inizio rosso e giallo


Jacques Lacan

La cosa freudiana


(...) Non a caso questa storia si è mostrata propizia a dar seguito a un filone di ricerca che già vi aveva trovato appoggio. Si tratta, come sapete, del racconto che Baudelaire ha tradotto con il titolo La lettera trafugata (La lettre volée). Fin dall'inizio vi si distinguerà un dramma dalla narrazione che ne è fatta e dalle condizioni di questa narrazione. Del resto, si vede subito cosa rende necessarie queste componenti, e come esse non abbiano potuto sfuggire alle intenzioni di chi le ha composte. La narrazione, infatti, doppia il dramma di un commento senza di cui non ci sarebbe possibile messa in scena...

Queste scene sono due: di esse designeremo subito la prima con il nome di scena primitiva, e non per disattenzione, giacché la seconda può essere considerata come la sua ripetizione, proprio nel senso che qui è all'ordine del giorno. La scena primitiva dunque si gioca, ci si dice, nel boudoir reale, di modo che noi supponiamo che la persona di rango più elevato, chiamata ancora l'illustre persona, che è sola quando riceve una lettera, sia la Regina. Questo sentimento si conferma per l'imbarazzo in cui la getta l'ingresso dell'altro illustre personaggio, di cui ci è già stato detto prima di questo racconto che la nozione che questi potrebbe avere di detta lettera, metterebbe in gioco per la dama nientemeno che l'onore e la sicurezza. Infatti ci è prontamente tolto il dubbio che si tratti proprio del Re, dalla scena che si svolge con l'ingresso del ministro D...

A questo punto, infatti, la Regina non ha potuto far di meglio che giocare sulla disattenzione del Re lasciando la lettera sul tavolo «rivoltata con l'indirizzo di sopra». Tuttavia essa non sfugge all'occhio di lince del ministro, che non manca nemmeno di rimarcare lo smarrimento della Regina e di sventare così il suo segreto. Da questo momento tutto si svolge come in un orologio. Dopo aver trattato con il tono e lo spirito che gli sono abituali gli affari correnti, il ministro prende di tasca una lettera che somiglia d'aspetto a quella che ha sotto gli occhi, e facendo finta di leggerla la depone di lato a quest'ultima. Qualche parola ancora con cui divertire il regale pubblico, e rattamente si impossessa della lettera imbarazzante, sgombrando il campo senza che la Regina, a cui nulla è sfuggito dei suoi maneggi, abbia potuto intervenire per timore di risvegliare l'attenzione del regale congiunto...

Tutto avrebbe potuto passare inosservato per uno spettatore ideale di una operazione in cui nessuno ha fiatato, e il cui quoziente è che il ministro ha sottratto alla Regina la sua lettera e, risultato ancora più importante del primo, che la Regina sa adesso che è lui ad averla, e non innocentemente. Un resto che nessun analista trascurerà, messo lì com'è a riportare tutto ciò che è proprio del significante, senza tuttavia saper sempre che farne, la lettera lasciata a buon conto dal ministro e che la mano della Regina può ora appallottolare...

Seconda scena: nel gabinetto del ministro. E nella sua casa, e noi sappiamo, stando al racconto che il Capo della polizia ne ha fatto a Dupin, che la polizia da diciotto mesi, tornandoci tutte le volte che glielo hanno permesso le assenze notturne abituali del ministro, ha perquisito la sua abitazione e dintorni, frugandoli da cima a fondo. Invano - benché chiunque possa dedurre dalla situazione che il ministro tenga la lettera a portata di mano. Dupin si è fatto annunciare al ministro. Costui lo riceve con ostentata noncuranza, con discorsi che effettuano una romantica noia. Dupin, tuttavia, che non è tratto in inganno dalla finta, con gli occhi protetti dai suoi occhiali verdi, ispeziona il luogo. Quando il suo sguardo si posa su un biglietto tutto sgualcito che sembra abbandonato nella casella di un laido portacarte di cartone che richiama l'attenzione per i suoi lustrini, appeso nel bel mezzo della cappa del camino, sa già di avere a che fare con ciò che cerca...

A questo punto non deve fare altro che congedarsi, dopo avere «dimenticato» la tabacchiera sul tavolo, per ritornare l'indomani a cercarla, armato di una copia contraffatta che simula l'aspetto attuale della lettera. Un incidente nella strada, preparato perché scoppiasse al momento giusto, attira il ministro alla finestra: Dupin ne approfitta per impossessarsi della lettera e sostituirla con quella che ne ha il sembiante, col che non gli rimane che salvare presso il ministro le apparenze di un normale congedo. Anche qui è avvenuto se non proprio senza rumore, senza fracasso. Il quoziente dell'operazione è che il ministro non ha più la lettera, ma lui non ne sa nulla, lungi dal sospettare che è Dupin che gliel'ha sottratta...

C'è bisogno che sottolineiamo che queste due azioni sono simili? Sì, perché la similitudine cui miriamo non è fatta della semplice riunione di tratti scelti al solo scopo di apparigliarne la differenza. E non basterebbe tener fermi questi tratti di rassomiglianza a spese degli altri perché ne risulti una qualche verità. È l'intersoggettività in cui le due azioni si motivano che vogliamo mettere in rilievo, e i tre termini con cui essa li struttura. Il privilegio di questi ultimi si giudica dal fatto che essi rispondono insieme ai tre tempi logici attraverso cui si precipita la decisione, e ai tre posti che questa assegna ai soggetti che ripartisce. Questa decisione si conclude nel momento di uno sguardo...

Tre tempi che ordinano tre sguardi sostenuti da tre soggetti, incarnati ogni volta da persone diverse. Il primo comporta uno sguardo che non vede niente: è il Re, la polizia. Il secondo, uno sguardo che vede che il primo non vede niente, e s'illude di vedere coperto ciò che nasconde: è la Regina, poi il ministro. Il terzo è quello che del primo e del secondo sguardo vede che lasciano ciò che è da nascondere allo scoperto per chi vorrà impossessarsene: è il ministro, e alla fine Dupin...

Ciò che ci interessa oggi è il modo con cui i tre soggetti si danno il cambio nei loro spostamenti nel corso della ripetizione intersoggettiva. Vedremo che il loro spostamento è determinato dal posto che viene a occupare quel puro significante che è la lettera trafugata, nel loro trio. Sta qui ciò che ce lo confermerà come automatismo di ripetizione. Possiamo considerare una semplice razionalizzazione, secondo il nostro rude linguaggio, il fatto che la storia ci sia raccontata come un enigma poliziesco? In verità ci sentiremmo in diritto di considerarlo poco certo, se notiamo che tutto ciò in cui un simile enigma si motiva a partire da un crimine o da un delitto - cioè la sua natura e i suoi moventi, i suoi strumenti e la sua esecuzione, il procedimento per scoprirne l'autore e la via per provarlo - qui è accuratamente sottratto in partenza a ogni peripezia...

Il dolo è sin dall'inizio chiaramente conosciuto tanto quanto le mene del colpevole e i loro effetti sulla vittima. Il problema, quando ci viene esposto, si limita alla ricerca, ai fini della restituzione, dell'oggetto a cui attiene il dolo, e sembra del tutto intenzionale che la sua soluzione sia già ottenuta quando ce lo si spiega. E per questo che si è tenuti col fiato sospeso.
Di fatto, quale che sia il credito che si può fare alla convenzione di un genere per suscitare un interesse specifico nel lettore, non dimentichiamo che «il Dupin» è un prototipo...

Sarebbe tuttavia un altro eccesso ridurre il tutto a una favola la cui morale sarebbe che, per conservare lontana dagli sguardi una di quelle corrispondenze il cui segreto è talora necessario alla pace coniugale, basti lasciarne in giro i fogli intestati sul proprio tavolo, sia pur rivoltati sulla loro faccia significante. È un trucco che per parte nostra non raccomanderemmo mai a nessuno di provare, temendo che se si fida ci resti male. Qui dunque non ci sarebbe altro enigma che, da parte del Capo della polizia, un'incapacità all'origine di un insuccesso - salvo forse da parte di Dupin una certa discordanza, che non ammettiamo volentieri, tra le osservazioni certamente molto penetranti benché non sempre pertinenti nella loro generalità, con cui ci introduce al suo metodo, e il modo con cui di fatto interviene...

Arriveremmo presto a chiederci se, dalla scena inaugurale che solo la qualità dei nostri protagonisti salva dal vaudeville, fino alla caduta nel ridicolo che nella conclusione pare promessa al ministro, ciò che ci dà piacere non sia il fatto che tutti sono giocati. Saremmo tanto più inclini ad ammetterlo in quanto vi ritroveremmo, insieme a coloro che ci leggono, la definizione che abbiamo dato, da qualche parte di sfuggita, dell'eroe moderno, come colui «cui dàn lustro imprese derisorie in una situazione di smarrimento». Siamo forse presi anche noi dalla prestanza del detective amatore, prototipo di un nuovo matamoro, preservato ancora dall'insipidità del superman contemporaneo?...

J. Lacan, Ecrits, Editions du Seuil, Paris 1966. Ed. italiana Einaudi, 1962, trad. di G. Contri e S. Loaldi

Marina de Carneri

L'inconscio maschile

È un errore pensare che l’inconscio sia qualcosa di misterioso e sconosciuto che sta nel più profondo della psiche e che deve essere evocato con tecniche speciali. La caratteristica delle idee inconsce è al contrario di essere fin troppo visibili, cioè di essere così ovvie ed evidenti da non essere prese in considerazione. Queste idee costituiscono una rete di significati talmente fitta e pervasiva che la loro azione sulle scelte individuali è di solito interamente ignorata. L’inconscio è tale semplicemente perché non viene osservato dalla giusta prospettiva, basta cambiare punto di vista, cosa per altro non facile,  e il disegno che prima era dissimulato si delinea con chiarezza. Nel Seminario XVI Lacan ha coniato il termine “extimità” come opposto di “intimità” per indicare la natura dei pensieri inconsci che da un lato sono quel che l’individuo considera più intimo e personale e dall’altro invece sono reperibili come qualcosa di esterno. Dire che l’inconscio è extimo invece che intimo significa indicare che quel che è percepito come la cosa più segreta e personale, è in realtà un messaggio venuto dall’esterno e ciò che è esterno alla psiche si chiama società.

Lacan a suo tempo ha utilizzato un racconto di E.A. Poe per illustrare come funziona l’inconscio nella sua dimensione sociale. Il racconto si chiama “La lettera rubata”. Il protagonista è uno dei primi detective della storia della letteratura. Auguste Dupin è una specie di proto Sherlock Holmes che un giorno riceve una richiesta d’aiuto dal Prefetto della polizia di Parigi che è stato incaricato di ritrovare una lettera compromettente sottratta dal salotto di una gran dama e sostituita con un’altra di nessuna importanza. La Dama sa che la lettera è stata rubata dal ministro D. che ora la tiene sotto ricatto di divulgarne il contenuto. Il Prefetto si rivolge a Dupin perché pur avendo perquisito la residenza del Ministro D., non ha trovato nulla e non sa più che altro fare.

Dupin va a trovare il ministro D. nella sua residenza indossando un paio di occhiali scuri per non far vedere che sta perlustrando la stanza in cerca della lettera. L’occhio gli cade su un manoscritto che non assomiglia affatto a quello appartenente alla Dama perché porta il sigillo del ministro, ma Dupin riesce a vedere che si tratta in realtà proprio della lettera rubata arrotolata sull’altro lato e ri-sigillata con il sigillo del ministro. Il giorno dopo, Dupin trova una scusa per andare a trovare di nuovo il ministro e chiede a un complice di far scoppiare uno sparo in strada. Approfittando del trambusto, sostituisce la lettera rubata con un’altra lettera su cui lascia un messaggio per il ministro.

In che senso questo racconto mostra il funzionamento dell’inconscio? Il modello lacaniano dell’inconscio deriva dall’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. Sarebbe lungo spiegare qui come funziona l’inconscio strutturale lacaniano, per brevità diciamo che per Lacan la lettera rubata rappresenta l’istanza del desiderio, cioè il fattore inconscio che guida le azioni e comportamenti degli esseri umani. La lettera è un modello del funzionamento dell’inconscio perché le azioni di tutti i personaggi della storia sono causate dalla loro relazione con essa. Nel linguaggio di Lacan, la lettera è “l’oggetto causa del desiderio” di tutti i personaggi. Infatti la storia comincia perché il ministro D. se ne impossessa; la destinataria della lettera, la Dama, subendone la perdita è spinta a chieder l’aiuto del Prefetto. Il Prefetto non avendola trovata, è costretto a rivolgersi a Dupin, il quale infine la ritrova e dopo averla sostituita con un’altra che contiene un suo messaggio personale per il ladro, la restituisce alla Dama.

L’azione del racconto è quindi messa in moto dal desiderio dei protagonisti di impossessarsi della lettera, tuttavia il suo contenuto non ci viene mai svelato e quel che più conta, Lacan, come Poe stesso, ritiene che non sia importante divulgarlo. La lettera quindi sembra non contare per quel che dice, ma perché chi la possiede assume potere sugli altri. Diciamo quindi che la lettera in quanto oggetto del desiderio ha una funzione fallica per chi la possiede. Il detective Dupin, naturalmente, è una metafora dello psicanalista che insegue la traiettoria del desiderio perduto (rimosso) dell’analizzante e riesce alla fine a restituirglielo.

Quindi se la lettera rubata custodisce un desiderio rimosso, questo desiderio, per quanto noto a tutti, continua a rimanere rimosso fino alla fine del racconto quando la lettera ritorna alla sua legittima destinataria. La lettera rubata rappresenta quindi il funzionamento dell’inconscio a condizione che rimanga rimosso. Alla psicanalisi ortodossa (che è fallica) basta restituire la lettera al suo proprietario, cioè le basta rianimare il desiderio perduto del soggetto senza analizzare come è stato costruito. Dal punto di vista di una psicanalisi critica (cioè femminista), invece, il compito dello psicanalista è di aprire la lettera e rivelarne il contenuto. Aprire la lettera significa mettere in luce i veri moventi dei protagonisti e con ciò modificare radicalmente le relazioni fra di loro, oltre che la natura stessa del loro desiderio.

Qual è quindi il contenuto della lettera rubata? Notiamo che le lettere che circolano nel racconto sono tre: la prima è quella sottratta dal Ministro alla Dama; la seconda è quella con cui essa viene sostituita da parte del ministro. La terza è quella che Dupin lascia nella residenza del ministro al posto di quella vera. All’interno di questa terza e ultima lettera, Dupin scrive un messaggio per il ministro che consiste in una citazione da Atreo, una tragedia di Claude de Crébillon (un tragediografo francese  del 1700). Questa citazione è anche la conclusione del racconto e deve quindi essere considerata anche la morale della storia:
Un dessein si funeste, s'il n'est digne d'Atrée, est digne de Thyeste.
Un disegno così funesto se non è degno di Atreo, è degno di Tieste.

Atreo e Tieste sono due figure della mitologia greca. La tragedia di Crébillon parla della rivalità fra due fratelli in lotta per il trono di Micene. Tieste “seduce” la moglie di Atreo. Atreo allora per vendetta uccide i figli di Tieste e li serve al padre come pietanze a un banchetto. D’altra parte, il racconto di Poe ci dice che Dupin aveva un vecchio conto da regolare con il ministro D. che lo aveva insultato un giorno a Vienna. Dupin vuole quindi approfittare dell’occasione per dargli una lezione. Attraverso la citazione scritta sulla lettera, il detective si paragona ad Atreo e punisce il Ministro D.  con un destino “degno di Tieste”. Insomma, Dupin paragona la propria azione alla vendetta di Atreo e il torto che ha subito da parte del ministro alla seduzione della moglie di Atreo da parte di Tieste.
  
Volendo fare un po’ di ironia si tratta di una storia di nani seduti sulle spalle di giganti. I dispetti tra Dupin e il ministro sono solo una pallida ombra delle efferatezze raccontate dalla tragedia, tuttavia sono mossi dalle stesse dinamiche interpersonali e dagli stessi sentimenti. Lo si capisce dal messaggio contenuto nell’ultima lettera, quella lasciata da Dupin a casa del ministro D. che in parole povere dice: “ecco la tua meritata punizione per avermi insultato”

Emerge allora che il vero movente dei personaggi del racconto non è il possesso dell’oggetto del desiderio (la lettera). La lettera rubata è soltanto un veicolo che trasporta le passioni dei protagonisti. E quali sono le passioni fondamentali dei protagonisti? La citazione dalla tragedia di Crévillon svela che tali passioni sono il desiderio di potere e di vendetta che nella tragedia evocata sfociano nella lotta fratricida e nell’omicidio. Il presunto oggetto del desiderio, la lettera, non è in realtà affatto desiderata né desiderabile in sé, è semplicemente un’arma di volta in volta difensiva o offensiva che permette di stabilire una relazione ineguale (cioè di potere) sull’altro.

Una volta aperta, la lettera rubata svela come è costruito l’inconscio maschile: il codice del desiderio maschile prevede l’esistenza di una comunità di soli uomini in competizione fra loro per la conquista di un oggetto del desiderio mai veramente desiderato in se stesso, ma piuttosto invidiato al vicino. Kojève, il più influente interprete Hegel ha espresso questa dinamica con la formula: “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro”. Questo significa che nella comunità maschile un uomo desidera solo ciò che è già stato desiderato da un altro uomo e tendenzialmente vuole rubarglielo e prendere il suo posto.    

Prendere il posto dell’altro sottraendo ciò che l’altro si è procurato (il suo oggetto). Questa è la legge più antica dell’inconscio maschile, una legge che agisce tanto più indisturbata in quanto è rimossa e mascherata. Che sia dissimulata lo vediamo chiaramente nel racconto di Poe, dove la natura violenta dell’intervento di Dupin traspare solo attraverso la citazione, che rivela che il vero movente del detective non è l’amore per la verità o per la giustizia, né la passione per la conoscenza, ma il desiderio di vendicare uno sgarbo subito da un rivale.


La psicanalisi ha contribuito alla messa a nudo del contenuto osceno (osceno è ciò che non può e non deve essere messo in scena) dell’inconscio maschile con la costruzione del mito del Padre primitivo in Totem e Tabù. Con questo scritto, Freud si proponeva di rendere conto dell’ostilità verso il padre che aveva riscontrato nei suoi pazienti e in se stesso e che aveva denominato “complesso di Edipo”. Freud ipotizzò che l’immagine del padre primitivo facesse parte dell’eredità filogenetica della specie umana come traccia mnemonica tramandata attraverso le generazioni di un evento preistorico che riteneva aver dato inizio alla civiltà umana in quanto tale.

Freud aveva appreso dalla ricerca antropologica che le più arcaiche società umane viventi sono notevolmente egualitarie e che il loro unico principio di organizzazione è il totemismo. Il totem è un animale sacro in cui i membri di una stessa tribù si riconoscono. Qual è il significato del totem? Bisogna sotolineare che nelle società più primitive non esisteva consapevolezza della paternità. Poiché non esisteva il concetto di padre in quanto genitore, non esisteva nemmeno l’idea di un dio padre, o di un maschio/re che potesse arrogarsi il diritto di governare su tutti. In questo tipo di organizzazione sociale, il totem animale o vegetale supplisce all’inesistenza del padre svolgendo la stessa funzione che il cognome ha per noi, cioè serve a organizzare gli individui dei due sessi in gruppi familiari. Il totem funziona da codice di identificazione di un a tribù poiché grazie al totem tutti i membri di uno stesso gruppo si riconoscono come appartenenti a uno stesso ceppo, discendenti dalla stessa origine (l’animale totemico), si chiamano con il suo nome, ricevono la sua protezione, e si ornano con le sue insegne.

Il problema di Freud era spiegare come le prime società preistoriche egualitarie e comunistiche con il progredire della civiltà fossero diventate gerarchiche e autoritarie. Freud comincia rilevando che il totem è quasi sempre un animale (in verità non sempre, ma ci sono ragioni per pensare che lo sia sempre stato inizialmente) e spesso un animale commestibile. Inoltre se l’animale totemico muore, riceve un rito funebre uguale a quello riservato a un membro del clan. Se viene allevato e poi ucciso per necessità, è necessario compiere riti di purificazione per cancellare il peccato compiuto. Tuttavia, in occasione dei banchetti rituali, la sua carne viene offerta in sacrificio e mangiata da tutti i membri del clan.

Freud non poteva credere che i popoli primitivi pensassero davvero di discendere da un animale. Quindi,  ispirato dal saggio di Darwin L’origine dell’uomo, ipotizzò che i primissimi ominidi non vivessero affatto in comunità di eguali, ma che fossero raccolti in piccoli gruppi controllati da un maschio dominante che costringeva i più giovani a vivere ai margini riservandosi l’esclusiva gestione del potere e il godimento di tutte le donne. Secondo Freud, però:
Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo così fine all’orda paterna. Uniti, essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile all’individuo singolo (forse un progresso nella civiltà, il maneggio di un’arma nuova, aveva conferito loro un senso di superiorità). Che essi abbiano anche divorato il padre ucciso, è cosa ovvia trattandosi di selvaggi cannibali.
I figli, cioè i giovani del gruppo, stanchi di essere oppressi, emarginati e deprivati del godimento delle donne dal maschio più anziano, ordirono una congiura. Tutti insieme uccisero il padre e lo divorarono per acquisirne il potere. A quel punto ognuno dei fratelli ambiva a prendere il posto del padre e voleva impedire che gli altri occupassero quella posizione. Per evitare la guerra di tutti contro tutti, alla fine si giunse a un compromesso. Fu stabilito che nessuno avrebbe mai più potuto assumere il ruolo del Padre primitivo, il quale era morto per sempre. Così l’atto di cannibalismo nei confronti del Padre che inizialmente era servito ad appropriarsi del suo potere fu ritualizzato e il suo intento originario fu capovolto: diventò il pasto totemico, cioè un rito che non indicava più il potere assoluto che ogni figlio voleva ottenere per sé, ma simbolizzava il potere a cui ognuno rinunciava e che accettava di condividere con tutti i fratelli. Poiché l’uccisione del Padre primitivo era stata causata dal desiderio di prendere il suo posto e di sottomettere tutti gli altri fratelli, il suo ricordo diventò inaccettabile per la comunità. Il suo significato fu quindi rimosso e manipolato attraverso il rito del pasto totemico dove a morire non era più un uomo, il Padre primitivo, ma l’animale totemico al quale però erano attribuiti tutti poteri e gli onori che erano riservati al Padre.

Secondo questa ricostruzione mitica, fu l’assassinio del Padre a produrre nella psiche umana l'idea dell’eguaglianza tra i fratelli (la fratellanza). Il desiderio di potere e di sopraffazione degli uomini però, secondo Freud non si è mai dissolto, ma è semplicemente tenuto a freno dal senso di colpa ancestrale per delitto compiuto, un senso di colpa che  il rito del pasto totemico ha la funzione di rinnovare. Nel corso della storia e con l’allentarsi del senso di colpa, il Padre primitivo morto perde la sua maschera animale e ridiventa un padre, o meglio diventa un Padre Eterno, il dio della religione monoteista degli ebrei e poi dei cristiani che occupa il posto che a nessun padre terrestre è concesso occupare. Infine, nella sua ultima reincarnazione il fantasma del padre primitivo si manifesta come il Figlio di Dio che viene nuovamente ucciso, questa volta sulla croce rendendo necessario un nuovo rituale totemico di condivisione della colpa e di espiazione che si manifesta nel Rito dell’Eucaristia (eucharisto = rendo grazie) che secondo la religione cattolica è la celebrazione dell’Ultima Cena in cui Gesù distribuì ai suoi discepoli il pane ed il vino come suo corpo e suo sangue, offerti come sacrificio per la salvezza degli uomini, incaricandoli di fare lo stesso in sua "memoria".

Con la sua interpretazione in Totem e Tabù, Freud riteneva di aver descritto un evento realmente avvenuto che spiegava l’innegabile esistenza nella comunità umana di tre fondamentali meccanismi psichici: la repressione, la rimozione e il senso di colpa. La repressione del desiderio di potere negli uomini, la rimozione del ricordo del crimine ancestrale e la sua sostituzione con un onnipresente senso di colpa inconscio. La civiltà produce nevrosi, pensava Freud, perché gli uomini sono abitati da una inesauribile volontà di potenza che devono soffocare. La nevrosi deriva dal fatto che il parricidio commesso dagli ominidi dell’orda primitiva può essere solo fantasticato dagli uomini moderni o espresso nei loro sintomi nevrotici. Gli uomini "civilizzati" rimangono fratelli fintanto che tutti si adoperano a fare in modo il posto del Padre rimanga vuoto. Il modo più efficace di mantenerlo vuoto è di porre l'esistenza di un Essere di puro spirito che può essere invocato ogni volta che qualcuno dei pari minaccia di oltrepassare certi limiti.

Come dobbiamo interpretare la tesi di Freud sull’origine della civiltà? È naturalmente impossibile credere che tutto il corso della civiltà sia stato influenzato da un evento avvenuto nella preistoria che si è inscritto nell’inconscio di tutti gli uomini. Inoltre, non c’è alcuna prova che la prime bande di ominidi avessero la struttura sociale descritta da Freud e di conseguenza non c’è alcuna ragione di pensare che il significato del totemismo sia quello da lui indicato. Non c’è però alcun dubbio che Freud abbia molto lucidamente individuato i conflitti, le ossessioni e i desideri caratteristici degli uomini. In verità, non c’è bisogno di credere all’evento di un crimine primordiale per accorgersi che Freud ha individuato la costruzione fantasmatica che riproduce il desiderio maschile come desiderio alienato. Il mito di Totem e Tabù permette di leggere gli effetti nefasti di tale alienazione sugli uomini e ancora di più sulle donne. Se il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro, ogni uomo non desidera mai il proprio desiderio, ma il desiderio di un altro uomo e l’oggetto di tale desiderio alienato - la donna - non ha valore in sé, ma solo quale merce di scambio tra uomini.

È noto che la mitologia e la storia sono piene di storie di uomini in lotta tra loro: padri che uccidono i figli, figli che uccidono i padri, fratelli che si uccidono tra loro, mariti che uccidono le mogli che li hanno traditi o abbandonati. Tipicamente la colpa della violenza che scoppia regolarmente tra uomini è attribuita a una donna che però non entra mai a far parte dell’azione. Pensiamo per esempio alla guerra di Troia narrata nell’Iliade che scoppia a causa del rapimento di Elena, da parte del troiano Paride. Elena rappresenta l’archetipo femminile perché è l’incarnazione più pura dell’oggetto del desiderio che gli uomini si contendono.  Considerata la donna più bella del mondo, tutti i re delle città greche chiesero la sua mano, ma poiché la loro rivalità avrebbe potuto portare alla guerra, su suggerimento di Ulisse, il padre Tindaro fece giurare a tutti i pretendenti che una volta che Elena avesse scelto uno sposo, ognuno di essi sarebbe dovuto intervenire in aiuto del consorte se qualcuno la avesse rapita. Elena sposò Menelao, re di Sparta, ma fu in seguito rapita da Paride e portata a Troia. Contro Paride e contro la città di Troia si scatenò allora la ira degli Achei.

Anche nella ricostruzione freudiana, come nei miti (e non solo) le donne non figurano mai come soggetti desideranti, ma sempre solo come oggetti del contendere tra uomini. Quel che la mitologia mostra e la ricerca storica e antropologica hanno documentato è il fatto che tutte le civiltà che conosciamo sembrano essersi fondate sullo “scambio delle donne” da parte degli uomini. L’antropologo strutturale Lévi-Strauss ha chiamato questo costume “legge dell’esogamia”, per indicare il fatto che nelle società primitive le donne dovevano sposarsi con uomini che appartenevano a un clan diverso dal loro. Lévi-Strauss insiste sul fatto che erano sempre le donne a circolare e non gli uomini, i quali avevano diritto di proprietà su mogli e figli. A conferma di questo vale la pena di ricordare che l’ultimo dei dieci comandamenti nella sua forma non abbreviata formulata nel libro dell’Esodo dice:
Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo. (Esodo 20,1-14)
Da cui risulta evidente che il prossimo di cui si parla non è una donna - che qui è messa nella categoria delle proprietà dell’uomo allo stesso modo della casa, degli schiavi, del bue e dell’asino - ma è un altro uomo.

Così la ricostruzione freudiana si dimostra corretta. I dieci comandamenti sono leggi impartite da un’autorità maschile, un immaginario Dio maschio, a un capo tribù maschio per regolare i rapporti con gli altri capi tribù maschi. I codici della legge che troviamo all’inizio di tutte le civiltà servono a disciplinare le relazioni tra i capifamiglia maschi, cioè tra i patriarchi a cui è concesso il diritto di godimento assoluto su cose e persone del proprio clan, ma non su quelle del loro vicino.

È ovvio constatare che la cosiddetta civiltà ha sempre mostrato un’imbarazzante tendenza alla violenza e allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Quel che è ancora più ovvio, ma proprio per questo è stato opportunamente rimosso, è che la prima e più fondamentale forma di sfruttamento è stata quella dell’uomo sulla donna. Alla donna il Padre eterno, cioè la legge, comanda obbedienza. Ne troviamo di nuovo un’esplicita testimonianza nella Bibbia quando Yahwe dopo aver cacciato Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre dice alla donna:

    Io moltiplicherò i tuoi affanni e le tue gravidanze: con dolore partorirai i tuoi figli, sarai sotto la potestà del marito, ed egli ti dominerà. (Genesi 3,16 - Edizioni Paoline 1969)

Poiché la donna è stata il primo schiavo, la femminilità si identifica con la sottomissione e qualsiasi posizione di sottomissione diventa una posizione femminile. Ne consegue che l’inconscio maschile è dominato dal terrore della femminilità perché è dominato dal terrore della sottomissione, ed è dominato dal terrore della sottomissione perché sa che l’identità maschile si fonda sulla volontà di prevaricazione. Virilità viene da vir = uomo, ma ha la stessa radice di vis = forza. Un uomo usa la forza, mentre chi subisce la forza non è un uomo, è una donna e quindi uno schiavo. C’è da stupirsi se la paura più grande per un essere umano di sesso maschile è di essere messo in una posizione femminile? 

Infatti, in Analisi terminabile e interminabile, Freud ha osservato che ciò che fa ostacolo al progresso della cura psicanalitica negli uomini è “la ribellione contro la propria impostazione passiva o femminile nei riguardi di un altro uomo” (p. 67). Questo atteggiamento viene anche chiamato da Freud “rifiuto della femminilità”. Freud capì che per gli uomini era difficile concedere fiducia allo psicanalista proprio perché la dinamica elementare tra uomini non è mai di uguaglianza e di condivisione, ma sempre prima di tutto di gerarchia e di prevaricazione. Se l’orizzonte è fatto di forti e di deboli, nessuno vuole fare la parte del debole, cioè nessuno vuole identificarsi con la posizione femminile. Il femminile è quindi l’elemento rimosso dalla psiche maschile. L’identità femminile è cancellata dalla funzione servile che le è stata imposta.

Per questa ragione, dal punto di vista dell’inconscio maschile le donne non possono essere veramente desiderate per se stesse, ma solo in quanto oggetti di scambio e di consumo. Non è perché l’attrattiva sessuale delle donne è irresistibile che gli uomini entrano in conflitto fra loro, oppure più spesso le stuprano, le rapiscono o le uccidono, ma perché l’identità maschile prevede che ogni uomo abbia facoltà di disporre di ogni donna come di una sua proprietà purché questa non appartenga già al suo vicino, cioè a un altro uomo. Tuttavia poiché il desiderio dell’uomo è per sua essenza un desiderio alienato, cioè invidioso, assolvere all’obbligo di rispettare il prossimo è strutturalmente impossibile. Infatti nell’epoca remota dei patriarchi se un uomo o un gruppo di uomini si trovava sprovvisto di donne, poteva decidere di procurarsele con la forza rubandole al prossimo. Pensiamo al leggendario ratto delle Sabine che è una delle vicende più antiche della storia di Roma. Secondo Tito Livio, Romolo, dopo aver ucciso il fratello e aver fondato la città di Roma, si rivolse ai Sabini per stringere alleanza e ottenere in cambio delle donne con cui popolare la nuova città. Visto il rifiuto dei vicini, organizzò uno spettacolo a cui invitò le tribù della regione e ne approfittò per rapire le loro donne. 

Il ratto delle Sabine continua ancora oggi, si chiama “tratta” e coinvolge milioni di donne povere o provenienti da paesi poveri che ogni anno sono costrette o convinte a vendersi come oggetti di godimento sessuale sul mercato globale sotto la sorveglianza di schiere di protettori appartenenti alle mafie internazionali. Il tutto passa sotto silenzio perché gli uomini non sanno e non vogliono concepire un modo di creare legami sociali diverso da quello della competizione tra i fratelli per la ricchezza e per l’onore. Per questo la prostituzione è considerata il mestiere più antico del mondo ed è legittimata di fatto, se non di diritto. Si vuol dare ad intendere che la prostituzione sia un’onorata professione e una libera scelta che alcune donne compiono per “vocazione” e che sarebbe offensivo e illegittimo reprimerla.

Solo di tanto in tanto il volto osceno dell’inconscio maschile e il valore di merce attribuito alle donne si manifesta in maniera traumatica per l’opinione pubblica. È recente la vicenda di cronaca di Ariel Castro, un pacifico cittadino di Cleveland che - si è scoperto - ha catturato tre donne e per dieci anni le ha tenute segregate nella propria casa. Le donne erano andate a formare il suo harem personale. Una di loro ha avuto da lui una figlia che oggi ha sei anni. La seconda ha dichiarato di aver subito almeno cinque aborti. L’errore di queste donne è stato di pensare di essere libere e padrone di se stesse e di aver quindi accettato un passaggio da Castro, il quale le ha invece rapite e sequestrate. C’è da chiedersi quante tra le ragazzine che scompaiono ogni anno nel mondo fanno questa fine o sono uccise, oppure sono avviate alla prostituzione. La triste verità è che il concetto di donna libera è molto problematico per l’inconscio maschile perché in un sistema patriarcale una donna è considerata "libera" nel momento in cui non appartiene a un uomo. Dal punto di vista maschile patriarcale le donne libere sono quelle non appartengono a nessuno e perciò sono accessibili a tutti. Le donne "libere" cioè sono potenzialmente delle prostitute. Ecco perché in generale le donne che si mostrano troppo indipendenti vengono chiamate "troie".

Avere molte donne a disposizione è una componente essenziale del prestigio maschile perché la virilità, oltre che dal potere e dal denaro, si misura dal numero di donne di cui un uomo può disporre. A questo è dovuto l’alto gradimento riscosso dal nostro ex-presidente del consiglio e dai suoi sodali, le cui vicende giudiziarie ci hanno rivelato con quale insospettata frequenza ogni transazione tra uomini di potere sia accompagnata da un “dono” fatto di corpi femminili. Questo spiega perché esiste un florido traffico globale di donne da destinare alla prostituzione e perché l’industria pornografica che capitalizza sui corpi umiliati e mercificati di donne senza migliori opportunità di guadagno non sollevi tra gli uomini (e purtroppo spesso anche tra le donne) sentimenti di rabbia o di sdegno, ma al massimo qualche risolino di complicità.

Le donne "per bene" invece sono quelle che legalmente appartengono a un uomo: le mogli.  Bisogna ricordare che in origine il matrimonio non era altro che l’ufficializzazione dell’acquisto di una proprietà. Le mogli devono stare a casa dove possono essere meglio controllate. Ecco perché meno della metà delle italiane lavora fuori casa. Ecco perché non è considerato importante istituire nidi e asili e ne fornire altri servizi sociali che permettano alle donne di svincolarsi dal lavoro domestico. Nonostante tutto, il compito e il destino delle donne rimane quello della riproduzione. Il che spiega perché grazie al dispositivo dell’obiezione di coscienza si è riusciti là dove il referendum sull’aborto aveva fallito - fare in modo che in alcune regioni italiane il diritto all’interruzione della gravidanza sia stato silenziosamente revocato.

grazie a: http://www.resistenzadellinconscio.com/ 2013