inizio rosso e giallo



Il sergente Studer




«Nato nel 1896 a Vienna da madre austriaca e padre svizzero. Nonno paterno cercatore d'oro in California (scherzi a parte), nonno materno consigliere di corte (bel miscuglio, no?). Scuola elementare, tre classi del ginnasio a Vienna.
Poi tre anni di riformatorio a Glarisegg. Poi tre anni al College de Genève. Sbattuto fuori poco prima della maturità, perché avevo scritto un articolo letterario su un volume di poesie di un insegnante. Maturità a Zurigo. Un semestre di chimica. Poi il Dadaismo.
Mio padre mi voleva far internare e pormi sotto tutela. Fuga a Ginevra. Il resto lo potete leggere in
Morfina. Internato per un anno a Mùnsingen (1919). Fuga. Un anno ad Ascona. Arrestato per la morfina. Rispedito indietro. Tre mesi a Burghölzli (controperizia, perché a Ginevra avevano detto che ero schizofrenico).
Dal 1921 al 1923 Legione Straniera. Poi Parigi, lavapiatti. Belgio, minatore
. Più tardi assistente ospedaliero a Charleroi. Morfina di nuovo. Imprigionato in Belgio. Estradato in Svizzera. Spedito per un anno a Witzwil.
Dopo, un anno operaio in un vivaio. Analisi (un anno). A Basilea come giardiniere, poi Winterthur. Durante questo periodo (1928-1929) ho scritto il mio romanzo sulla Legione Straniera, '30-'31. Un anno di corso presso il vivaio Oeschberg. 31 luglio proseguimento di analisi. Dal gennaio '32 al luglio '32, a Parigi come scrittore 'freelance' (come si usa dire).
Sono andato a trovare mio padre a Mannheim. Ivi arrestato per false prescrizioni mediche. Estradato in Svizzera. Imprigionato luglio '32 - maggio '36.
Ecco tutto. Non è molto bello
...»

 

Così Friedrich Glauser di sé stesso in una lettera del 1937 all'amico Joseph Halperin.

Dunque visse la sua intensa e breve vita viaggiando continuamente per l'Europa, abitando dove capitava: ospizi, case-alloggio per giovani disagiati, e, come si è detto, manicomio. Passò gli ultimi mesi sulla costa genovese, tra le incantevoli ginestre di Nervi, dove morì nel 1938.

Il sergente Studer, anziano investigatore della polizia di Berna, è la creazione letteraria di uno spirito anarchico dalla vita maledetta e dall’ispirazione amara, convinto che il giallo rimanesse «l’unico mezzo per diffondere idee ragionevoli»; i suoi polizieschi espressionisti ed esistenziali portano in una Svizzera degli anni Trenta, piovosa e malinconica come una vecchia fotografia, in un universo periferico di vite fragili e spezzate prigioniere di intrighi spesso grotteschi, a tratti visionari.


Il sergente Studer

Un omicidio che sembra un suicidio in un paesotto svizzero affondato negli anni Trenta, grottescamente pieno di insegne e botteghe risuonanti di musichette allegre: «una situazione spettrale». Studer deve penetrare un microcosmo chiuso nei suoi odi e nei suoi misteri, dietro un assassino che in fondo desidera essere smascherato e anela di espiare il suo rimorso.

Krock & Co.

Nell’albergo di un paesino nella regione dell’Appenzell, un giovane è ucciso con un raggio di bicicletta. Studer è lì, in gita con la famiglia, e inizia a indagare. Mentre affronta le atmosfere ambigue e le psicologie bizzarre segnate dall’isolamento montanaro, un nuovo morto: stavolta è un forestiero, proprietario di un’agenzia d’affari di San Gallo, la Krock & Co., cui è indirizzato un pacchetto di buste senza lettere. Si tratta di decifrare più le psicologie che gli indizi.

Il grafico della febbre

Un frate dal fare ambiguo si presenta a Studer e gli preannuncia un duplice omicidio, che si verifica immancabilmente. Vittime: due donne. Accanto ai cadaveri, un grafico della febbre e un gioco di carte interrotto (solitario o cartomanzia?). Dalla Svizzera a Parigi al Marocco, l’indagine trascina il pigro sergente nell’ambiguo ambiente della Legione straniera.





  • Il sergente Studer, Sellerio, 1986 (Wachtmeister Studer)
  • Il regno di Matto, Sellerio, 1988 (Matto regiert)
  • Il grafico della febbre, Sellerio, 1985 (Die Fieberkurve)
  • Il cinese, Sellerio, 1988 (Der Chinese)
  • Gourrama, Sellerio, 1990 (Gourrama)
  • Krock & Co., Sellerio, 1987 (Krock & Co.)
  • Il tè delle tre vecchie signore, Sellerio, 1985 (Der Tee der drei alten Damen)
  • Ali und die Legionare
  • Beichte in der Nacht
  • Dada, Ascona ed altri ricordi, Sellerio, 1991 (Dada, Ascona und andere Erinnerungen)
  • Morfina, Sellerio, 1995 (Morphium)
  • I primi casi del sergente Studer, Sellerio, 1989 (Wachtmeister Studer erste Fälle)
  • Mensch in Zwielicht (abbozzo di una autobiografia)
  • Oltre il muro, Sellerio, 1993 (Hinter Mauern)
  • La negromante di Endor, Sellerio, 1999 (raccolta di racconti)
  • Gli occhi di mia madre, Casagrande, 2005
  • Il sergente Studer indaga, Sellerio, 2008 (Il sergente Studer, Krock & Co., Il grafico della febbre)
  • Altre indagini per il sergente Studer, Sellerio, 2012 (Il cinese, Il regno di Matt, I primi casi del sergente Studer)



Friedrich Glauser

Lettera aperta sui «Dieci comandamenti per il romanzo poliziesco» (1)

La Bernerie (Francia), 25 marzo '37

Egregio e caro collega Brockhoff,

qualche tempo fa lei ha promulgato dal Sinai della
Zurcher Illustrierte dieci comandamenti per il romanzo poliziesco, e sulle sue richieste avrei volentieri discusso con lei. Alcune affermazioni hanno suscitato obiezione e critica da parte mia - ma avrei voluto farla partecipe delle mie osservazioni a voce. Non mi pare giusto che lei debba sopportare un mio monologo in silenzio senza poter intervenire per correggere, per rettificare nel caso io commetta un errore o fraintenda i suoi pensieri. Ma poiché noi - proprio come i due figli di re - non possiamo incontrarci (2) la nostra disputa, la nostra disputa pacifica e amichevole deve aver luogo sulle colonne della Zurcher Illustrierte. Assumerà la forma di una tenzone poetica, in cui il pubblico rivestirà il ruolo di Elisabeth (così si chiamava la dama per la quale Wagner compose l'arrivo dei cantori, vero?). (3) Senza accompagnamento musicale. Ed è bene così.
Sono sempre stato dell'idea che con i dieci comandamenti - la cui trasgressione, sia detto per inciso, continua a fornirci il materiale per i nostri romanzi - il Vecchio Testamento abbia creato un deplorevole precedente. Tutti coloro che avvertono l'oscuro impulso a fissare norme destinate ai propri simili tormentati, da quel momento si sentono in dovere di suddividere la materia in dieci parti, anche se con cinque, quattro o tre comandamenti l'argomento sarebbe chiuso. Così ci hanno tediato con i dieci comandamenti per la donna di casa e i dieci comandamenti per lo scapolo - anche i possessori di un aspirapolvere e i radioascoltatori hanno avuto l'onore di essere afflitti dal numero dieci.
Dieci comandamenti!... E sia. Vada pure per Dieci comandamenti per il romanzo poliziesco. Forse mi permetterà di osservare che un romanzo come prodotto umano, come oggetto inanimato non sa cosa farsene dei comandamenti. I comandamenti valgono per lo scrittore. Ma devo ammettere che il titolo «Dieci comandamenti per lo scrittore di romanzi polizieschi» non sarebbe suonato molto bene...
Forse in cambio mi concederà di aggiungere che una parte delle sue richieste è ovvia. Il Detection Club di Londra, che raggruppa alcuni autori del genere letterario di cui ci stiamo occupando - Agatha Christie, Dorothy Sayers, Crofts, Cunningham - prescrive nei propri statuti ai suoi membri ciò che lei, caro collega, ha elaborato: verosimiglianza dell'azione, rinuncia alle bande, capi compresi, gioco leale, elusione di ogni esagerazione inutile, lingua decorosa.
Lingua decorosa. Nel nostro caso, tedesco decoroso. Non ho trovato questo postulato tra i suoi comandamenti. Forse a torto; forse le è parso così ovvio che non ne ha fatto cenno.
Il romanzo poliziesco, così come fiorisce, prospera e prolifera oggi nei paesi anglosassoni, è, come lei dice giustamente, una partita; una partita che si gioca secondo certe regole. Il rispetto di queste regole è solitamente cosa ovvia - ma a volte è difficile attenervisi. Ne converrà anche lei.
Tramite l'elemento giocoso insito in sé, il romanzo poliziesco è imparentato con quel suo fratello più salottiero che si chiama semplicemente «romanzo», e rivendica il diritto di essere annoverato tra le opere d'arte. E queste opere d'arte furono lette finché divennero prodotti d'arte, prodotti artificiali, affari di alcune cricche, di alcuni snob. Finché vi si praticò solo un'analisi minuziosa dell'anima, o l'autore si mise a fare filosofia, psicologia, metafisica dimenticando le esigenze principali del romanzo quali il favoleggiare, il raccontare, la rappresentazione degli uomini, del loro destino, dell'atmosfera in cui si muovevano. Il buon romanzo doveva avere anche tensione. Era un tipo di tensione diversa da quella che domina nel romanzo poliziesco, ma una tensione doveva comunque esserci.
E poiché il romanzo rifiutava la tensione in quanto elemento non artistico, il fratello disprezzato, il romanzo poliziesco, visse quel successo che agli occhi di certuni gl'impresse il marchio di parvenu.
Ma tutto questo lei lo sa meglio di me, e non è per tenerle una lezione sullo sviluppo del romanzo che le scrivo. Eppure questa premessa era necessaria.
Perché di tutte le caratteristiche che fanno il romanzo, quello poliziesco ha conservato solo la tensione. Un genere particolare di tensione. Un po' favoleggia anche lui, ma senza abbandonare i sentieri sicuri. E volontariamente rinuncia all'elemento più importante: la rappresentazione degli uomini e della loro lotta contro il destino.
Gli uomini e il loro destino! Il romanzo poliziesco opera una rinuncia consapevole a questa prerogativa artistica. Nella sua forma attuale è astratto, di un'assoluta logicità formale. E soprattutto questo vorrei rispondere ai suoi «dieci comandamenti»: un romanzo scritto secondo questa ricetta non ha fortuna. L'omicidio, l'omicidio semplice, doppio, triplo, all'inizio, a metà, e fors'anche alla fine avviene solo per fornire a una macchina pensante materiale per deduzioni logiche. Ammetto che possa essere affascinante. Quando il metodo era nuovo - pensi a
I delitti della rue Morgue, e al padre di tutti gli Sherlock Holmes, Hercule Poirot, Philo Vance, Ellery Queen, al nonno di tutti gli ispettori, di tutti i commissari di Scotland Yard: allo chevalier Dupin di E. A. Poe (4) - quando il metodo era nuovo, era perfino artistico, ma forse solo perché era un poeta a servirsene. Oggi è logoro - per non dire di cattivo gusto.
Ciò che si dice un buon romanzo poliziesco - sia che l'eroe risolutore appartenga all'autorità costituita, sia che indaghi per conto proprio - è sempre strutturato come segue:

All'inizio l'autore creava l'elenco dei personaggi e lo poneva, per risparmiare l'attività cerebrale del lettore, sul retro del frontespizio. Nel primo capitolo avviene l'omicidio. Poi le pagine si succedono vuote e deserte fino all'arrivo della vecchia volpe. Questi è un uomo, «un uomo abile e ingegnoso, certo» - come scrive lei - dotato di uno sguardo psicologico. Di questo sguardo si serve per risolvere gli enigmi. E ogni personaggio dell'elenco ne cela uno in petto - e lo custodisce gelosamente. Ma invano.
Compare la vecchia volpe, lancia al personaggio la sua occhiata psicologica introducendola in una fessura invisibile, tira l'anello della macchinetta automatica ed ecco la confessione con tutti gli indizi necessari. Non deve far altro che tendere la mano. Lo stesso procedimento si ripete per ogni personaggio - e quando la vecchia volpe ha gettato su tutti la sua occhiata psicologica e ha ricevuto il suo biglietto, va a comprarsi l'assassino come con una mazzetta di buoni sconto. La soluzione gli fiorisce come un fiorellino lungo la strada. Il fiorellino della soluzione la vecchia volpe se lo mette sul cappellino, o se lo infila all'occhiello e continua il suo cammino verso altre imprese.
Ma l'assassino, «un uomo malvagio, certo (in generale)» - come scrive lei - l'assassino sconta i suoi crimini sulla sedia elettrica, sulla ghigliottina, sul patibolo - sempre che non preferisca suicidarsi. Bene. D'accordo! Ma perché l'assassino è «un uomo malvagio, certo»? Esistono uomini certamente malvagi in generale e non certamente buoni in particolare? Ma esistono uomini buoni e uomini malvagi? Gli uomini non sono semplicemente uomini - né bestie né santi - uomini mediocri, né eroi, né vecchie volpi, né abili, né ingegnosi, né «malvagi, certo », ma semplicemente uomini, si chiamino essi Glauser, Brockhoff, Hitler, Riedel o Emma Künzli o Guala?
Non abbiamo noi scrittori il dovere - anche quando creiamo tensione, anche quando idealizziamo - sempre e comunque (senza tenere prediche, s'intende), di far notare che esiste solo una differenza piccolissima, appena visibile tra l'«uomo malvagio, certo (in generale)» e tra quello «abile, ingegnoso, dalle riflessioni puntuali»? Vede, gli interrogativi mi tormentano come tafani in luglio. Ma se lei è pronto a eliminare botole, bande, marchingegni misteriosi e complicatissimi che lanciano raggi mortiferi, se è pronto a eliminare le «stregonerie romantiche» e a proibirle, allora dovrà anche eliminare la distinzione tra uomini buoni e malvagi. Perché questa distinzione è un imbroglio romantico come le povere botole e gli accessori di scena che si usavano in un'epoca più semplice della nostra.

L'azione di un romanzo poliziesco si racconta benissimo in una pagina e mezza. Il resto - gli altri centonovantotto fogli dattiloscritti - sono un riempitivo. Ora il problema è che farne di questo riempitivo. La maggior parte dei romanzi polizieschi sono nel migliore dei casi degli aneddoti diluiti - perché nella nostra epoca caotica i generi letterari non si distinguono più in base al contenuto, ma solo e soltanto in base alla lunghezza: tre pagine: short story, storia breve. Da quindici a venti pagine: novella. Cento pagine: romanzo breve. Eh sì, succede anche questo! Non rida. Il romanzo breve è stato inventato da persone che non sapevano l'inglese, e che hanno tradotto short novel, che era semplicemente un racconto, con «romanzo breve». Oltre le cento pagine incomincia il romanzo, il romanzo poliziesco, questo ermafrodito, metà cruciverba, metà problema di scacchi...
Perché non è qualcosa di più? Perché non mira più in alto?
Le persone che vi compaiono non sono altro (di solito, ma esistono delle eccezioni) che macchinette automatiche: dipinte di rosso, blu, verde, giallo. Macchinette automatiche nella cui fessura la vecchia volpe, invece di una volgare monetina da venti centesimi, introduce il suo sguardo psicologico. Non sono uomini. Stanno, queste macchinette automatiche (e lei le conosce bene quanto me: la moglie del milionario o la figlia del milionario, il maggiordomo, che di solito si chiama Butler, il medico - abietto oppure no -, la cameriera, il segretario, eccetera eccetera), stanno in uno spazio vuoto. Perché tutte le ville, tutti i buildings, tutti i palazzi da milionario che ci vengono presentati non hanno neppure la realtà tangibile di un marciapiede ferroviario esposto alle correnti d'aria (il luogo ove dovrebbero stare le macchinette automatiche), col suo odore di fumo di carbone, col suo bagagliaio che odora di cuoio e tabacco, con la musica monotona dei suoi apparecchi di segnalazione...
La tensione è un elemento eccellente; attenua la fatica della lettura. Distoglie dalle avversità della vita lo spirito,
Lo spirito tormentato dalle preoccupazioni, aiuta a dimenticare. Proprio come un'acquavite, proprio come un vino. Ma come esiste un vero kirsch e la sua imitazione, così esiste la vera tensione e la tensione scadente - perdoni la nuova parola. (5) E tensione scadente chiamo quella tensione che conosce un solo scopo: la soluzione, la fine del libro. E non permette, questo surrogato di tensione, di considerare ogni pagina del libro come momento presente in cui il lettore vive per alcuni minuti o secondi.

Il fatto che questi brevi istanti, questi minuti e secondi possano diventare per lui ore, giorni e mesi, proprio come in sogno, il risveglio di questi sentimenti mi sembra dimostrare l'autenticità di una tensione. Finché la tensione rifiuta il presente, è il futuro che paga il conto. Leggendo un libro i sintomi non sono così eclatanti. Solo un cattivo sapore in bocca, un senso di vuoto in testa dimostrano che la tensione era contraffatta. Mirava a una soluzione, non ha risvegliato le belle visioni di sogno, nulla echeggia, perché nulla è stato fatto vibrare in noi. Questa corsa precipitosa verso il futuro a scapito del presente non è la maledizione del nostro tempo? Abbiamo dimenticato l'esistenza di un presente che vuole essere vissuto. Abbiamo dimenticato che vale la pena di vivere questo presente, senza trangugiarlo come se fossimo un abbuffone che inghiotte minestra, carne e verdura perché pensa solo al dolce che lo aspetta alla fine del pranzo. L'uomo di oggi si comporta come un ciclista, che ansima attraversando un paesaggio meraviglioso solo per guadagnarsi una qualche maglia colorata che non lo renderà più bello - al contrario, che sottolineerà ancor più la sua somiglianza con una scimmietta malata.

Stimolare la riflessione e la meditazione durante la lettura, anche con le nostre modestissime forze e i nostri modestissimi mezzi, dovrebbe essere per noi un dovere. Mi creda, vale la pena di deludere coloro che dopo le prime dieci pagine sfogliano il libro sino alla fine solo per sapere il più presto possibile chi è l'assassino...
Sono d'accordo con lei quando scrive che l'assassino deve avere un ruolo abbastanza importante, in modo da suscitare interesse per sé e le sue azioni. Ma cosa succederebbe se riuscissimo a creare una tensione tale per cui al lettore sarebbe quasi indifferente l'identità dell'assassino? Se con grandi insidie riuscissimo ad attirare il lettore nella nostra trama di sogno, se lui sognasse con noi in piccole stanze che non ha mai visto, se parlasse con persone che d'un tratto gli paiono più reali dei conoscenti più stretti, se le cose della vita quotidiana a cui non ha mai fatto caso perché gli sono diventate troppo consuete gli apparissero d'un tratto in una nuova luce, nella luce del riflettore che abbiamo inventato per lui? Ma che succederebbe se riuscissimo a caricare ogni capitolo della nostra storia con una corrente diversa, non con quella primitiva che lo sospinge in avanti, con una diversa, ho detto! Se riuscissimo a destare in lui simpatie e antipatie per le nostre creature, per le case in cui abilano, per i giochi che fanno, per il destino che li sovrasta e li minaccia o arride loro?

Tutto questo lo realizzava prima il «romanzo» per eccellenza, l'opera d'arte. Non sarebbe per noi un compito proficuo riguadagnare dei lettori per mezzo del suo disprezzato fratello, il romanzo poliziesco? Forse riusciremo a liberarlo dal disprezzo che per lui provano le persone di gusto, le persone dotate di discernimento. E se saremo abili, se riusciremo a tener viva anche l'altra tensione, la «tensione poliziesca», forse riusciremo a raggiungere coloro che leggono solo John Kling o Nick Carter... Abbiamo bisogno di produrre letteratura poliziesca, e non dovremmo vergognarcene. Non hanno descritto il crimine e la sua soluzione anche personaggi più grandi di noi? Schiller non ha tradotto Pitaval (6) e Conrad non ha scritto
L'agente segreto? E Stevenson il suo Club dei suicidi'?
Ma come un buon libro di cucina da solo non basta a preparare un risotto a regola d'arte, così «dieci comandamenti» non bastano per scrivere un buon romanzo poliziesco. Lei perdonerà se mi sono permesso di completare le sue richieste con alcune altre. Le mie non sono nuove - e forse non avrei mai potuto formularle se non mi fossi accorto che qualcuno le ha utilizzate. E prima di parlare brevemente di colui che se ne è servito, mi permetterà di riassumerle.

Umanizzare! Fare della macchinetta automatica un essere umano. E soprattutto non idealizzare più la macchina pensante, la vecchia volpe con il fiorellino della soluzione all'occhiello. Concordo con lei su questa richiesta. Non scrive anche lei che dev'essere un uomo? Vorrei continuare. Non occorre che sia abile e ingegnoso. Basta che disponga di capacità d'immedesimazione e di un sano buon senso. Ma soprattutto: dobbiamo averlo vicino, e trovato in tutta la letteratura poliziesca. L'autore si chiama Simenon e ha creato un tipo che, sebbene avesse qualche predecessore, nessuno aveva mai dotato di una simile passionalità: il commissario Maigret. Un agente di pubblica sicurezza nella media, ragionevole, un po' trasognato. Non il caso poliziesco in sé, con la scoperta dell'assassino e la soluzione costituiscono il tema principale, ma le persone e soprattutto l'atmosfera in cui si muovono. Soprattutto l'atmosfera: un piccolo porto e il suo caffè elegante - nel
Cane giallo; la chiusa di un canale interno - nel Carrettiere della provvidenza; una cittadina di provincia nel sud - nel Matto di Bergerac; una casa d'affitto di Parigi - nel Gioco delle ombre cinesi.
Ma perché allungare l'elenco? L'aspetto insolito di questi romanzi - che sono in realtà novelle lunghe - è questo: in fondo si resta indifferenti alla soluzione, sebbene la trama sia costruita secondo una ricetta sperimentata. Ma tra le righe nere spira quell'aria di sogno, splende quella luce che richiama in vita anche le cose più piccole e più modeste - una vita a volte spettrale. L'assassino? È un uomo come tutti gli altri, come succede nella vita di ogni giorno. E che venga scoperto non è affatto importante, alla fine non si tira un sospiro di sollievo, non c'è un colpo di scena, in realtà la storia non ha una fine, cessa - è un brano di vita, ma la vita continua, illogica, avvincente, triste e grottesca al contempo.
Vorrei ringraziare Georges Simenon. Quello che so l'ho imparato da lui. È stato il mio maestro - non siamo tutti allievi di qualcuno?...
Sto divagando. Forse tutto ciò che ho scritto lei lo sa molto meglio di me. Purtroppo non ho mai avuto l'occasione e il piacere di leggere uno dei suoi romanzi. Ma sono certissimo che tutti i miei rimproveri al genere «romanzo poliziesco», ai suoi «eroi», alle sue «vecchie volpi», non la riguardino. Sono convinto che lei abbia ottenuto un grande successo con il suo romanzo
Tre chioschi sul lago. Se la mia lettera le avesse fatto l'impressione di un ammaestramento, la prego di credere che ciò non era nelle mie intenzioni. Per me si trattava piuttosto di poter formulare con chiarezza alcuni pensieri. E come farlo senza cercare di esprimerli a parole?

Con i sensi della più viva amicizia, suo devotissimo

Friedrich Glauser



(1) In realtà la risposta di Glauser alle tesi di Brockhoff non fu mai pubblicata dalla Zurcher Illustrierte.

(2) L'autore si riferisce a un'aria popolare del 1500: 1. Es waren zwei Konigskinder, / die hatten einander so lieb, / sie konnten zusammen nicht kommen, / das Wasser war viel zu tief. / 2. « Ach, Liebster, kannst du nicht schwimmen, / so schwimme doch her zu mir. / Drei Kerzen will ich dir anziinden, / und die sollen leuchten dir ». / 3. Das hòrte eine falsche Nonne, / die tal, als wenn sie schlief, / sie tat die Kerzen auslbschen, / der Jiingling ertrank so tief. / 4. Ein Fischer wohl fischte lange, / bis er den Toten fand: / « Sieh da, du liebliche Jungfrau, / hast hier deinen Konigssohn. » / 5. Sie nahm ihn in die Arme, / und kiisst' ihm den bleichen Mund. / Es mussi' ihr das Herze brechen, / sank in den Tod zur Stund'. (1. C'erano una volta due figli di re che si amavano tanto, non riuscivano a raggiungersi, l'acqua era troppo fonda. 2. « Ah, mio bene, non sai nuotare, coraggio, nuota da me. Ti accenderò tre candele che ti faranno luce». 3. La sentì una falsa suora, finse di dormire e spense le candele, il giovane annegò. 4. A lungo un pescatore pescò, finché il corpo trovò: «Ecco, dolce signora, ecco il tuo figlio di re». 5. Lei lo prese tra le braccia, la pallida bocca gli baciò. Il cuore le si spezzò, e nella morte precipitò).

(3) Glauser si riferisce al secondo atto dell'opera romantica Tannhauser di R. Wagner, nel quale Elisabeth, nipote del langravio, assiste alla tenzone poetica il cui vincitore avrà la sua mano.

(4) I delitti della rue Morgue è uno dei tre racconti di E. A. Poe, insieme a II mistero di Marie Roget e a La lettera rubata, in cui l'investigatore Auguste Dupin riesce a risolvere casi ritenuti insolubili.

(5) La traduzione non può rendere l'originale Fuselspannung, composta da Fusel (acquavite cattiva, di qualità scadente) e Span-nung (tensione). L'uso della parola Fusel si giustifica in rapporto ai precedenti acquavite, vino, kirsch.

(6) François Gayot Pitaval, giurista francese (1673-1743), autore dell'opera Famosi e interessanti casi giudiziari.

Italo A. Chusano

Uno svizzero ci scrive dall'inferno

Credo che pochi casi letterari di lingua tedesca siano andati più lisci, in Italia, di quello costituito dallo svizzero Friedrich Glauser, nato a Vienna nel 1896, morto a Nervi nel 1938.
Nel 1985 la casa editrice Sellerio pubblicò il primo dei suoi romanzi polizieschi, Il grafico della febbre. Fu un successo così rotondo che lo stesso anno seguì un altro titolo, Il tè delle tre vecchie signore. L'anno dopo toccò a Il sergente Studer, nel 1987 a Krock & Co. Il 1988 di Glauser ce ne portò due: Il Cinese e Il regno di Matto. Il 1989 presentò una serie di racconti intitolati I primi casi del sergente Studer. Con ciò, la riserva di gialli si era esaurita, con disappunto di chi ama quel genere ma prova vergogna a indulgervi senza l'alibi della qualità letteraria: che in Glauser è assolutamente fuor di dubbio.
Però c'era dell'altro, fluito dalla penna di quest'uomo. Così, nel 1990, ecco Gourrama, i suoi ricordi sul servizio da lui prestato nella Legione straniera. E adesso, un altro libro autobiografico, Dada, Ascona e altri ricordi (ancora e sempre Sellerio editore, ancora e sempre la fedelissima traduttrice Gabriella de' Grandi; pagg. 88, lire 20.000). Una vita amorosa costellata da abbandoni.
Intanto mezza Italia ha scoperto che uno scritto autobiografico di Glauser non è meno avvincente di un suo romanzo giallo, affidato o meno alla paciosa, meditativa, umanissima figura del sergente Studer, un degno fratello elvetico di Maigret. La vita dell'autore, infatti, è "più che un romanzo", come si diceva una volta, quando i romanzi erano davvero avventurosi, pieni di colpi di scena e si leggevano d'un fiato, fossero scritti da Dostoevskij o da Dumas, da Defoe o da Carolina Invernizio.
La vita di Friedrich Glauser è poco meno di un dossier della polizia criminale, di una cartella clinica del reparto "casi disperati", di una scheda della squadra antidroga. Quel "pregiudicato", infatti, ha combinato di tutto un po'. Condizionato dai rapporti difficili col padre, fuggì di casa e ripetutamente finì in carcere per vagabondaggio. Ma questo era il meno. Pur senza avere la durezza violenta di un Genet, ricadde più volte nel furto, e anche per tale reato fu messo dietro le sbarre. In Francia, in Belgio, in Svizzera. Siccome era più un fragile che un duro, reagiva all'autodisprezzo con la droga: onde svariati ricoveri per disintossicarlo, ma con effimeri risultati. Effettuò anche qualche tentativo di suicidio, per cui conobbe la clausura atroce del manicomio.


Come abbiamo già accennato, si arruolò (1921-23) nella Legione straniera. Ma poi, come in una bella favola, scoprì di essere uno scrittore e cominciò a pubblicare racconti e romanzi, alcuni dei quali presero la via del cinema.
Bastò per salvarlo? Non direi. Bastò a fornirgli per qualche anno un conforto meno pericoloso e più nobile della droga. Ma era pur sempre un rottame d'uomo, che dalle foto ti guata con uno sgomento appena illuminato dall'ironia. Anche i suoi amoretti, amorazzi, le sue passioni furono di breve durata, e costellate di abbandoni da parte delle donne. Finalmente parve averne trovata una paziente quanto bastava per sopportarlo. Stava per sposarla, era ormai questione di ore. Ma era troppo bello, per un uomo così iellato. E morì di colpo, durante una vacanza in Liguria.
Nel libro smilzo ma assai denso che abbiamo davanti Friedrich Glauser, che pure non fu mai un intellettuale in senso stretto, ci confida le sue esperienze e frequentazioni con alcuni fenomeni che fecero molto cultura. Dapprima c'informa della sua formazione in uno di quei "collegi rurali" che andavano di moda, negli anni Dieci, in un'Europa, in una Germania, in una Svizzera dove tra l'altro era in forte effervescenza innovativa la vecchia tradizione pedagogica. Sembra, a tratti, di leggere Musil, quello dei Turbamenti del giovane Torless. Ma è un Musil non certo più ingenuo (anche Glauser ha il suo occhio maligno, la sua tendenza al sarcasmo e al sospetto), ma assai meno sofisticato, e anche meno grande e profetico. Si sente che quei figli della buona borghesia (lo era anche Glauser, figlio di un insegnante di francese all'Istituto superiore di commercio di Vienna), assorbono per conto loro, ma anche attraverso libri e insegnanti, le caratteristiche e i veleni di quell'età che già pendeva verso Sarajevo: antisemitismo, un ventaglio di proposte politiche che vanno da un populismo libertario a un nazionalismo bellicoso, l'attrazione del branco e quella antitetica di un individualismo tardoromantico e decadente.
Quando si ha un tal prurito esistenziale e culturale si è come fatti apposta per accostare il movimento Dada proprio a Zurigo, al Cabaret Voltaire, dove nacque nel 1917. Glauser lo guarda un po' da uno spioncino, curioso e intelligente ma non troppo partecipe. Assiste all'istante in cui Tristan Tzara, fingendosi scemo alla visita di leva, si fa riformare e poi esclama non solo il fatidico Merde!, ma anche il programmatico, ormai storico Dada!, balbettio infantile o doppia affermazione slava che fosse. Ma frequenta e descrive anche Hugo Ball e Hans Arp, nonché la ninfa egeria Emmy Hennings, partecipa a serate artistiche e a letture (anche di cose sue, ma che vengono considerate spazzatura tradizionalista), non si perde una di quelle "scandalose" esposizioni di arte figurativa.
Non è uno dei loro, tranne che per la vita un po' orgiastica che anche lui conduce. Ma li sa guardare e ritrarre con l'occhio di un extraterrestre che ci racconti un consiglio di gabinetto presieduto dall'on. Andreotti o un'adunanza dei Testimoni di Geova. Scendendo nel Canton Ticino, sempre braccato dalla polizia, nel 1919 Glauser frequenta quell'altra compagnia allucinata e genialoide che sono gli adepti di Monte Verità. Qui, tra una dose di morfina e l'altra, il nostro va orecchiando antroposofia e psicaonalisi, danza sacrale e sensuale (di cui è maestra Mary Wigman) e misticismo più asiatico che europeo, di cui sono maestri un po' tutti.
Non va a finir bene, la droga gli dà il crollo, Glauser finisce al manicomio di Berna. E dopo la Legione Straniera in Belgio va a fare il minatore. E torniamo, una volta ancora, a quella Legione Straniera cui Glauser aveva dedicato un intero libro. Qui la materia è più stringata, più racconto di vita vissuta, più nervose pagine di diario che romanzo ben costruito. Rivediamo gli stessi scenari e gli stessi tipi che in Gourrama: ma come si vede uno schizzo a matita accostandolo al quadro a olio che poi ne nascerà. Chi preferisce l'uno, chi l'altro. Ma giova tenerli presenti entrambi.
Infine, l'esperienza di minatore in Belgio, a Charleroi (1923-24), appena finita l'avventura africana. Di romanzi e film sulle miniere ne abbiamo letti e visti tanti. Qui siamo in presa diretta, Glauser l'ha fatta davvero, quella vita da talpa, tra pericoli continui di morte e forme di sfruttamento intollerabili da parte di chi, a quei disgraziati, offre cibo e alloggio.
Ma, anche qui, non vibra la nota rivoluzionaria: resta solo l'occhio che vede, la mente che ricorda, il cuore scettico che si rifiuta di indignarsi, pago di registrare.
C'è un prodigio, in tutto Glauser, ed è che un uomo così sfatto dai narcotici e da un'esistenza disperata, per di più di nervosa modernità e passato attraverso l'avanguardia dadaista, non si sia buttato, come scrittore, nelle esperienze formali più caotiche e disarticolate, nelle provocazioni contenutistiche più brutali e blasfeme. Invece, guardatelo un po' : com' è asciutto, ironico, trasparente, quasi un classico. Che buon metallo, il suo!
L' acido, l' erba non lo hanno corroso e appannato in nessun punto. Verrebbe voglia, a tutta prima, di considerarlo un tranquillo scrittore borghese. Ma lo è solo in superficie. Quegli inferni lui li ha sperimentati sul serio. E ce li descrive, più e più volte, senza abbellirli né depurarli. Ma col distacco di chi non se ne è mai lasciato fagocitare. Come diavolo avrà fatto?

grazie a: Repubblica, 31.12.1991