Sullo stalinismo, e sulle sue tante vittime, in rete si trovano una gran quantità di siti e pagine: a volte c'è qualcosa di buono, ma in genere prevalgono sproloqui e grossolane semplificazioni, da parte sia di clerico-fascisti che di "ultrasinistri".
Prevale, cioè, l'ottusità ideologica, sul tentativo - certo non facile - di indagare un fenomeno drammatico e complesso.
Oltre a tutto si tende a dare notizie "nascoste" o "dimenticate", quasi che non vi siano studi e ricerche che da tempo hanno affrontato questa tematica.
Paolo Spriano, ad esempio, ha dedicato centinaia di pagine a ricostruire la storia del PCI (Storia del Partito Comunista Italiano, 5 voll., Einaudi, 1967-1975), ed il fatto che questo eminente storico fosse un militante comunista non gli ha certo impedito di lavorare con estremo rigore scientifico, ovvero in libertà e con onestà intellettuale.
E dunque nei suoi densi volumi (a cui si possono aggiungere specifici studi su Gramsci, i consigli di fabbrica, Togliatti, ecc.) già da decenni si trovano risposte documentate a molti degli interrogativi più pressanti sul periodo che maggiormente ha segnato la storia del movimento operaio.

Sullo stalinismo, e nella fattispecie sui rapporti fra Mosca ed il PCI, il terzo volume della Storia (Storia del Partito Comunista Italiano, III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino 1970) scava a fondo, senza remore o censure, e mette in rilievo fatti e processi con addirittura maggior spregiudicatezza (e chiarezza storiografica) di tanti accaniti avversari del comunismo o del PCI.
NKVD, delazioni, tradimenti, follia sanguinaria, ambiguità, compromessi, sono narrati, appunto, non in chiave ideologica, ma con la serietà dello studioso che si basa sempre sulle fonti: ad esempio vengono citati correttamente libri scritti da autori non certo sospettabili di simpatie verso il comunismo "classico" (Broué, Churchill, Conquest, Courtois, Deutscher, Fejtö, Schlesinger, Shirer, lo stesso Trockij naturalmente).

In un altro libro (I comunisti europei e Stalin, Einaudi, 1983: da cui riprendiamo un capitolo fondamentale) Spriano prende in esame i rapporti con Stalin della maggior parte dei partiti comunisti (non solo europei, ma anche dell'America e dell'estremo Oriente), e ciò fornisce un quadro decisamente più compiuto (e drammatico, fra l'altro) della realtà della III Internazionale.

 

Paolo Spriano

Il grande terrore

 

Non c’è mai stato un rapporto segreto analogo a quello celebre tenuto da Nikita Chruscèv al XX congresso del PCUS, che sia stato dedicato alle repressioni di cui, durante il «grande terrore», tra il 1936 e il 1939, furono vittime i militanti e i dirigenti «stranieri» della III Internazionale, cosi come i rifugiati politici, i lavoratori emigrati in URSS, persino i combattenti delle Brigate internazionali che rientravano dai campi di battaglia.

È una storia sinistra a ricostruire la quale servono certo le numerose rivelazioni e testimonianze che si sono susseguite da allora, e anche prima, ma di cui non si è offerto ancora un quadro esauriente neppure da parte degli organi dirigenti di quei partiti comunisti - quasi tutti illegali in patria, all’epoca - sui quali piu la repressione ha infierito: il partito polacco, quello tedesco, quello ungherese, quello jugoslavo, ma anche il bulgaro, il rumeno, l’italiano, il finlandese, l’estone, l’austriaco.

Si può dire che l’ondata di arresti, di processi ed esecuzioni sommarie, di deportazioni, abbia risparmiato soltanto quei partiti, il francese, l’inglese, l’americano, il belga, lo svedese, il ceco, a quell’epoca impegnati attivamente nella politica di Fronte popolare, ma soprattutto partiti rimasti legali, insediati in paesi democratici nei quali l’eco della scomparsa di un dirigente comunista non si sarebbe potuta soffocare. Valga per tutti l’ironico e amaro commento di uno dei piu famosi e collaudati quadri del Komintern, capo di uno dei più piccoli partiti: lo svizzero Humbert-Droz, il quale nel '38 a Mosca temeva da un momento all’altro l’arresto ma si considerò protetto, forse, dal fatto che colla sua sparizione sarebbe venuta a mancare metà della rappresentanza comunista al Parlamento elvetico (1). Eppure anche il partito svizzero ebbe la sua vittima, Fritz Platten, condannato a cinque anni di lavori forzati e morto in un campo.

Nessuna regola, nessuna distinzione può essere assunta come assoluta in una materia nella quale regnava l’arbitrio, penetrava la follia e il destino di un uomo poteva essere deciso dal caso. Se lo stesso Humbert- Droz citato diceva che «forse Stalin era semplicemente di buon umore o in uno stato d’euforia sotto l’influenza della vodka il giorno in cui diede l’ordine di lasciarmi tornare in Svizzera», Chruscèv ha affermato nel 1961:

    Stalin era capace di guardare un compagno seduto al suo stesso tavolo e di dirgli: «oggi i tuoi occhi sono sfuggenti». Si poteva essere certi che il compagno i cui occhi erano ritenuti sfuggenti era caduto in sospetto. (2)

«Stalin è molto sospettoso», confidava anche Togliatti a Ernst Fischer (3). E l’aneddotica serva a rammentarci, appunto, che nessuna analisi volta alla ricerca dei perché razionali dello scatenarsi del terrore, nessuna ipotesi formulata partendo da cause economiche e politiche, o fondata su uno specifico meccanismo di potere suscettibile di dare tali risultati «perversi», può risultare completamente esauriente. Resta come una zona d’ombra che non si può illuminare se non con i mezzi della investigazione psicologica o con la diagnosi di una patologia. Le componenti di ossessione sono da tenere sempre nel conto, sia per quanto concerne l’animo e la mente di un uomo che poteva, con un gesto o un tratto di penna, emettere sentenza di morte nei confronti di chiunque, sia per quanto riguarda la dinamica della repressione. Ad esasperarla concorrevano, infatti, la delazione anonima, la diffusa chiamata di correo da parte degli inquisiti, la confessione di colpevolezza richiesta, ed ottenuta, da quasi tutti i grandi imputati, anche se ciò comportava un’autoflagellazione pubblica e gettava il discredito sul loro proprio passato di rivoluzionari.

Non a caso, nelle esegesi degli storici come nelle riflessioni delle vittime, degli scampati, dei superstiti, si è fatto ricorso all’atmosfera e alle motivazioni dei personaggi dei romanzi dostoevskiani. Si è anche sostenuta la strana complicità tra boia e vittima. Fu Otto Bauer, il teorico più autorevole dell’austromarxismo, che rimase sempre un sostenitore delll’URSS, il primo a spiegare le stupefacenti confessioni dei principali accusati alla sbarra, tutti vecchi bolscevichi,

    in base all’argomentazione che fra accusati e accusatori si era stabilita una sorta di complicità maledetta in difesa del regime socialista: una complicità fra chi non aveva ormai altro destino se non quello di servire con le confessioni l’ordine sociale che aveva pur contribuito a costruire e chi, preso nella tenaglia del proprio potere dittatoriale, usava in difesa di quello stesso ordine gli strumenti del dispotismo terroristico. (4)

Tale interpretazione avrebbe trovato la sua traduzione letteraria nel famoso romanzo di Koestler, scritto nel 1940, Buio a mezzogiorno. In realtà, nella generalità dei casi, le confessioni - assunte a unica «prova» della colpevolezza, in mancanza di quelle documentarie - venivano estorte con la tortura e con la minaccia di fare ricadere sui suoi familiari la non collaborazione dell’arrestato durante l’istruttoria e, soprattutto, durante il dibattimento dei grandi processi del 1936-38 (5) Vero è invece che molti degli arrestati «minori» si attennero alla parola d’ordine, diffusasi tra i prigionieri, di coinvolgere il maggior numero possibile di innocenti nelle accuse affinché Stalin - ritenuto all’oscuro dell’ondata repressiva - si rendesse conto che questo soltanto era il vero complotto ordito contro l’Unione Sovietica e il suo regime. Come ha scritto un poeta che era bambino all’epoca, Evgenij Evtusenko, il culto di Stalin era già profondo in mezzo ai militanti e al popolo.

    Molti vecchi bolscevichi, arrestati e torturati, erano convinti di essere stati perseguitati a sua insaputa. Non avrebbero mai ammesso che era lui, Stalin, a volere personalmente la loro disgrazia. Molti, tornando dalla tortura, scrivevano con il sangue sui muri delle loro celle «Viva Stalin». (6)

Le zone «profonde» scavate dalla memorialistica o dalla letteratura sull’universo concentrazionario sono tante. E sono state ravvisate anche nei risvolti del furore ideologico, dei sedimenti e risentimenti lasciati da lotte precedenti sia nel Partito bolscevico quanto nei vari partiti comunisti. Ad esempio, è oggetto stesso di dibattito storiografico il carattere, la natura della «demonizzazione» del trockismo, divenuto spesso il leitmotiv delle repressioni: quel Trockij «mostruoso», supremo architetto di ogni complotto e dei sabotaggi denunciati, era una figura creata apposta per giustificare le repressioni in alto e in basso? Secondo Robert McNeal,

    Trockij doveva diventare, agli occhi di tutti, una forza oscura e impersonale, piu malefica del capitalista con il cappello a cilindro, del nazista guerrafondaio e dei vari personaggi politici messi regolarmente alla berlina nelle vignette e nei manifesti. Trockij fini cosi per rivestire un ruolo importante nello stalinismo. Il suo nome non fu cancellato, ma anzi continuò a circolare nell’URSS in contrapposizione a quello di Stalin e quasi con la stessa frequenza. Trockij era il simbolo del male dell’universo, al di là dei sistemi economici. Non era neanche un capitalista: voleva distruggere il socialismo solo per soddisfare la sua sete di potere, per appagare i «suoi begli occhi», secondo le parole di Radek. Un essere del genere era necessario a Stalin per giustificare la continua lotta contro ogni forma di deviazione e l’esigenza di una vigilanza instancabile. Ss non ci fosse Stato un Trockii. Stalin gvrehhe dovuto invitarlo. E lo inventò. (7)

Ma anche qui ci incontriamo con un’immagine, un paradosso, che, a sua volta, non esaurisce il problema delle cause e degli effetti della lotta al trockismo. Essa viene impostata da Stalin nella riunione del Comitato centrale del partito del febbraio-marzo 1937 (la sessione che verrà ricordata come quella dei «morituri», in cui appare per l’ultima volta Bucharin), secondo una nuova discriminante che avrà parecchie conseguenze, come vedremo. La discriminante è questa: il trockismo non è più una «tendenza politica», per sbagliata che sia, del movimento operaio; si è trasformato in «una banda di sabotatori, disfattisti, spie e assassini senza principi né ideologie». Si innestano, indubbiamente, in tale assiomatica definizione, sul piano della ideologia politica, «categorie assolute e soprannaturali: il proprio Bene come il Male di Trockij». E siamo nel campo della psicologia ma anche in quello del retaggio, fin che si vuole «degenerato», di una «tradizione» ideologica che portava in sé un elemento di manicheismo.

Così, dinanzi al caso più clamoroso del terrore esercitato contro i militanti di partiti comunisti esteri, quello del vero e proprio massacro dei comunisti polacchi, d sarebbe da ravvisare, secondo il Deutscher, un riflesso - ancora una volta in parte ossessivo, in parte razionale - della vecchia ostilità a quel luxemburghismo da cui proveniva una parte del quadro dirigente del Pc polacco.

    Mi sembra - ha scritto il Deutscher - che il comportamento di Stalin in questo caso non possa essere spiegato con una singola ragione o con uno specifico, freddo calcolo. I suoi impulsi irrazionali non erano meno importanti dei suoi calcoli «razionali»; ed egli fu spinto ad agire nel modo in cui agì da vecchi rancori e antiche fobie, accentuati al massimo dalla mania di persecuzione che lo attanagliava all’epoca dei grandi processi di Mosca, quando chiuse definitivamente la partita con la vecchia guardia leninista. In quello stato mentale, Stalin vide nel Partito comunista polacco la cittadella dell’odiato luxemburghismo, la «varietà» polacca del trockismo che lo aveva sfidato fin dal 1923: il partito di cui uno dei dirigenti era legato a Bucharin e l’altro a Zinov'ev, il partito affetto da incurabili eresie, orgoglioso della propria tradizione e del proprio eroismo; il partito, infine, che in determinate circostanze internazionali avrebbe potuto porre ostacoli sulla sua strada... (8)

E si potrebbe continuare. Nell’infierire contro tanti comunisti ebrei. numerosissimi nei gruppi dirigenti di quasi tutti i partiti della III Internazionale, si rispecchia soltanto la diffidenza staliniana per tutto quello che è «cosmopolita», senza patria, o si esprime anche un antisemitismo atavico, profondo in Stalin come nel vecchio mondo popolare russo e non solo russo?

Ci aggiriamo tra ipotesi diverse, alimentate da una cesura non solo storiografica ma storica eccezionale: ché alle denunce formulate da Chruscèv nel 1936, al XX congresso, e divenute un coro, una valanga di accuse, al XXII, del 1961, è succeduto un ormai ventennale silenzio ufficiale da parte sovietica sulla misura, le cause, il corso del grande terrore. Ancora nel 1962 l’accademico Pospelov affermò in veste ufficiale: «Posso dichiarare che basta studiare con attenzione i documenti del XXII congresso del PCUS per dire che né Bucharin né Rykov, naturalmente, erano spie o terroristi». (9) Tuttavia non è mai giunta una esplicita «riabilitazione» dei grandi imputati dei processi di Mosca, pronunciata invece per le figure minori. Cosi è avvenuto, partito per partito, a volte apertamente a volte alla chetichella (e in blocco) per le vittime lamentate nelle loro file. In sostanza, «le più recenti storie sovietiche semplicemente evitano di parlare dei processi come se non avessero mai avuto luogo». (10) Dall’interno dell’URSS si sono invece levate voci di denuncia, come quelle - di diversa ispirazione e intonazione l’una dall’altra, ma ugualmente fondate sui fatti e le testimonianze dirette - del Medvedev di Al giudizio della storia, ovvero de Lo stalinismo, e del Solzenicyn di Arcipelago Gulag, che non sono mai state seriamente contestate anche se sono rimaste clandestine in patria, per non dire delle memorie di Ehrenburg e di molti altri sopravvissuti.

Cercheremo di districare dal groviglio i fili che più ci riconducono al nostro assunto, tenendo presente che l’impressione d’assieme è proprio quella efficacemente espressa dal comunista austriaco (proveniente dalle file del socialismo di sinistra e all’epoca funzionario del Komintern), Ernst Fischer: che il terrore penetrò «come un mostro della preistoria in un mondo che si richiamava a Marx e a Lenin, alla ragione e ai diritti dell’uomo, un mostro che parlava il gergo di una burocrazia delirante». (11)

Basteranno pochi cenni, riassuntivi, sulla misura e i bersagli del terrore staliniano rivolto all’interno, non separabili dalla repressione condotta nei confronti degli «stranieri». L’offensiva si esercita, nel 1936, in primo luogo sul Partito bolscevico, sui suoi dirigenti, sul corpo intero del partito, si estende ai capi dell’esercito rosso, dell’apparato statale (travolgendo anche gli stessi solerti artefici della macchina repressiva, della polizia segreta, da Jagoda a Ezov a tanti altri), a scrittori, artisti, intellettuali, fino ad assumere caratteri di massa nel 1937, l'anno nel quale si scatena «la più massiccia e devastatrice offensiva di repressioni politiche che l'Unione Sovietica avesse mai conosciuto». (12) Essa continua nel 1938, per spegnersi soltanto nel 1939.

Sono condannati a morte, in due dei tre grandi processi pubblici del 1936-38, Zinov'ev e Bucharin, che erano stati entrambi alla testa dell’Internazionale comunista nel suo primo decennio di vita. Morirà in prigionia Karl Radek, una delle figure più popolari del Komintern; sono fucilati anche Pjatakov, Sokolnikov, Serebrjakov, Kamenev, Ivan Smirnov, Rykov, Rakovskij, Pjatnickij (e Tomskij si suicida). È tutta la schiera dei più prestigiosi dirigenti del partito di Lenin ad essere eliminata e come doppiamente sepolta, sotto accuse infamanti, quale una banda di spie al soldo dei servizi segreti stranieri, in cui le distinzioni tra i membri delle vecchie opposizioni di sinistra e di destra sono state fatte scomparire: trockisti e insieme opportunisti di destra, tutti quanti riuniti in un «blocco».

Ma numerosi, e senza processi pubblici, cadono anche i quadri più ortodossi formatisi alla selezione staliniana, russi ucraini, bielorussi, georgiani, di tutte le repubbliche sovietiche. Secondo il rapporto di Chruscev, vengono arrestati 1018 dei 1966 comunisti che furono delegati al XVII congresso del Pc(b), quello del 1934. Dei membri del Comitato centrale eletti a quel congresso (71 effettivi e 68 candidati), dieci vengono fucilati nel 1936 e 98 arrestati, eliminati anch’essi per la maggior parte nel 1937- 1938. Decimata è l’ufficialità dell’Armata rossa. Dopo processi segreti o con esecuzioni sommarie, scompaiono il numero uno, il famoso maresciallo Tuchacevskij, il maresciallo Bljucher, il capo di Stato maggiore, maresciallo Egorov, il comandante d’armata Jakir, il comandante della Marina ammiraglio Orlov, il comandante d’armata Uborevic, molti comandanti di corpo d’armata e di distretti militari. La repressione contro gli ufficiali sovietici pare abbia raggiunto la cifra di 35.000 uomini eliminati e sia stata quindi una decapitazione maggiore di quella provocata da una guerra. Interi comitati regionali di partito sparirono. A Leningrado perisce, in blocco, l’«attivo» della città. A Tbilisi, dei 644 delegati al congresso del Partito georgiano, nel maggio del 1937, i due terzi, 425, furono nei mesi successivi arrestati, deportati, fucilati. Cosi in Armenia, Tataria, Uzbekistan. «Sarebbe difficile - è stato notato - stabilire una graduatoria di gravità tra una repubblica e l’altra». (13)

La repressione si abbatté massiccia sugli intellettuali: più di 600 scrittori arrestati; scompaiono nomi celebri, da Babel' a Pil'niak, da Mandel'stam a Mejerchol'd; molti si uccidono.

Amministratori, tecnici, funzionari dirigenti dell’apparato produttivo sono anch’essi colpiti. Un piccolo esempio: scompaiono nelle aziende siderurgiche 117 direttori su 161. Periscono celebri scienziati come Vavilov e Tulajkov.

Quante furono le vittime? Non esistendo cifre sicure le valutazioni oscillano: secondo Roj Medvedev, vi furono «almeno» 400-500.000 morti e dai quattro ai cinque milioni di cittadini arrestati. Secondo il dirigente jugoslavo Mosa Pijade, «più di tre milioni di persone furono uccise in URSS dal 1936 al 1938». (15) Per lo studioso inglese Conquest, gli arresti ammontarono a circa otto milioni e mezzo e le esecuzioni si situavano nella proporzione del 10 per cento. Il numero dei morti «si aggira probabilmente intorno al milione», anche se «non si può fare una valutazione esatta». (16) E certamente non tutti, uno per uno, furono mandati al macello da Stalin, anche se la maggior parte delle liste dei condannati erano da lui «vistate».

La proporzione dell’ecatombe è tale che di per sé non può non contenere quegli elementi irrazionali cui si faceva cenno. Gli storici si sono sbizzarriti in ipotesi sulle cause del grande terrore, su una marea che si alzò incontenibile. Se non si privilegiano quelle accentrate sul carattere sanguinario del tiranno, novello Ivan il Terribile, cosi come su un vortice in cui la macchina repressiva fu presa, e poiché nessun ragionevole dubbio esiste sul fatto che né i vecchi bolscevichi, ex oppositori o meno, né i dirigenti di partito periferici o i comandanti dell’Armata rossa avevano ordito complotti o erano in qualche modo responsabili dei reati che confessavano (del resto, il castello di accuse sui legami tra i maggiori imputati dei processi pubblici con l’esule Trockij fu smantellato sin da allora in un contro-processo, presieduto da John Dewey in America), (17) molto credito ha avuto, pur con varianti, l’interpretazione generale data dal Deutscher, e condivisa dallo Schlesinger, secondo la quale Stalin, dinanzi alla prospettiva di una guerra ormai prossima, avesse voluto eliminare fin da principio ogni possibile oppositore che si sarebbe potuto valere delle sconfitte militari come di un’occasione per assumere il potere, per costituire un altro governo diverso dal suo, (18) e che la repressione fu condotta fino al limite che sappiamo per prevenire o colpire un’autodifesa organizzatasi all’interno del partito e dell’esercito. (19)

La riflessione sulle cause del terrore si è fatta negli ultimi decenni molteplice e varia: si è posto l’accento sulle funeste conseguenze del modo come era stata attuata la collettivizzazione forzata delle campagne e della «compenetrazione strettissima tra l’apparato del partito e quello dello Stato», (20) sulla mentalità secondo la quale ogni difficoltà economica, ogni traguardo non raggiunto dal piano erano da attribuirsi a sabotatori (21): si è collocata all’origine «teorica» delle degenerazioni poliziesche l’affermazione di Stalin secondo la quale quanto più si coglieranno successi nell’edificazione del socialismo, «tanto più i residui delle vecchie classi sfruttatrici distrutte diverranno feroci... tanto più ricorreranno ai mezzi di lotta più disperati come agli ultimi mezzi di chi è condannato a morte».

E, in effetti, il riaffermarsi ed estendersi di uno spirito di inquisizione, di «vigilanza di massa», di stato d’assedio, nel quadro di crescenti pericoli di guerra, mentre si combatteva in Spagna e il fascismo dilagava in Europa, sono dati da tenere presenti, sia per l’eco internazionale del terrore - come vedremo - sia per il legame tra la politica estera staliniana e la politica interna. Tutto ciò costituì un incentivo all’affermazione del potere assoluto di Stalin, del culto della sua persona e funzione. Medvedev ha attirato l’attenzione su un fattore di questo tipo:

    Pur sembrando paradossale, un altro importante fattore che può servire a spiegare il culto di Stalin furono i delitti da lui commessi. Non li commise da solo. Sfruttando l’entusiasmo rivoluzionario e la fiducia popolare, l’enorme potere del partito e il senso di disciplina dello Stato, oltre al basso livello di educazione operaia e contadina, Stalin coinvolse milioni di persone nei suoi crimini. Non soltanto gli organi di sicurezza dello Stato, ma l’intero apparato di partito e di governo parteciparono attivamente alla campagna repressiva degli anni trenta. Migliaia di funzionari furono membri delle troiki che condannarono gente innocente. Decine di migliaia di funzionari sanzionarono l’arresto dei propri subordinati, come si richiedeva in una risoluzione del Politbjuro del 1937. I commissari furono costretti a sanzionare l’arresto dei propri aiutanti, i segretari di Obkom l’arresto dei funzionari di partito del proprio oblast, così come il presidente dell’Unione scrittori sanzionò l’arresto di molti letterati. Centinaia di migliaia di comunisti votarono per l’espulsione dal partito dei «nemici del popolo». Milioni di persone comuni presero parte a riunioni e manifestazioni per chiedere severe rappresaglie contro i «nemici». Di frequente la gente chiedeva che venissero puniti i suoi stessi più vecchi amici. In quegli anni la maggioranza del popolo sovietico credeva in Stalin e nella NKVD ed era sincera nella sua indignazione contro i «nemici del popolo». (22)

È evidente che, da questo punto di vista, l’insistenza, nelle requisitorie pronunciate da Vysinskij ai grandi processi pubblici - le cui udienze erano largamente popolarizzate - sulla penetrazione di spie, sulla misura del sabotaggio organizzato dall’estero, dai servizi segreti - in primo luogo tedesco e giapponese - aveva ancbe un significato più ampio, concorreva a infondere la convinzione di massa che l’URSS era circondata di nemici agguerriti e spietati, che bisognava rinserrare le file, prepararsi a nuovi sacrifici, affidarsi più che mai all’incrollabile determinazione di Stalin.

Forse è andato più addentro nell’analisi del fenomeno chi - come Giuseppe Boffa, nel suo dialogo con un Gilles Martinet sostanzialmente consenziente - sostiene che la vera causa delle repressioni staliniane di massa, considerate alla stregua di un «salto di qualità» nel regime sovietico, risieda nella volontà di Stalin di colpire tutto lo strato dirigente del Partito bolscevico per stroncare definitivamente ogni possibile alternativa. Il vecchio partito continuava per lui ad essere un pericolo, un ostacolo, «un’anima» del comunismo che continuamente risorgeva e poteva riproporre ancora un’opposizione al sistema e alle concezioni del potere staliniano.

    Si trattava di colpire e annientare organismi che avevano acquistato un autentico potere nelle precedenti battaglie. Era quindi necessario porre l’apparato poliziesco al di sopra del partito perché potesse agire senza freni contro il partito stesso. Il meccanismo del terrore doveva diventare incontrollabile, autoalimentandosi di rancori e denunce, prendendo il carattere generale che ebbe nel 1937-38: era difficile infatti colpire uno strato politico così esteso, che per di piu dirigeva non soltanto il partito ma l’intera società, senza creare un’atmosfera di paura generalizzata, di vero e proprio timore ossessivo, per cui non c’era nessuno che osasse levarsi a protestare. (23)

Stalin aveva dunque bisogno di spezzare una resistenza che non era prima riuscito a stroncare completamente, aveva bisogno di uccidere un’anima del vecchio bolscevismo in primo luogo. La repressione come fenomeno essenzialmente controrivoluzionario, insomma. Non per caso essa colpisce i comunisti sovietici e quelli stranieri legati per molti fili al vecchio strato dirigente bolscevico.

Che il regime interno del Komintern si deteriori in concomitanza con lo scatenarsi del terrore pare ovvio, data la realtà circostante e sovrastante, a Mosca e in tutto il paese. Va notato peraltro che già con il VII congresso dell’Internazionale comunista, quindi con il 1935, l’apparato dell’organizzazione è posto nelle mani di funzionari della NKVD, non soggetti ad alcun controllo da parte di un Dimitrov o di un Togliatti ma dipendenti direttamente dal capo della polizia. N. I. Ezov stesso entra allora nell’Esecutivo del Komintem, mentre nel Presidium e nella segreteria viene eletto un certo Moskvin, un nome fittizio dietro al quale si cela Michail A. Trilisser, un dirigente della NKVD (anch’egli destinato ad essere travolto dalla repressione) . (24) In una situazione nella quale la maggior parte dei partiti comunisti affiliati già dipende finanziariamente del tutto dalla «Centrale» e alla vecchia emigrazione politica di militanti che hanno trovato rifugio in URSS, essendo perseguitati in patria, si aggiungono nuovi arrivi via via che il nazifascismo si impadronisce di nuovi paesi: l’introduzione di un’atmosfera poliziesca ha conseguenze catastrofiche.

Si è osservato che anche per i vari gruppi dirigenti che lavorano o sono ospitati in URSS vale la dinamica che ha caratterizzato i processi di Mosca: il colpo principale è inferto ai vecchi quadri, uomini che spesso facevano parte della sinistra zimmerwaldiana della prima guerra mondiale, (25) in particolare ai polacchi, da Mieczyslaw Bronski ad Adolf Warszawski (pseudonimo, Warski), da Maksimilian Horowitz (Walecki) a Wladislaw Stein a Pawel Lewinson (pseudonimo, Lapinski), ma non soltanto ai polacchi: oltre allo svizzero Platten già ricordato, sono arrestati l’austriaco Franz Koritschoner, molti ungheresi, da Béla Kun a Jozsef Rabinovicz, il tedesco Hugo Eherlein, uno dei fondatori del Komintern nel 1919, finlandesi, lettoni, jugoslavi, della vecchia guardia raccoltasi attorno a Lenin nel primo dopoguerra. Tuttavia anche per i bersagli della repressione condotta nei confronti dei rivoluzionari rifugiatisi in URSS non esistevano regole fisse. Se si vuole fissare una graduatoria per numero delle vittime, il primato spetta al partito polacco, il cui quadro dirigente è sterminato e che viene sciolto, segretamente, nell’agosto del '38. (26) Cadono, oltre ai già ricordati, il segretario del partito Julian Leszczyrìski (pseudonimo, Lenski), Edward Prochniak, già membro dell’Esecutivo del Komintern, Henryk Stein (Domski), Maria Koszutska, notissima con lo pseudonimo di Wera Kostrzewa, dirigente di primo piano, arrestata nel 1937 - come quasi tutti gli altri - e morta nella prigione della Lubianka, Jerzy Heryng (pseudonimo, Ryng), che viveva clandestino in Polonia, fu chiamato a Mosca alla fine del 1937 e scomparve. Cosi accadde anche a un altro dirigente dell’Ufficio politico, Saul Amsterdam (pseudonimo, Henryk Henrykowski).

Abbiamo citato soltanto le figure dei massimi leaders polacchi, ma la repressione colpiva anche semplici militanti, lavoratori «senza partito», da tempo residenti in URSS. Si trattava di decine di migliaia di persone. «Secondo un comunista polacco, nella sola Mosca all’epoca del processo Bucharin furono giustiziati 10.000 polacchi, con un totale di 50.000 in tutto il paese». (27) La tragedia polacca fu la più grave, come si è detto, e la decisione di sciogliere quel partito comunista non si potrebbe definire meglio che con le parole impiegate nel 1961 da Paimiro Togliatti - il quale pure, come gli altri membri della segreteria, avallò all’epoca il provvedimento «una decisione errata e catastrofica». (28) Oltre alle ragioni e ai risentimenti adombrati dal Deutscher, certamente pesò, nei confronti del gruppo dirigente del Pcp, il fatto che esso fosse stato diviso da aspre lotte politiche interne. Contarono i contatti che or l’uno or l’altro dei dirigenti avevano avuto negli anni venti con i membri delle opposizioni bolsceviche. Ma valga anche, in proposito, l’insieme delle osservazioni generali già introdotte per questo doloroso capitolo. Il sospetto gravava su tutti, lo zelo degli ortodossi poteva spingerli a gettarlo anche sui compagni della stessa emigrazione, dello stesso partito.

Un militante comunista italiano, Paolo Robotti, operaio specializzato che lavorava in un’industria sovietica ed era cognato di Togliatti, fu arrestato il 9 marzo 1938 e liberato il 4 settembre 1939, dopo essere stato sottoposto a torture in carcere. Egli ha testimoniato che gli inquirenti non solo volevano «confessasse» un complotto degli italiani membri del «club degli emigrati» (di cui era dirigente), ma ricercavano anche responsabilità più in alto, dello stesso Togliatti e di Giuseppe Di Vittorio, in quel momento in Spagna l’uno e in Francia l’altro. (29) L’episodio indicherebbe che la macchina girava in modo tale da accumulare «dossiers» di accusa su tutti e ciascuno. Robotti si salvò perché riuscì a resistere alle pressioni fisiche e negò ogni addebito fino al momento in cui si spense l’ultima ondata repressiva. La caccia era stata tuttavia condotta sistematicamente per più di due anni. La maggior parte dei dirigenti polacchi erano già stati fucilati quando venne il provvedimento di scioglimento del partito. Manuirskij, nel suo ricordato rapporto del 1939, disse semplicemente che il partito polacco era risultato «le plus encombré d’éléments ennemis»: un «ingombro» di cui ci si era nel frattempo sbarazzati.

Nel Partito comunista tedesco, le perdite furono numerose. Le repressioni privarono quel partito di alcuni dei suoi elementi più prestigiosi. Si è già ricordato Hugo Eberlein, presente a Mosca al congresso di fondazione dell’Internazionale comunista nel 1919. Con lui cadono Heinz Neumann, membro dell’Ufficio politico (arrestato nel 1937 con la moglie Margarete), Leo Elieg, membro della commissione di controllo, Hermann Renimele, che rappresentava, fino al suo arresto nel 1937, il partito tedesco nell’Esecutivo dell’Internazionale, Fritz David, Hermann Schubert, Hans Kippenberg, Werner Hirsch e molti altri. Né si può tacere della misteriosa morte di Willi Münzenberg, l’uomo che organizzò, per conto del Komintem, l’invio di armi e volontari per la repubblica spagnola, una personalità molto forte. Münzenberg si rifiutò di rientrare a Mosca nel 1937, fu rinchiuso nel 1939 in un campo d’internamento francese e, nel corso di un trasferimento a un altro campo, nel 1940 spari: si ritrovò il suo cadavere qualche tempo dopo in un bosco. Se nel 1936, secondo la testimonianza della moglie di Hans Neumann, Margarete Buber, Münzenberg era riuscito a lasciare l’URSS solo per l’intervento di Togliatt, Tito, a sua volta, ha raccontato che fu Dimitrov a sottrarlo all’accusa, che gli sarebbe stata fatale, di essere un trockista mascherato; ma il Partito comunista jugoslavo perse più di un centinaio di militanti nelle repressioni staliniane. Mentre nel '37 la polizia della dittatura reazionaria jugoslava arrestava mille comunisti clandestini, a Mosca le epurazioni decapitavano il gruppo dirigente emigrato. Come ha scritto Tito,

    Durante le epurazioni staliniane furono arrestati, condannati e liquidati, o se ne perse ogni traccia in prigione, Filip Filipovic, Ramilo Horvatin, Rosta Novakovic, Duka e Stefan Cvjii, Rade e Grgur Vujovic, Mladen Conic, Anton Mavrak ed altri. La loro tragedia era tanto maggiore in quanto furono mandati a morte sotto accuse mostruose di delitti mai commessi. La situazione era in quel tempo eccezionalmente grave. Veniva accusato persino il nostro partito intero. Nel Komintern si parlava di scioglierlo.

All’elenco va aggiunta la figura principale, il segretario del partito, Milan Gorkic, membro candidato dell’esecutivo del Komintern, arrestato e ucciso nel 1937, con la moglie ucraina, Betty Glane, accusata di essere una spia dell’Intelligence Service. Il dato più significativo della testimonianza di Tito concerne la minaccia di scioglimento dell’intero partito jugoslavo. (32) Sono questi elementi a dirci fino a quale misura si spingesse l’autoritarismo dell’apparato centrale dell'Internazionale sotto la spinta degli uomini dei servizi di sicurezza del ministero degli Interni sovietico, ma anche sull’onda di una vera e propria furia di «epurazione» nella quale ogni gruppo dirigente veniva travolto.

Se è vero quanto è stato rilevato - che, dei partiti illegali, vennero risparmiati dalle «purghe» soltanto il partito italiano e quello bulgaro, per la funzione moderatrice esercitata da Togliatti e da Dimitrov - non meno provato è il fatto che, nell’atmosfera di caccia al trockista e al provocatore, di accuse di scarsa «vigilanza rivoluzionaria», anche il Centro estero del PCI, per sua fortuna operante a Parigi, fu sottoposto a tali critiche e sospetti che, nel 1938, si decise a Mosca di scioglierne il Comitato centrale, con un atto d’autorità simile a quelli messi in opera o ventilati per polacchi, lettoni e jugoslavi. (33) E un centinaio di lavoratori italiani che vivevano in URSS, comunisti, anarchici, «senza partito», per la maggior parte «in produzione», ma anche funzionari di organizzazioni politiche o sindacali, perì nelle repressioni: tra di essi, un giornalista molto noto ai tempi di Gramsci, Edmondo Peluso, Vincenzo Baccalà già segretario della federazione romana del PCI, Giuseppe Rimola, un operaio meccanico novarese, Natale Premoli, Lino Manservigi, Paolo Baroncini, Giuseppe Guerra, Emilio Guarnaschelli (34) e numerosi altri, quasi tutti operai, o tecnici, quasi tutti già condannati in contumacia dal Tribunale speciale fascista. (35.)

Il particolare più illuminante, riferito da Paolo Robotti, concerne la mentalità degli inquisitori, spesso giovanissimi, funzionari della NKVD dell’ultima leva: che il passato di combattenti in armi contro il fascismo era considerato un indizio a carico. Raccontando di un interrogatorio condotto da uno di essi, Robotti scriveva:

    La sua ignoranza delle cose internazionali era addirittura sorprendente. Insistette particolarmente sull’accusa di terrorismo e le «prove» le trovò nel fatto che io, all’estero, avevo organizzato alcuni atti di rappresaglia contro il fascismo.

    - È vero o no? - urlava.

    - Si, è vero e me ne vanto!

    - Allora, vedi che sei un terrorista! (36)

Nel «sovversivo» si poteva sempre celare il nemico dell’ordine staliniano, tanto piu se era straniero, se proveniva da un mondo sconosciuto e dipinto a colori foschi. La Spagna della guerra civile non faceva eccezione. Se peìi nelle repressioni, richiamato in patria, Vladimir Antonov-Ovseenko, console sovietico a Barcellona, l’uomo che nel 1917 aveva guidato l’assalto al Palazzo d’inverno, la stessa sorte toccò a Michail Kol'cov, autore di popolarissime corrispondenze dal fronte sulla «Pravda». (37) Lo jugoslavo Vlada Copiç fu eliminato appena tornato dal comando della sua Brigata internazionale in Spagna. E molti ex combattenti delle Brigate furono soppressi. Quella mentalità sarebbe rimasta anche nel dopoguerra. Basti rammentare il celebre libro sugli interrogatori subiti a Praga nel 1949 dal cecoslovacco Arthur London, anch’egli combattente in Spagna. (38) A sua volta Vittorio Vidali, il commissario del «Quinto reggimento», rientrato a Parigi nel 1938, fu formalmente sconsigliato dall’amica Elena Stassova, l’ex segretaria di Lenin, dal tornare in URSS: meglio andare negli USA, anche a costo di esservi arrestato. Chi gli portava il messaggio, il comunista inglese Tom Bell, disse a Vidali che a Mosca gli apparati intemazionali erano stati svuotati «già due o tre volte» (39) Le direzioni dei partiti illegali si salvavano soltanto quando operavano in paesi europei, democratici o meno. Per quanto concerne il PCI, un suo dirigente, Ambrogio Donini, ha affermato:

    Si è trattato di un vero e proprio dramma, che solo la fermezza di Togliatti - e il precipitare della situazione internazionale, con l’inizio delle ostilità e la dispersione dei compagni colpiti dalla repressione in Francia, in Spagna e in Italia - impedì che degenerasse in una tragedia non meno sanguinosa e allucinante di quella che pesò sull’Unione Sovietica negli anni 1936-39. (40)

Quanto ai comunisti bulgari, alcuni arrestati furono liberati per intervento di Dimitrov, altri scomparvero: tra questi Blagoi Popov e Vasil Tanev, che erano stati coimputati del segretario dell’Internazionale comunista al processo di Lipsia. Del partito rumeno cadde, tra gli altri, Marcel Pauker, segretario generale e rappresentante del Pcr nell’Esecutivo del Komintem (la moglie, Ana Pauker, fu arrestata dai fascisti in Romania, contemporaneamente al marito che veniva liquidato in URSS). (41) Accusato di fare parte del gruppo di Zinov'ev-Kamenev, Pauker fu fucilato nel 1937. Sotto accuse analoghe, di collusione con le opposizioni trockista o zinov'evista, vennero arrestati alcuni dirigenti comunisti ungheresi, in testa il famoso Béla Kun, il capo della effimera e gloriosa repubblica dei Consigli del 1919. Béla Kun non aveva più posti di responsabilità politica anche se era stato membro dell’Esecutivo del Komintern. Arrestato nel giugno del 1937, pare che sia morto nel novembre del 1939. La moglie, anch’essa internata e confinata in un campo dal 1938 al 1946, seppe ufficialmente della sua morte soltanto nel 1955. (42) Toccherà a Eugenio Varga, al tempo del XX congresso del PCUS, «riabilitare» la figura del più grande rivoluzionario ungherese: sulla «Pravda» del 21 febbraio del 1936. Nel caso dei finlandesi emigrati, di certo non tutti comunisti, la deportazione avrebbe colpito migliaia di persone.

Di fronte a un olocausto di queste proporzioni, si comprende bene come l’Internazionale comunista non potesse sopravvivere come organismo politico che avesse un minimo di vitalità e di dialettica interna. Giorgio Amendola lo ha denunciato in termini lapidari: «L’Internazionale comunista non si riprese più dai colpi inferti dalla repressione». (43)

NOTE

1 Jules Humbert-Droz, Dix ans de lutte antifasciste, 1931-1941, Neuchàtel 1972, p. 349-

2 Dalle Conclusioni di N. S. Chrusev, in XXII Congresso del PCUS, Atti e risoluzioni, Roma 1962, p. 680.

3 Ernst Fischer, Ricordi e riflessioni, Roma, 1973, p. 21.

4 Massimo L. Salvatori, La critica marxista allo stalinismo, in Storia del marxismo, Torino 1981, III, 2, p. 101

6 Cfr. in particolare su questo punto Stephen Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica, Milano 1975, p. 17i.

6 Evgenij Evtusenko, Autobiografia precoce, Milano 1963, p. 16.

7 Stalin, a cura di Robert McNeal, consulente Stephen Cohen, Milano 1980, p. 866.

8 La tragedia del Partito comunista polacco, in Isaac Deutscher, Lenin: frammento di una vita e altri saggi, prefazione di Tamara Deutscher, Bari 1970, p. 148.

9 Giuseppe Boffa, Storta dell'Unione Sovietica, Milano 1976, I, p. .593

10 Ibid.

11 Fischer, Ricordi e riflessioni, cit., p. 451.

12 Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, cit., I, p. 575-

13 Ibid., p. 584.

14 Roj Medvedev, Lo stalinismo, Milano 1971, pp. 294-95.

15 Cfr. Vladimir Dedjer, Tito speaks, London 1955, p. 101.

16 Robert Conquest, Il grande terrore, Milano 1970, pp. 725 sgg.

17Cfr. Isaac Deutscher, Il profeta esiliato: Leone Trockij 1929-1940, Milano 1965, pp. 470-90

18 id., Stalin, Milano 1969, pp. 537-38.

19 Rudolf Schlesinger, II Partilo comunista dell’URSS, Milano 1962, p. 261.

20 Giuliano Procacci, Il partito nell’Unione Sovietica, Bari 1974, p. 154.

21 Pietro Ingrao, L’origine degli errori, in «Rinascita», a. XVIII, n. 12, dicembre 1961.

22 Medvedev, Lo stalinismo, cit., p. 44

23 Giuseppe Boffa e Gilles Martinet, Dialogo sullo stalinismo, Bari 1976, p. 103.

24 Cfr. M. M. Drachkovitch e B. Lazich, The Comintern: Hìstorìcal Highlights, New York 1966, p. 140. Cfr., anche, Giuseppe Berti, Problemi di storia del PCI e dell’Internazionale comunista, in «Rivista storica italiana», a. lxxxii, n. 1, marzo 1970, pp. 190 sgg.

25 Cfr. Drachkovitch e Lazich, The Comintem: Hìstorìcal Highlights cit., pp. 142 sgg.

26 Cfr. Storia dell'Internazionde comunista, edizioni Progress, Moskva 1974, p. 455. Si tratta di un «breve saggio» sulla storia del Komintem, edito dall’Istituto del marxismo-leninismo presso il CC del PCUS, redatto con la collaborazione di esponenti di primo piano dell’Intemazionale comunista, avente quindi carattere ufficiale. In esso si ricorda che le accuse mosse nel 1937-38 al partito polacco, di «trovarsi nelle mani dei nemici di classe», erano infondate.

27 Conquest, II grande terrore cit., p. 6oi.

28 Palmiro Togliatti, Diversità e unità nel movimento comunista internazionale, in « Rinascita», a. xviii, n. 12, dicembre 1961, p. 909. Quanto alla sua partecipazione personale alla decisione di scioglimento del partito polacco, cfr. Paolo Spriano, Il compagno Ercoli, Roma 1981, pp. 147-51.

29 La testimonianza piu completa fu resa dal Robotti nel 1980, in un’intervista alla Tv italiana. Per il racconto delle sue traversie cfr. Paolo Robotti, La prova, Bari 1965, e per i ricordi autobiografici, id., Scelto dalla vita, Roma 1980.

30 Margarete Buber-Neumann, La révolution mondiale, Tournai 1971, p. 386.

31 Josip Broz Tito, I comunisti iugoslavi tra le due guerre cit., p. 72.

32 Secondo testimonianze raccolte dal Conquest (Il grande terrore cit., p. 322) anche il Partito comunista lettone fu sciolto nel 1937-38.

33 Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Torino 1970, III, pp. 246-61.

34 Cfr. Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra, Milano 1982.

35 Un calcolo non ufficiale di fonte sovietica, del 1942, dà la cifra di 104 persone, tra caduti e dispersi, che dovrebbero essere stati tutti «riabilitati» dopo le revisioni condotte per le vittime delle repressioni (Spriano, Storia del PCI cit., Ili, p. 242). Cfr. anche, sulla tragedia delle repressioni che colpiscono gli italiani residenti in URSS, Guelfo Zaccaria, 200 comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo, Milano 1964; Renato Mieli, Togliatti 1937, Milano 1964, pp. 90-97 e, soprattutto, la testimonianza personale offerta da un sopravvissuto, Dante Corneli, Il redivivo tiburtino, Milano 1977.

36 La prova cit., p. 202.

37 Le si possono leggete in Michail Kol'cov, Diario della guerra di Spagna, Milano 1966.

38 Arthur London, La confessione, Milano 1969.

39 Vittorio Vidali, La caduta della Repubblica, Milano 1979, pp. 116-18.

40 Ambrogio Donini, I comunisti e la Chiesa di fronte alla guerra, in I comunisti raccontano, a cura di Massimo Massaia, Milano 1972,1, p. 267.

41 Drachkovitch e Lazich, The Comintern: Historicd Highlights cit., pp. 163-64.

42 iren Gal, Béla Kun, prefazione di Enzo Santarelli, Roma 1969, p. xxv.

43 G. Amendola, Storia del PCI cit., p. 344.