Jiri Pelikan

Un'utopia che cova da vent'anni

Cecoslovacchia, vent'anni dopo. Cominciò nel marzo di vent'anni fa, a Dresda, il nostro scontro con Breznev che il 20 agosto doveva sfociare nell' invasione del mio paese. Riuniti nella città della Ddr, i capi dei paesi del Patto di Varsavia avevano lanciato l'avvertimento: in Cecoslovacchia il socialismo è in pericolo. Il romeno Ceausescu era assente, il polacco Gomulka, il tedesco-orientale Ulbricht, il bulgaro Zhivkov, dettero man forte al leader sovietico, e di fronte agli alleati in allarme, Dubcek e i suoi compagni si trovarono soli. Invano tentarono di rassicurare i loro interlocutori: La situazione è sotto il nostro pieno controllo, mai prima d'ora l'adesione alla politica del Partito è stata così vasta, dicevano.
Le proposte del Programma d'azione del PCC, che tanto richiamano la perestrojka di Gorbaciov, o le riforme oggi in atto in Ungheria e in Polonia, erano viste dai nostri alleati come una minaccia. Quella riunione a Dresda fu come un dialogo tra sordi: da una parte Dubcek, comunista convinto, ma deciso a rinnovare il sistema per salvarlo, dall'altra parte i dirigenti di cinque paesi, attaccati alla difesa del loro potere.
Dalla riunione di Dresda in poi, cominciarono i mesi del grande dilemma di Dubcek: occorreva abbandonare il Nuovo corso, archiviare le riforme e aspettare che anche in Unione Sovietica maturassero le condizioni di un rinnovamento del sistema, e ignorare così le aspirazioni della maggioranza dei cecoslovacchi? O bisognava continuare nel processo di riforma, sapendo però che questo significava rischiare il conflitto con l'Unione Sovietica? E nel caso questa fosse stata la scelta, sarebbe stato necessario prepararsi alla resistenza mobilitando la popolazione, e cercando alleanze nel movimento operaio internazionale?
Dubcek tentò una terza via: cercò di andare avanti con le riforme, ma senza provocare un conflitto con Mosca e i suoi alleati. All'interno, negli incontri con noi dirigenti del partito e dello Stato, chiedeva prudenza, ma senza mai mettere in discussione la libertà di stampa e la nostra autonomia. Con Breznev, che lo convocava a Mosca ogni mese, cercava invano di spiegarsi. Il capo del Cremlino gli mostrava furente resoconti sugli articoli della stampa o i programmi della televisione cecoslovacche, denunciando le critiche al sistema. Ma io dirigo il partito, non posso avere il tempo di leggere tutto, ribatteva calmo Dubcek, e aggiungeva: Quel che conta è l'appoggio delle masse al partito, e Vi assicuro, compagno Leonid Ilic, che l'appoggio delle masse non è mai stato così entusiasta come oggi. Breznev batteva i pugni sul tavolo, e rispondeva: Ma se non avete il pieno controllo della stampa, della radio e della tv, vuol dire che la controrivoluzione ha ormai via libera a Praga.

Cos'era dunque questa controrivoluzione, che Breznev temeva come un incubo? Come e quando era nata, quali erano le sue radici nella società cecoslovacca? La primavera non cominciò il 5 gennaio 1968, quando il Plenum del Comitato centrale del partito destituì Antonin Novotny, e al suo posto scelse il leader slovacco Alexander Dubcek come segretario generale. Le sue origini risalgono a cinque anni prima, al 1963, quando l'onda lunga del riformismo di Kruscev approda a Praga: arrivano le prime riabilitazioni delle vittime dei processi staliniani, inizia sulla stampa ufficiale e nel partito la riflessione sul sistema, gruppi di economisti, di filosofi e storici elaborano i primi progetti di riforme. Studenti in tumulto, scrittori e registi stanchi della censura, si uniscono alla corrente del cambiamento.
La prima espressione politica articolata dell'esigenza di riforme della società è il Programma d'azione del Partito comunista cecoslovacco. Fu pubblicato in marzo, un mese dopo quel primo ultimatum di Dresda. Auspicava un socialismo dal volto umano, voleva salvaguardare il ruolo dirigente del partito, ma postulava che non si sarebbe più dovuto governare con diktat e misure repressive o amministrative, bensì cercando l'accordo della società con il dialogo. Il Programma tentò di riabilitare lo Stato di diritto, restaurando l'indipendenza del potere giudiziario e un controllo parlamentare sugli organi di polizia; indicava anche un legame tra la riforma economica, il ritorno alle leggi del mercato, e la liberalizzazione politica.
Dubcek abolì la censura, introdusse la libertà di stampa, diede spazio ai gruppi indipendenti, come il Kan (l'organizzazione dei senza-partito) e il K-231, l'associazione degli ex prigionieri politici. Nessuna voce mise mai in discussione il carattere socialista del sistema, né l'alleanza con l' URSS.
Queste proposte politiche, approvate o discusse con calma in un paese che riscopriva la sua fierezza, furono sufficienti per innescare la reazione dell' URSS e degli altri nostri alleati. Da Dresda in poi, il dialogo tra sordi fece posto a un susseguirsi di moniti da Mosca: a fine giugno, Breznev convoca a Varsavia i leader alleati, ma non Dubcek. Solo Ceausescu, contrario a vertici che esaminassero i problemi interni degli altri paesi, diserta il summit. Da Varsavia, viene inviato a Dubcek e agli altri dirigenti cecoslovacchi un ultimatum segreto: fermate il processo politico in atto, o saremo costretti ad agire noi per difendere il socialismo.

Come fu accolto l'ultimatum di Varsavia? Quella lettera segreta giunse mentre, concluse le manovre militari del Patto, truppe sovietiche restano in Cecoslovacchia. Ma non bastò a convincere Dubcek e gli altri dirigenti del nostro partito che la minaccia di un intervento militare era reale. Al contrario: Dubcek reagì sacrificando il generale Vaclav Prchlik, massimo responsabile della Difesa. Da tempo il generale Prchlik, inviso ai sovietici, denunciava, lui solo, il pericolo reale di un'invasione, e proponeva sia una riforma del Patto di Varsavia, sia misure di preallarme. Fu un segnale di debolezza, il segnale che Breznev aspettava per sapere se la Cecoslovacchia era pronta a difendere la sua via al socialismo.
Ricordo che il 17 agosto, quando i dirigenti del Partito convocarono noi responsabili dei mass media, Dubcek era assente. Avremmo saputo poi che si trovava nella città di frontiera di Komarno, per un incontro con Kadar. In quella riunione, presi brevemente la parola per chiedere quali misure contavamo di prendere, in caso di intervento militare sovietico. Non abbiamo alcuna intenzione di diventare un'altra Jugoslavia, fu la risposta che ricevetti. Così ci mettemmo nelle mani di Breznev.
Quattro giorni dopo, con l'occupazione dell'aeroporto di Praga, iniziò l'invasione. Avremmo potuto fare altrimenti? E in tal caso, oggi la situazione in Cecoslovacchia sarebbe diversa? Sono convinto che la Cecoslovacchia non avrebbe potuto in alcun modo avere ragione di cinquecentomila soldati e di migliaia di carri armati e di aerei. Una resistenza militare sarebbe stata comunque votata alla sconfitta. Ma penso ancora oggi che l'intervento militare si poteva ancora evitare se avessimo dichiarato e dimostrato pubblicamente la nostra volontà di difendere la nostra via al socialismo con tutti i mezzi, e dunque mobilitando le forze armate e la popolazione.
È probabile che l'URSS di Breznev avrebbe scelto di non rischiare un conflitto armato con un paese europeo, confinante con la Germania. Ma mentre esprimo queste mie convinzioni, aggiungo che la questione rimane aperta e controversa, e che è troppo facile giudicare Dubcek oggi a freddo, dall'esterno, mentre in Cecoslovacchia un dibattito critico potrà aprirsi solo quando lo stesso Dubcek e gli altri dirigenti della Primavera avranno la possibilità di esprimersi liberamente sulle pagine della stampa, e quando cesserà la campagna denigratoria che da vent'anni li colpisce.


Il partito, schierato con Dubcek, tentò in realtà di salvare il suo onore politico nelle ore drammatiche dell'invasione. Mentre i carri armati ponevano fine a quello che era stato l'anno più bello nella Cecoslovacchia del dopoguerra, il congresso straordinario del PCC si tenne il 22 agosto, nella fabbrica Ckd di Visocany. Gli invasori non osarono entrare nella fabbrica, e il congresso confermò la piena fiducia a Dubcek e al suo gruppo dirigente.
Ma in quelle stesse ore il segretario generale e i suoi principali collaboratori erano già stati sequestrati dal Kgb. Trattati come prigionieri di guerra, furono portati in manette e bendati a Mosca; con la forza e le minacce, tenuti per giorni in isolamento, furono costretti a firmare il documento che approvava la presenza temporanea delle truppe sovietiche e dichiarava nulle le risoluzioni del congresso straordinario. Fu quello l'inizio della capitolazione. Dubcek e gli altri dirigenti rimasero in carica per qualche mese, ma in condizione di ostaggi, poi uno dopo l'altro vennero emarginati.
Quattrocentottantamila comunisti furono espulsi, vennero gli anni bui della repressione e dei processi politici. Quanto a me, la mia espulsione fu decisa nel settembre del 1969, a trent'anni esatti da quando, all'inizio della seconda guerra mondiale e nella Cecoslovacchia già occupata da Hitler, avevo deciso di entrare nei ranghi del PCC.
Così si chiudeva nel buio un capitolo della nostra storia. Vent'anni di repressione, di conformismo, di stagnazione brezneviana, hanno arrecato danni forse irreparabili alla società e all'economia cecoslovacche.
Ma la normalizzazione non è riuscita a piegare la Cecoslovacchia: la nascita della Charta 77, poi la creazione di altri gruppi indipendenti che oggi riuniscono comunisti espulsi, liberali, socialisti, credenti, segna il lento ma inesorabile risveglio della società civile. Paradossalmente, la Cecoslovacchia che nel '68 tentò il rinnovamento del socialismo è oggi governata da un partito screditato, che agli occhi del suo paese ha compromesso l'immagine stessa del socialismo, e che si pone come bastione brezneviano, proprio mentre l'URSS che vent'anni fa inviò i carri armati si pone oggi sulla strada delle riforme.

Quella della Primavera di Praga è come una vittoria morale postuma, che ricorda quelle degli eretici nei secoli passati. Ma i cecoslovacchi si aspettano che Gorbaciov, che non ha alcuna responsabilità per il male fatto al nostro paese, riconosca i torti di chi lo ha preceduto e tragga le conclusioni politiche di quella tragedia.

grazie a: Repubblica, 20.08.1988