me ne parlava».

Questa rappresentazione iconica di Flitcraft che massaggia la cicatrice dell’evento che lo colpì, e con ciò lo scosse dal suo sonno dogmatico, è certo un’invenzione da grande scrittore.

«Naturalmente s’impressionò moltissimo, diceva, ma in realtà era rimasto più sbalordito che spaventato. Ebbe l’impressione che qualcuno avesse strappato via il velo che gli nascondeva la vita e gli avesse dato la possibilità di vedere le cose che lo circondavano».

Ma ora prende la parola Hammett, o meglio il narratore, l’io in cui si invera e si disincarna Hammett nella pagina, perciò il discorso non è racchiuso fra virgolette:

Flitcraft era stato un buon cittadino, un buon marito e un buon padre, non per qualche spinta esterna, ma semplicemente perché era un uomo che trovava massimamente confortevole andare di pari passo con ciò che lo attorniava. Era cresciuto così.

Nel Fissarsi della credenza, un saggio fondamentale di Peirce, questo è uno dei tre modi di irrigidimento dell’esistenza nella schiavitù dell’abitudine, dell’«abito», che Peirce classifica e critica. Questo è infatti il modo su cui si basa il principio di autorità e il principio di conformismo. Consiste nel comportarsi in un certo modo, perché così fan tutti. Ma perché lo fanno tutti? Perché è confortevole. Perché conviene: dà sicurezza. Perché, insomma, uno non ha grane a seguire le consuetudini: non si mette in urto con il capoufficio, il caporeparto, il preside, con la moglie, con i superiori, con la gente, con i vicini - come invece spesso, se uno va controcorrente, può capitargli.

Era cresciuto così. La gente che conosceva era fatta così. La vita che conosceva era una faccenda pulita, ordinata, sana, responsabile. Ora quel pezzo di trave che gli era cascato davanti gli aveva dimostrato che sostanzialmente la vita non è niente di tutto ciò. Lui, il buon cittadino-marito-padre, poteva essere cancellato con un colpo di spugna tra l’ufficio e il ristorante, per colpa d’un pezzo di trave. Apprese allora che gli uomini muoiono per accidenti come quello, e che vivono solo finché il cieco caso li risparmia.
Ma questo è proprio il nocciolo, l’ispirazione morale della filosofia di Peirce: noi umani, noi «poveri animali», come diceva Leopardi, viviamo una condizione di precarietà, di squilibrio rispetto all’ambiente che fa sempre materia di problema. Peirce è fondatore del pragmatismo, che lui preferiva chiamare «pragmaticismo», in quanto riprende il paradigma biologicista di Darwin per interpretare la condizione esistenziale. Il gran libro di Darwin è del 1859, i primi saggi importanti di Peirce sono del 1867-1868.
Al paradigma biologicista Peirce dà già una prima spinta esistenzialeggiante, che naturalmente è ben più forte in chi scrive in questo 1929, anno della grande crisi americana e di inizio della grande depressione, e quasi alla vigilia dei film di Carné e dell’esistenzialismo francese in Europa. Il falcone maltese è un manifesto di pragmaticismo esistenzialista.
La cosa divertente, così si conclude la storia di Flitcraft, era che, divenuto Pierce, non si era «mai reso conto di essere andato spontaneamente a ricascare sugli stessi binari dai quali era saltato fuori a Tacoma». Anzi, credeva di avere appreso perfettamente la lezione, e quindi di essere diventato padrone della sua esistenza: cioè di saper vivere senza disinganni, con dispositività e avventurosità la sua vita. Invece, era ricaduto nei bisogni di sicurezza, di sicurezza psicologica e di conformità.
Ma d’altronde, passando dall’ironia del disincanto alla seriosità della proposta: cosa e come si tratta di vivere? Che tipo di vita si tratta di cercare di avere e di fare? E come la si deve organizzare? Comprendendo bene che l’interessante è l’inventiva e l’istinto della caccia, ma standosene tranquilli a fare gli intellettuali ‘a distanza’? Oppure invece vivere buttandosi nella mischia?

A quanto pare, la scelta di Sam Spade era stata quella di buttarsi nella mischia. Perché, d’altra parte, altrimenti, senza buttarsi nella mischia, i ‘casi’ non potevano sul serio venire risolti. Proprio se erano i casi della vita, della realtà: della realtà dura, sporca, brutale come è: casi di ritrovamenti di oggetti, transazioni d’affari - cose cioè che crescono e si intrecciano a mano a mano che tu partecipi e lotti, e le giri in una maniera o nell’altra, ‘pragmaticamente’, appunto; non delitti già bell’e fatti - che tu puoi credere di capire ‘stando fuori’, con l’ausilio delle scienze della natura, alla Holmes, o anche delle scienze dell’uomo, della psicologia, come sarà poi nello stile di Maigret.
Non solo Spade, ma anche Hammett, pensavano che non ci si potesse permettere di stare fuori, a fumare tranquilli la pipa. Hammett pensava che si dovesse entrare nella mischia. Così pensava Hammett, che aveva vissuto dall’interno il bene e il male, lui che aveva appreso in prima persona che i potenti e i tuoi stessi capi potevano benissimo offrire a te detective cinquemila dollari per fare fuori un sindacalista: cinquemila dollari, che è, a un certo momento del romanzo, l’offerta a Spade per procurare il falcone.
Entrare nella mischia non voleva dire non avere una propria linea. A un certo punto del romanzo, Effie Perine definisce Spade, più o meno ironicamente, «cavaliere senza macchia e senza paura» (pagina 205). E una volta (a pagina 123) Spade parla del suo metodo: «Il mio modo di capire è di ficcare nel meccanismo una grossa leva dentata, selvaggia e imprevedibile». Per rimettere in un certo ordine gli ingranaggi, beninteso. Tenendo fede ad alcuni valori netti: la solidarietà, l’amicizia, certi rapporti che malgrado tutto si riesce a mantenere e a costruire pur nella precarietà del mondo.
Sembra quasi che Hammett-Spade così si rivolga alla memoria di Peirce: «Per te era più comodo. Tu, anche se non sei mai andato a occupare una cattedra universitaria, anche se hai vissuto quale genio solitario e incompreso, però nei tuoi articoli e nei tuoi appunti potevi tirare le somme e compiacerti di aver visto chiaro: di avere visto chiaro e lontano, ma tenendo i drammi dell’esistenza a distanza. Soluzione serena e felice. Possibile a uno studioso, non a un uomo pratico».

4. Chi è Sam Spade?

Alla luce di questo straordinario racconto nel racconto, si capisce bene come Il falcone maltese non sia soltanto il capostipite e il manifesto del giallo d’azione, e l’istituzione del detective privato moralista e solitario e puro eroe del bene, come viene poi fissato da Raymond Chandler nel celebre ma ingenuo personaggio di Marlowe.

Proviamo a fare un giochino: accostiamo i due detective e vediamo di indovinare la loro identità dopo quanto sappiamo di Spade. Un riconoscimento all’americana. Leggiamo la descrizione del primo uomo:

Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’aria troppo tersa sopra la collina. Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito ben raso e sobrio, e non me ne importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’investigatore privato elegante. Andavo a far visita a un milione di dollari… Sopra le porte d’ingresso abbastanza grandi per lasciar passare un branco d’elefanti indiani, riluceva un pannello di mosaico di vetro che rappresentava un cavaliere dall’armatura scura in atto di liberare una damigella legata a un albero e vestita solo di lunghi e convenienti capelli. Il cavaliere, tanto per la compagnia, aveva tirato indietro la visiera dell’elmo e stava recidendo le corde che legavano la donzella all’albero. Mi fermai un momento, pensando che, se avessi abitato nella casa, presto o tardi mi sarei arrampicato là sopra per dargli una mano. Non aveva l’aria di mettercela tutta.

Può essere questo il personaggio che cerchiamo? Può essere questo Spade? O invece quest’altro, che ora viene? State attenti:

Un telefono squillò nel buio. Quando ebbe suonato tre volte, le molle di un letto gemettero, le dita di una mano si mossero a tentoni sul legno, un piccolo oggetto pesante cadde con un rumore sordo su un tappeto, le molle gemettero ancora, e una voce d’uomo disse: «Pronto… Sì, con chi parlo?… Morto?… Sì… Un quarto d’ora. Grazie». […]. Raccolse l’accendino di nichel e cinghiale che era caduto sul pavimento, lo fece funzionare e si alzò con la sigaretta accesa in un angolo della bocca. Si tolse il pigiama. La glabra grossezza delle braccia, delle gambe e del corpo, la curva delle ampie spalle rotonde lo facevano apparire simile ad un orso. Come un orso rasato, però: il petto era senza peli. La pelle era morbida e rosea come quella di un bambino. Si strofinò dietro il collo e cominciò a vestirsi. Indossò una leggera canottiera bianca, calze grigie, giarrettiere nere, scarpe d’un color marrone scuro. Allacciatesi le scarpe, alzò il ricevitore, chiamò Gray stone 4500 e chiese un tassì. Infilò una camicia bianca a righine verdi, un colletto floscio bianco, una cravatta verde…

Sì, avete indovinato: è quest’ultimo Spade. Forse qualcuno si è basato, alla Holmes, sugli indizi materiali, sulle differenze tra i due elenchi di indumenti, per l’identificazione. Certo, le giarrettiere e soprattutto la separatezza fra camicia e colletto datano il secondo personaggio, lo fanno apparire subito il più anziano, il capostipite, visto che fra i due si avverte pure una cert’aria di famiglia.
Per presentarvelo senza l’etichetta del nome, abbiamo introdotto il personaggio di Hammett partendo dal secondo capitolo. Hammett, invece, per parte sua, in questo Falcone maltese, presenta il suo uomo questa volta in modo piano, senza trucchi di suspense, subito nell’attacco con nome e cognome. Il primo capoverso del primo capitolo, intitolato «Agenzia Spade & Archer», comincia con le parole «La mascella di Samuel Spade» e finisce con la seguente proposizione: «Somigliava, in modo abbastanza attraente, a un diavolo biondo».
Ma non approfondiamo questo riferimento ai tratti, anche fisicamente, eccezionali, dandy, «diabolici», del nostro eroe. Che qui segue del resto, più o meno consapevolmente o ironicamente, una tradizione. Torniamo piuttosto ai due brani del nostro test, del nostro esercizio di confronto. E cerchiamo di tirare fuori le differenze. Ce n’è una che investe le due modalità di enunciazione, i due punti di vista nella narrazione, le due intonazioni.
Voglio dire che c’è un abisso fra la terza persona, obiettivante, di Hammett, e la prima persona, intimistica, gigioneggiante e dindonante, del personaggio-raccontatore dell’altro brano: che è Marlowe, l’eroe di Raymond Chandler.

Certo è che lo stile di Hammett, alieno da ogni intimismo e da ogni flusso di coscienza, è più asciutto e meno sentimentale anche di quello di Hemingway, e anticipa, come notò Leonardo Sciascia, l’esperimento del Nouveau Roman, con il rifiuto del flusso di coscienza e con il ricorso esclusivo alla descrizione esterna del parlato e dell’azione, secondo d’altronde quanto veniva imposto dalla pratica di lavoro dello sceneggiatore cinematografico.
Hammett nel Falcone maltese fonde detection, romanzo d’avventure e romanzo drammatico d’amore secondo una modalità assolutamente nuova e avvincente.
Il personaggio di Spade riesce a essere, insieme, cinico e disincantato, ed eroe assolutamente positivo, nella strenua adesione a un suo imperativo, a un suo abito di iniziativa e di morale: per cui riesce a mantenersi e a camminare, ritto e diritto, risoluto, in equilibrio fra le opposte illusioni del conformista e dell’avventuriero.

Vivi come un detective! è il suo messaggio. E Il falcone maltese è un manifesto di pragmaticismo esistenzialista.