L'origine del totalitarismo

Per tutto il processo di Gerusalemme, Eichmann cercò di spiegare che non si sentiva colpevole secondo l'atto d'accusa. Secondo l'atto di accusa non solo aveva organizzato la deportazione della maggior parte degli ebrei uccisi nei campi di sterminio, ma lo aveva fatto anche per bassi motivi. Eichmann non negava la deportazione, ma non accettava l'insinuazione di averlo fatto per bassi motivi. Anzi teneva a sottolineare di non essere affatto un uomo indegno e che non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto al meglio ciò che gli veniva ordinato.”
Hannah Arendt, La banalità del male

George Kateb, professore di Politica e direttore del programma di Filosofia Politica, nonché direttore dell'University Center for Human Values della Columbia University, parla di Hanna Arendt e delle sue opere.
Qui una riflessione sul suo pensiero politico.

Professor Kateb, Lei ha studiato a lungo il pensiero politico di Hannah Arendt. Può parlarci della vita e della formazione culturale di questa autrice?

Hannah Arendt nacque nel 1906 da una famiglia ebrea tedesca molto benestante e non praticante. Pur non avendo ricevuto un'educazione religiosa di tipo tradizionale, non negò mai la propria identità ebraica, professando sempre (ma in modo niente affatto convenzionale) la propria fede in Dio. Questo quadro di riferimento è estremamente importante, perché Hannah Arendt dedicò tutta la vita allo sforzo di comprendere il destino del popolo ebraico e si identificò totalmente con le sue vicissitudini.
Riguardo alle esperienze accademiche, sono fondamentali le città di Friburgo, Marburgo e Heidelberg, dove ebbe come insegnanti Heidegger e Jaspers. Jaspers le trasmise un amore profondo per la libertà, mentre a Heidegger è dovuta la sconfinata venerazione per gli antichi greci e per il loro sforzo di convivere con gli aspetti tragici della vita. A proposito del suo rapporto con Heidegger, è solo di recente che si è scoperto che furono amanti. Non so per quanto tempo lo siano stati: è comunque certo che Heidegger rappresentò per lei qualcosa di più che un insegnante. Scrisse la sua tesi di dottorato sul concetto di amore nel pensiero di Sant’Agostino, un testo difficile, che non lascia affatto prevedere la folgorante carriera della sua autrice.
Lasciò la Germania appena dopo l'ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Andò a Parigi, dove visse i successivi sette-otto anni, impegnandosi a trovare famiglie disposte ad adottare gli orfani ebrei e i parenti di rifugiati. Stando alle ricostruzioni bibliografiche più autorevoli, anche lei fece l'esperienza dell'internamento, non in un campo di sterminio, ma in uno di concentramento. Riuscì a partire dalla Francia e, all'incirca nel 1941, approdò a New York, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1975. Si può dire che diventò una newyorkese piuttosto che un'americana. È in questa città, infatti, che, a mio avviso, raggiunse la propria maturità e acquistò grandezza.

Può indicare le tappe più importanti della produzione di Hannah Arendt?

Seguendo un ordine cronologico, oltre alla già menzionata tesi di dottorato sul concetto di amore in Sant’Agostino, va ricordata la biografia di una donna ebrea tedesca, Rahel Varnhagen, che risale alla metà del 1930, ma venne pubblicata solo molti anni dopo. Si tratta di un libro solitamente ignorato e che, invece, a mio parere, riveste una particolare importanza perché getta luce sulla formazione dell'interesse dell'autrice per quello che lei chiama il "mondo". La biografia di Rahel Varnhagen è un tentativo di mostrare che non è possibile sottrarsi alle richieste del mondo chiudendosi in se stessi, che non si può trovare una consonanza con se stessi soltanto a partire da sé. La vita introspettiva non può sostituire interamente la vita nel mondo. Il tentativo della Varnhagen di sfuggire l'antisemitismo seguendo la strada della vocazione introspettiva rimane inefficace: non c'è possibilità di fuga, occorre immergersi nel mondo.

In Europa, soprattutto nel mondo di lingua inglese, la celebrità di Hannah Arendt iniziò nel 1951, con la pubblicazione del suo primo libro importante, intitolato Le origini del totalitarismo. Il 1958 è l’anno del suo libro filosofico più intensamente meditato, il cui titolo, Vita activa: la condizione umana, riprende una frase di Montaigne. Nel 1961 pubblicò una collezione di saggi intitolata Tra passato e futuro, riguardante, fra gli altri, i temi dell'autorità, della libertà, dell'educazione e della cultura. Al 1963 risalgono due libri: il primo, intitolato Sulla rivoluzione, tratta principalmente delle rivoluzioni francese e americana, e, in parte, della rivoluzione russa del 1917; il secondo, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, la rese famosa, pur procurandole numerose ostilità.
Vanno poi segnalati una raccolta di ritratti biografici dal titolo Men in dark time, e, nel 1971, quattro saggi sulla vita politica americana intitolati Crises of the Republic.
Al momento della sua morte, avvenuta nel 1975, aveva portato a termine due delle tre parti in cui avrebbe dovuto articolarsi un lavoro intitolato La vita della mente. Il primo volume si intitolava Thinking, il secondo Willing, e il terzo, di cui si è trovato soltanto un foglio nella sua macchina da scrivere, doveva essere intitolato Judging. I primi due sono apparsi grazie alla cura editoriale di Mary McCarthy. Oltre alle opere più significative, Hannah Arendt scrisse molte recensioni, saggi critici e articoli sparsi. La Arendt, infatti, era molto prolifica: viveva per scrivere.

Negli Stati Uniti il lavoro di Hannah Arendt è considerato molto importante e autorevole. Può illustrarci la situazione negli altri paesi occidentali, soffermandosi anche, dove vi è stata, sulle ragioni di tale influenza?

L'opera di Hannah Arendt ha incontrato un'accoglienza abbastanza differenziata. Soltanto negli Stati Uniti la sua fama è davvero considerevole. Gli inglesi, invece, sembrano refrattari al suo stile. Personalmente, amo profondamente il pensiero arendtiano e non riesco a spiegarmi le ragioni di questa insofferenza. È probabile che gli inglesi trovino imprecise talune delle sue distinzioni e troppo sbrigative e perentorie le sue tesi. In Germania, invece, sono molti coloro che ammirano e prendono sul serio Hannah Arendt. In Francia, la sua fama sta crescendo proprio in questi anni, mentre per quanto riguarda l'Italia non sono sufficientemente informato. Presumo che col tempo l'opera di questa autrice susciterà un’attenzione sempre maggiore. Negli Stati Uniti, sono soprattutto i giovani studenti di filosofia morale e politica ad essere colpiti dal suo fascino: ciò significa, a mio avviso, che a scorgere in lei una spiccata capacità di ispirare e di illuminare problemi ritenuti profondamente avvincenti sono coloro che vanno incontro al futuro. E devo ammettere che per me è un fatto assai consolante che non solo vecchi come me, ma anche giovani, promettenti e brillanti studenti vengano affascinati dalla Arendt.

Il fascino di questa pensatrice deriva, innanzitutto, dalla straordinaria abilità nell'interpretare determinati fenomeni morali, sociali, politici e culturali. Quando si leggono i suoi libri, si ha la sensazione che lei comprenda qualcosa che altri potevano capire ma non hanno compreso. Hannah Arendt ha la grande capacità di vedere e di dare un senso a ciò che vede. Sia che si tratti di passioni umane come il peccato, la rabbia, la collera o di sentimenti, di istituzioni o ordinamenti politici, lei ha da dire qualcosa di nuovo, di originale. Ricordo, ad esempio, la profondità e l'originalità delle sue riflessioni di filosofia politica sul significato della vita che si desume da una certa costituzione. Ciò che intendo dire che è che, per trarre un insegnamento dalla sua opera, non è necessario essere d'accordo con lei: anche una semplice frase, un passaggio, un paragrafo ci rivelano qualcosa sulla condizione umana.

Un altro aspetto che occorre enfatizzare verte invece sul fatto che i suoi libri pretendono molto dai suoi lettori, sollevando in modo sistematico questioni importanti e di largo respiro. Si può comprendere la natura dei problemi di cui la Arendt ha cercato di venir a capo tenendo presente che il suo è stato un tentativo di esplorare sia gli abissi, sia i vertici dell'attività politica. Si è occupata della politica in tutte le sue possibili manifestazioni: ha parlato del male che nasce dalle azioni della politica e del modo in cui la politica, intrapresa con lo spirito giusto, diventa, accanto alla vita contemplativa, la più alta attività dell'uomo. Ritengo che il motivo principale del suo fascino risieda nel fatto che, pur avendo studiato la politica nella sua forma peggiore, Hannah Arendt insista nel considerarla, allorché si realizza nel modo migliore, una delle più alte aspirazioni dell'uomo. Almeno nel XX secolo, nessun altro teorico della politica è riuscito, come è accaduto alla Arendt, ad unire una comprensione così profonda del male che può scaturire dall'attività politica con la convinzione, altrettanto ferma e profonda, che la vita dedicata alla politica, qualora questa assuma la sua forma migliore, sia una delle più alte conquiste umane. Il suo tenace interesse per il peggio e il meglio della vita politica non costituisce soltanto il segreto del suo fascino, ma è, al tempo stesso, il filo conduttore dei suoi numerosi scritti sull'argomento.

La politica nella sua forma peggiore è il tema della riflessione arendtiana sul male e sul totalitarismo. Può parlarci del modo in cui viene determinato questo fenomeno in rapporto all’antisemitismo?

Dal punto di vista dell'evoluzione del pensiero della Arendt, l'interesse per la forma peggiore della politica è il primo ad accendersi, col libro sulle Origini del totalitarismo, del 1951; le riflessioni sul modo virtuoso di configurarsi della politica vengono dopo, nel 1958, in Vita activa. Dalla pubblicazione di questi due lavori, per tutto il resto della sua vita Hannah Arendt si preoccupò di indagare il peggio e il meglio nell'ambito politico e la loro relazione. Proviamo a calarci negli abissi, a vedere nell'oscurità prima di risalire ai vertici. Pur non avendo sperimentato direttamente il peggio, la Arendt conosceva molte persone che avevano fatto questa esperienza. Sebbene, quindi, non fosse stata in un campo di sterminio nazista, conobbe coloro che avevano sofferto. Ciò la spinse a cercare di comprendere come il nazismo poté nascere, diffondersi e operare il male. Soprattutto in due testi, L'origine del totalitarismo e La banalità del male, cercò di comprendere ciò che altrove sembrava ritenere incomprensibile. In altri scritti, infatti, lei confessa la sua incapacità di comprendere il fenomeno del nazismo e dello stalinismo. E tuttavia, pur giudicando impossibile una comprensione piena del totalitarismo, Hannah Arendt non rinunciò mai ad aspirarvi.

Le origini del totalitarismo è un opera divisa in tre parti: la prima è intitolata Antisemitismo, la seconda Imperialismo, la terza Totalitarismo. Si tratta di un libro molto lungo che ha l'ampiezza, lo spessore e la forza di uno scritto epico. Ponendo a tema, nelle prime due parti, l'antisemitismo e l'imperialismo, la Arendt cerca di capire cosa, nel XIX secolo, preparò il terreno al sorgere del nazismo e dello stalinismo. Si badi che lei non sostiene affatto che quanto è accaduto nel XIX secolo ha reso inevitabili il nazismo o lo stalinismo. Hannah Arendt, infatti, pensa che niente di inevitabile sia alla base del totalitarismo, del male politico. Ma ciò non toglie che alcuni fenomeni del secolo scorso, come l'antisemitismo e l'imperialismo, abbiano reso più probabile il suo avvento.

La prima parte del libro studia l'antisemitismo endemico dell'Europa e la forma particolare che esso assunse nel XIX secolo. La Arendt sostiene la tesi che il popolo ebreo, nonostante avesse acquisiti i diritti civili, abbia continuato a non essere del tutto accettato e inserito nella vita delle diverse società. Gli ebrei non si impegnavano in politica, né in altre professioni e, pensando solo ad arricchirsi, hanno finito col diventare protagonisti del mondo degli affari. In questo modo essi hanno accumulato ricchezze senza avere potere politico formale. E tuttavia, queste ricchezze li hanno messi nella condizione di tessere sottili trame dietro le quinte del potere politico, e questo ha procurato loro quella fama di cospiratori che fa anche da bersaglio agli attacchi antisemiti.

Il problema fondamentale di Hannah Arendt era capire perché gli ebrei fossero detestati in Europa. Il fatto che lei stessa fosse ebrea rendeva tale interrogativo particolarmente acuto e pressante. Secondo la sua analisi, appunto, molti ebrei, avendo precluse altre opportunità, poterono solo accumulare denaro. Queste ricchezze, una volta messe al servizio di determinate élite politiche, generarono nella massa e nella pubblica opinione sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei, che erano in grado (o erano ritenuti tali) di influenzare la politica della società in quanto detentori di ricchezza e anche di poteri segreti, insidiosi e spesso sinistri.
Hannah Arendt si chiede: è possibile che gli ebrei in una qualche misura abbiano meritato di essere disprezzati nel XIX secolo? La risposta è che gli ebrei fecero quello che dovevano fare, ma ciò determinò la nascita di non pochi risentimenti nei loro confronti. In questo quadro si inserisce, agli inizi del secolo, l'"affare Dreyfus", che viene da lei considerato come il culmine di quanto avvenuto nel corso del secolo precedente. Descrivendo con grande efficacia i retroscena terribilmente complessi di questa vicenda, Hannah Arendt individua in essa la concretizzazione dell'antisemitismo diffuso nell'Europa del XIX secolo.

Potrebbe soffermarsi sulla connessione tra antisemitismo e imperialismo quale scaturigine del totalitarismo novecentesco?

La seconda parte delle Origini del totalitarismo tratta dell'imperialismo. L'autrice si chiede se il comportamento politico così sfrenatamente aggressivo delle potenze europee in Africa, nel XIX secolo, non getti luce sul male del totalitarismo del secolo successivo. A tale riguardo, è emblematica l'affermazione di Cecil Rhodes, l'imprenditore inglese in Africa: "Annetterei i pianeti se potessi farlo". Hannah Arendt mostra come gli elementi che avevano caratterizzato l'Europa del XIX secolo consentivano e legittimavano l’apertura di qualsiasi possibilità. In sostanza, era stata accreditata la convinzione che il mondo fosse simile ad un pezzo di creta che determinate élite potevano plasmare a piacimento. Il mondo appariva, in tale prospettiva, come il luogo in cui determinate energie umane potevano dispiegarsi senza badare ai costi da pagare in termini di convenzioni e di giustizia. Così si spiega l'imperialismo europeo in Africa e altrove.

Antisemitismo e imperialismo, per così dire, giacciono al fondo del male del totalitarismo. La combinazione di questi due fenomeni, pur non essendone una causa necessaria, hanno reso più probabile il fenomeno totalitario. Essi, infatti, hanno indotto gli europei, da un lato, a considerare normale il fatto di avere dei nemici razziali e, dall'altro, a servirsi di comune accordo del loro potere e della loro forza per prendere iniziative, per mobilitarsi senza vincoli. La terza parte del volume, dedicata al totalitarismo in sé, cerca di comprendere la mentalità che porta i suoi leader a organizzare un sistema d'inferno sulla terra. Hannah Arendt sostiene che il totalitarismo non è la politica di potenza, non è mera spietatezza, e neppure mera crudeltà. Credo sia opportuno soffermarsi sulla sua interpretazione del nazismo perché, a mio parere, esso suscitava in lei maggiore interesse dello stalinismo. La Arendt si chiede come mai la leadership del partito nazista immaginò un piano per distruggere sistematicamente intere popolazioni che non potevano in alcun modo costituire un minaccia per essa, e che, al contrario, qualora gliene fosse stata data la possibilità, si sarebbero comportate come sue fedeli e obbedienti seguaci. Perché il nazismo voleva uccidere ebrei, rumeni e zingari, nonostante che questi sarebbero stati tedeschi leali, se solo gliene fosse stata data l'opportunità? I nazisti uccisero persone che non facevano alcuna resistenza e che, anzi li avrebbero serviti lealmente: è questo che conferisce al nazismo il carattere di un fenomeno totalitario. Il mistero è costituito dal fatto che i nazisti crearono la caricatura di un nemico e procedettero poi alla sua sistematica liquidazione.

Qual è, in ultima analisi, la risposta data da Hannah Arendt circa ciò che si annida nell'origine del totalitarismo e cosa si può affermare, al riguardo, del fenomeno nazista?

Non è possibile rispondere in modo esauriente e definitivo a questa domanda: l'interrogativo resta aperto, e il mistero deve restare un mistero. Secondo la Arendt, a favorire l'ascesa del nazismo furono le immediate conseguenze della prima guerra mondiale. Lei non sottovaluta i fatti puri e semplici: la disfatta tedesca, lo smembramento della Germania, le riparazioni di guerra, la terribile disoccupazione, l'inflazione e la depressione, il generale senso di disorientamento nelle masse, il senso diffuso di solitudine, la sensazione condivisa da tutti di essere sopraffatti, trascurati, indesiderati. Quando gli esseri umani avvertono questa solitudine, quando si sentono "superflui", superfluous - questo è il termine usato da Hannah Arendt - i leader scorgono l'opportunità di servirsi di essi, di organizzarli in una massa compatta, in una forza da scatenare contro altri.

Secondo la Arendt l'obiettivo principale del nazismo non consisteva semplicemente nel sottomettere l'Europa e ridurre in schiavitù le popolazioni slave. Il vero scopo del nazismo era uccidere una popolazione oggettivamente non minacciosa. Il problema è capire perché essi si prefissero tale scopo. L'autrice si pone continuamente questa domanda e invita il lettore a porsela insieme a lei. Nemmeno l'antisemitismo diffuso del XIX secolo costituisce una spiegazione esauriente.
La risposta che Hannah Arendt prova a dare è che i nazisti furono ingannati dalla loro stessa ideologia. Essi arrivarono a pensare davvero che gli ebrei fossero subumani, impuri al punto da dover essere eliminati dalla faccia della terra perché avevano corrotto, contaminato e insudiciato quello che altrimenti, senza di essi, sarebbe stato puro. La stessa opinione i nazisti la avevano riguardo agli zingari, agli omosessuali, ai disabili, agli squilibrati mentali ed a tutte le altre categorie che essi volevano liquidare sistematicamente. Nella ricostruzione arendtiana, quindi, il nazismo si presenta come una battaglia ideologica contro l'impurità. Ritengo che questa sia la spiegazione migliore che si potesse dare e non credo che qualcuno, nel tentativo di comprendere questo mistero, possa giungere più a fondo. Il mistero non si spiega con la politica della potenza: questa è una considerazione superficiale; né con la naturale malvagità dell'uomo. Si spiega, piuttosto, col desiderio implacabile di realizzare una finzione ideologica, di rifare il mondo secondo una certa idea di purezza.

Professor Kateb, Hannah Arendt si è occupata del totalitarismo anche in La banalità del male. Cosa aggiunge questo studio alle analisi condotte nel lavoro sulle Origini del totalitarismo?

A prima vista potrebbe sembrare che, con questo libro, la Arendt abbia arricchito le sue analisi soltanto di una celebre, quanto cinica, espressione: "la banalità del male". A mio avviso, però, l’importanza di questo testo va ben al di là di questa frase. Si tratta di uno studio che introduce un modo nuovo di affrontare il fenomeno del male della politica, in particolare del nazismo, pur contenendo implicazioni concernenti anche lo stalinismo. La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme è il resoconto del processo a cui fu sottoposto il criminale nazista Adolf Eichmann dopo essere stato rapito in Argentina da agenti israeliani. Ad Hannah Arendt venne affidato il compito di redigere la cronaca dell'avvenimento dalla rivista The New Yorker, nella quale lo scritto apparve a puntate. Si parla di un processo che, però, secondo l'autrice, non fu un vero processo bensì un atto politico mascherato da processo: sin dall'inizio tutti conoscevano quale sarebbe stato il suo esito.

E tuttavia, non era questo l'aspetto più importante della vicenda. L'attenzione della Arendt si concentra sulla figura di Adolf Eichmann, seduto nella cabina di vetro e interrogato da un accusatore israeliano. Quando gli fu chiesto il motivo delle sue azioni, Eichmann rispose di volta in volta in modo diverso, ora dicendo che si era limitato a eseguire degli ordini, ora che aveva ritenuto disonesto non eseguire il lavoro che gli era stato affidato, ora che la sua coscienza gli imponeva di essere leale con i suoi superiori. In fondo, tutte le sue risposte si riducevano ad una sola: "Ho fatto quello che ho fatto". Da ciò Hannah Arendt concluse che Eichmann diceva la verità, che non era un uomo malvagio, un crudele o un paranoico. E la cosa orribile era proprio questa, che si trattava di una persona comune, ordinaria, il più delle volte incapace di pensare, come la maggior parte di noi. Per la Arendt, tutti noi siamo per lo più incapaci di soffermarci a pensare e a dire a noi stessi cosa stiamo facendo, di qualunque cosa si tratti. A ben vedere, il punto focale dello studio di Hannah Arendt, ciò che guida il suo interesse per il totalitarismo è ben espresso da una frase di Pascal: "La cosa più difficile al mondo è pensare". Sia il libro sulle Origini del totalitarismo, sia quello su Eichmann possono essere considerati un commento a questa breve ma straordinaria frase di Pascal.

Eichmann non pensava, ed in ciò era come siamo tutti noi il più delle volte: creature soggette o all'abitudine o all'impulso meccanico. Si comprende, allora, perché il male venga definito "banale": esso non ha profondità, non ha nessuna essenza corrispondente ai suoi effetti. Tuttavia, secondo l’autrice, questa interpretazione psicologica di Eichmann non può essere estesa ai capi del nazismo, a Hitler, a Goering, a Himmler. Costoro avevano un certo spessore psicologico, erano ideologicamente impegnati. Eichmann, al contrario, era soltanto un funzionario: è questa la "banalità del male".

La differenza, quindi, che intercorre tra Le origini del totalitarismo e La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme consiste in ciò, che il primo parla, in prevalenza, di tutti coloro che fomentano il male, mentre il secondo, venendo a completare l'analisi dell'intero fenomeno, tratta della mentalità dei funzionari del male. Del resto, che il più grande criminale del XX secolo sia l'uomo di buona famiglia è un’idea che esce con forza dalla produzione della Arendt. Si conclude così il suo sforzo di trovare una spiegazione al più orribile di tutti i fenomeni. È argomento di discussione accademica se lei sia veramente riuscita in questo intento le sia veramente riuscito. Personalmente, sostengo che Hannah Arendt, nel tentativo di spiegare la causa e la natura del male del totalitarismo, sia andata più a fondo di George Orwell, di Simone Weil e di altri studiosi, e credo che ciò basti a farle meritare la nostra attenzione.

Nella concezione della Arendt, di contro alle tenebre del totalitarismo c'è la luce della politica. Può spiegarci qual è il significato arendtiano della politica e perché questa si configura in due forme assolutamente diverse, una peggiore ed una migliore?

Nel 1963 Hannah Arendt pubblica due libri, La banalità del male e Sulla rivoluzione, l'uno sulla forma peggiore della politica, l'altro su quella migliore. Il tema della forma migliore della politica, comunque, si trova trattato in termini eminentemente filosofici anche in un’opera che precede di cinque anni Sulla Rivoluzione, e cioè nella fondamentale Vita activa: la condizione umana.

Verso la fine di Sulla rivoluzione, la Arendt riprende una citazione dal grande coro dell'Edipo a Colono di Sofocle, là dove si dice che la cosa migliore sarebbe non essere mai nati oppure morire giovani. Credo che sentisse quelle parole in prima persona e che le condividesse per il fatto di vivere nell'epoca del male totalitario. Hannah Arendt ha voluto dire che per lei, che è stata testimone della possibilità di simili mostruosità, sarebbe stato meglio non aver mai fatto quest'esperienza o non esserne mai venuta a conoscenza.

Dopo la citazione del coro, la Arendt aggiunge una considerazione che, da un lato, conferma ciò che dice Sofocle e, dall'altro, se ne discosta. Osserva, infatti, che se è il male della politica a rendere vere queste parole di Sofocle, allora dovrà anche esservi, nella politica stessa, qualcosa che le confuti. Sembra dunque che la strategia di pensiero adottata implicitamente dall'autrice sia la seguente: non si può cercare il rimedio a questo pessimismo in un ambito diverso da quello che determina il pessimismo stesso. Ed è attraverso questa strategia che la Arendt viene condotta a scorgere nell'ambito stesso della politica qualcosa che, nella sua perfezione, possa sovrastare l'orrore prodotto dall'attività politica nella sua forma peggiore. Se la politica genera la cosa peggiore della vita umana, ci deve essere anche una politica che generi la cosa migliore. Il rimedio va cercato dove si trova il veleno: credo che sia questo l'impulso che l'ha guidata a ricercare la politica nella sua forma migliore.

Qual è il riscatto che può offrire la politica intesa nella sua forma migliore?

Hannah Arendt sostiene che la politica nella sua forma migliore è il discorso fra uguali. Essa è dunque un tipo di relazione fra uguali e cioè fra cittadini. In passato, gli eguali che entravano nella relazione politica erano solo uomini. Credo che, in generale, la Arendt vedesse la cittadinanza come qualcosa che riguardava gli uomini di sesso maschile. Lei riprende infatti il giudizio di Machiavelli secondo il quale essere virtuoso significa avere "virtù", ovvero eccellere ed essere valorosi: tutti questi termini rinviano alla parola latina vir, che significa "uomo".

La convinzione profonda della Arendt è che la cittadinanza, se rettamente intesa, può riscattare la vita dalla sua maledizione. Questa convinzione, a suo avviso, era condivisa dai greci, da Omero, Pindaro, Erodoto e Tucidide, ma non dai filosofi greci. Anche i greci fecero esperienza dell'orrore, pur non conoscendo il totalitarismo. Per essi, la sola cosa che poteva riscattare la vita dall'orrore era l'esperienza della cittadinanza, intesa quale relazione fra uguali, e cioè quale discorso appassionato fra cittadini che, a turno, parlano e ascoltano. L'oggetto di questo discorso è il bene comune, le circostanze che possono metterlo a rischio e determinarne la morte. Questa concezione della politica, secondo Hannah Arendt, è l'unica che offra una risposta al terribile pessimismo delle parole del coro dell'Edipo a Colono richiamate quasi in conclusione di Sulla Rivoluzione. Una simile ambizione nei confronti dell'attività politica può facilmente essere scambiata con una forma di "romanticismo" - inteso nel senso deteriore del termine -, con un atteggiamento donchisciottesco e folle. Forse è questa la ragione per cui gli studiosi inglesi sono così poco ricettivi nei confronti del lavoro della Arendt: essi non si aspettano molto da nessuna attività umana, meno che mai dall'attività politica.

L’idea della cittadinanza quale rimedio al pessimismo generato dalla politica intesa nella sua forma peggiore esercita un grande fascino. Ma la storia umana offre degli esempi in cui la cittadinanza si sia concretamente realizzata?

In Vita activa, Hannah Arendt individua nelle città greche gli esempi concreti e le forme più alte di cittadinanza. È soprattutto Atene ad offrire uno stile di vita incentrato sull'esperienza della cittadinanza. Ogni cittadino ateniese, in prima persona e non attraverso la rappresentanza, quando si presentano situazioni di grave rischio e pericolo, si reca nell'agorà e discute delle questioni più alte, nel linguaggio più brillante ed elegante, impegnandosi poi a mettere in pratica quanto è stato detto. Nel libro Sulla rivoluzione, la Arendt scorge poi nelle situazioni rivoluzionarie un'ulteriore manifestazione spontanea della cittadinanza. Viene indicata, ad esempio, la riscoperta americana della "felicità pubblica". Nei congressi, e quindi nei gruppi e nelle assemblee che fecero la rivoluzione americana; e ancora nel corso della generazione successiva, quando fu istituito il governo e fu redatta la Costituzione degli Stati Uniti: in tutti questi casi, si fece l'esperienza della cittadinanza. Questa esperienza si ripeté nel primo periodo della rivoluzione francese, in particolare dal 1789 al 1790. Da quel momento in poi la cittadinanza subisce un processo costante di erosione sotto l'inesorabile incalzare della necessità. Essa riappare fugacemente nei primi Soviet nel 1917 nonché nei consigli della rivoluzione ungherese del 1956.
È inoltre interessante notare come la Arendt, vissuta in America negli anni sessanta, trovasse un'ulteriore manifestazione del fenomeno della cittadinanza, proprio in ciò che stava avvenendo in quegli anni, nella politica dei movimenti statunitensi per la disobbedienza civile, per i diritti civili, per la pace e nel movimento studentesco. Se avesse vissuto l'era di Gorbaciov, se avesse fatto esperienza delle spinte democratiche sorte in Unione Sovietica, nella Germania dell'Est, nella Cecoslovacchia, nella Polonia e nell'Ungheria ne avrebbe parlato in modo analogo. Questi eventi, infatti, sono stati caratterizzati dall'impulso alla libertà, dal confronto sul bene pubblico, dalla liberazione dalle catene, dal silenzio e dalle tenebre. Nell'esperienza necessariamente breve di libera espressione della protesta, in questi eventi e nel modo in cui sono stati descritti da persone come Vaclev Havel e Lech Walesa, Hannah Arendt avrebbe trovato una conferma alla sua convinzione riguardo al fatto che gli uomini, quando hanno la possibilità di fare politica, non trovano nulla nella vita che abbia altrettanto valore. Tutto ciò ha confermato la sua idea che solo la politica può compensare il male del totalitarismo. Hannah Arendt è una teorica del valore intrinseco della politica, della grandezza della pari cittadinanza.

Professor Kateb, può indicare, in conclusione, come può essere caratterizzato, a livello strettamente individuale, il vissuto della cittadinanza e com’è possibile collegare questo vissuto a qualcosa che è evidentemente più generale, che ha un valore intrinseco?

In Vita activa - il suo libro più "greco" - Hannah Arendt cerca di spiegare sotto il profilo filosofico che cosa significhi la cittadinanza per coloro che ne fanno esperienza. Mostra come l'essere un cittadino consenta di farsi conoscere dagli altri in un modo che non ha eguali in nessun'altra circostanza, in nessun'altra relazione umana. Noi non possiamo conoscere noi stessi; possiamo solo essere conosciuti dagli altri e conoscere gli altri dal modo in cui essi ci conoscono. Secondo la Arendt, soltanto le parole dette sul bene pubblico, in condizioni di estremo rischio e pericolo, rivelano il nostro io. Non si raggiunge il proprio e autentico io, se non si è liberi di esprimersi in occasioni pubbliche di grande rilievo: credo che sia questo, per Hannah Arendt, il nucleo esistenziale del valore della cittadinanza. Tutto ciò si collega in qualche modo con l'opinione di Machiavelli circa il valore intrinseco dell'attività politica. Ovviamente, la tesi di Machiavelli non è affatto quella della Arendt, ma ci sono in ogni caso dei punti di contatto, delle somiglianze.


v. anche Hannah Arendt e la rivoluzione


OPERE

Le origini del totalitarismo, Comunità, 1967
Che cos'è la politica, Comunità, 1995
Il futuro alle spalle, il Mulino, 1981
La vita della mente, il Mulino, 1987
Tra passato e futuro, Garzanti, 1991
La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1999
Sulla rivoluzione, Comunità, 1999
Ebraismo e modernità, Feltrinelli, 2001
Antisemitismo e identità ebraica, Comunità, 2002
Verità e politica, Boringhieri, 2004
Il concetto d'amore in Agostino, SE, 2004
Teoria del giudizio politico, il Nuovo Melangolo, 2005

su Hanna Arendt:

Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, 1995
Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Donzelli, 1995
Augusto Illuminati, Esercizi politici. Quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, 1996
http://www.filosofico.net/arendt.htm