Pietro Ingrao

Praga

L'avevano chiamata la «primavera di Praga» ed era stata una chiara rivoluzione politica, che all'inizio del '68 riportò alla guida della Cecoslovacchia Alexander Dubcek, quel leader comunista messo al bando per imposizione dell'URSS. E c'erano stati due significativi incontri internazionali che avevano acceso forti speranze sull'avvenire di quel nuovo governo cecoslovacco. Prima era andato a Praga Tito e s'era stretta un'alleanza significativa. A Praga si recò anche Longo, con il consenso chiaro di tutto il gruppo dirigente del PCI.
In estate, improvvisamente, venne invece un primo allarme sull'incrinarsi dei rapporti tra l'URSS e la nuova giovane dirigenza cecoslovacca. Preoccupati, ne discutemmo nella direzione del partito, e Longo ne parlò con i sovietici, i quali lo rassicurarono. Tanto che Longo decise di trascorrere le sue vacanze in URSS.
Invece venne quell'evento tristissimo: nella notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe sovietiche entravano a Praga e mettevano le manette ai polsi di Dubcek.
Ricordo come fosse ora - con collera e amarezza - quell'evento fatale, che incise così profondamente nelle mie convinzioni e nella mia vita di militante.
Ero allora in vacanza al mio paese. Al tramonto, ero tornato con la famiglia da una lunga giornata di mare, quando improvviso squillò il telefono: mi chiamavano da Roma, dall'«Unità». Mi informavano di notizie di agenzia che parlavano dell'entrata dei carri armati russi a Praga.
Non esitaì un minuto e mi misi in macchina verso la capitale, con il cuore in tumulto. Entrai in una Roma immersa nel silenzio notturno. AlI'«Unità» trovai i compagni giornalisti in febbre, e con essi Cossutta che allora era membro della segreteria del partito.
A Praga avevamo un folto gruppo di compagni, perché in quella capitale stupenda vivevano rifugiati un manipolo di partigiani ancora a rischio di arresto per vicende riguardanti la lotta di liberazione. Quante volte, in quella città, mi ero affacciato incantato sulle rive del suo fiume, per poi salire fino a quella piazza maestosa che in alto fronteggiava un stello muto. E mi affascinava quel girovagare tra vie e frontoni di chiese, angoli silenziosi e botteghe singolari. Sempe con in testa il ricordo di quelle avanguardie tormentate del Novecento che avevano schiuso mondi sepolti: Kafka, più d'ogni altro.
A Roma, quella notte, mentre salivo di corsa nella redazione speravo ancora ardentemente che la notizia dell 'aggressione sovietica fosse una menzogna, o un errore delle agenzie di stampa borghesi. Purtroppo - attorno a mezzanotte - venne l'amarissima conferma.
Ci consultammo tra compagni. Non era possibile a quell'ora parlare con Longo in URSS. E subito fummo d'accordo che non si poteva aspettare l'indomani. Stilammo un comunicato che esprimeva una dura e netta condanna dell'invasione.
Adempiuto quel compito, mentre il giornale andava in stampa, girammo turbati nelle vie di quella Roma notturna. Quante volte da giovane avevo fatto quelle passeggiate ciarliere, magari mentre mia madre mi aspettava con ansia alla finestra! Ora camminavamo in silenzio, senza saper arrischiare alcuna previsione.
La mattina seguente venne presto la telefonata di Longo. Insieme con me credo ci fossero Cossutta e Reichlin. Leggemmo a Longo il testo di quella nostra dichiarazione, e leggendo sentivo un'aspra trepidazione. Mi sembrava di stringente importanza che il partito sin da subito avesse espresso una posizione chiara. Sapevamo che dinanzi a quell'evento la nostra parola avrebbe avuto una risonanza internazionale e un significato nella storia del partito: era la prima volta che il PCI si schierava così apertamente e duramente contro l'Unione Sovietica. Mai era avvenuto con tale nettezza - e di fronte a eventi di tale portata. Presto la condanna fu confermata da Longo con una sua dichiarazione dura e netta.
Fu in quei giorni, traversando quelle ore di angoscia, che venne crescendo in me un distacco dall'URSS: forse troppo lento.
Su quella vicenda cruciale presto si sviluppò una dura battaglia dentro il partito.
A guardare le cose tanto tempo dopo, quegli anni di sicuro segnarono l'irrompere - nella nostra parte - di separazioni fondamentali. Alcune emersero crudamente subito. Altre furono non dichiarate o perlomeno non scritte sulle bandiere, ma pesarono ugualmente. E tutte - o quasi - ebbero il loro centro nel discorso sui paesi socialisti. Il giudizio ormai non riguardava solo il presente e Chruscev, ma tutta la vicenda raccolta in quel nome: comunismo.
Così trascinante, così contestato nel suo esistere concreto, e da me così amato...

da Volevo la luna, Einaudi, 2006