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Walter Benjamin


Walter Benjamin nasce a Berlino il 15 luglio 1892, da Emil, antiquario e mercante d'arte, e Paula Schönflies, di famiglia alto-borghese di origine ebraica. Dei suoi primi anni rimane il visionario scritto autobiografico degli anni Trenta Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Dal 1905 per due anni si reca al "Landerziehungsheim" in Turingia, dove fa esperienza del nuovo modello educativo impartito da Gustav Wyneken, il teorico della Jugendbewegung, il movimento giovanile di cui Benjamin farà parte fino alla scoppio della Grande Guerra. Nel 1907 torna a Berlino, concludendo gli studi secondari nel 1912. In quello stesso anno comincia a scrivere per la rivista "Der Anfang", influenzata dalle idee di Wyneken.
Dall'università di Berlino si trasferisce a quella di Friburgo in Bresgovia, dove, oltre a seguire le lezioni di Rickert, stringe un forte sodalizio col poeta Fritz Heinle, che morirà suicida due anni dopo. Scampato all'arruolamento dopo l'inizio della guerra, rompe con Wyneken, che aveva entusiasticamente aderito al conflitto. Nel 1915, trasferitosi a Monaco, dove segue i corsi del fenomenologo Moritz Geiger, conosce Gerschom Scholem, con cui inizia un'amicizia durata fino alla morte. L'anno dopo incontra Dora Kellner, che sposa nel 1917: dalla relazione nasce nel 1918 il figlio Stefan, quando la coppia si è ormai trasferita a Berna, dove Benjamin, già autore di importanti saggi (Due poesie di Friedrich Hölderlin; Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini), l'anno seguente si laurea in filosofia con Herbertz discutendo una tesi sul Concetto di critica d'arte nel Romanticismo tedesco. In Svizzera fa la conoscenza di Ernst Bloch, con cui avrà fino alla fine un rapporto controverso, tra entusiasmi e insofferenza. Nel 1920, tornato a Berlino, progetta senza successo la rivista Angelus Novus, scrive Per la critica della violenza e traduce Baudelaire.
Nel 1923 conosce il giovane Theodor Adorno. Il suo matrimonio entra in crisi e nel 1924, durante un lungo soggiorno a Capri, conosce e s'innamora di Asja Lacis, una rivoluzionaria russa che lo induce ad avvicinarsi al marxismo. Pubblica un saggio su Le affinità elettive per la rivista di Hugo von Hoffmanstahl. Nel 1925 l'università di Francoforte respinge la sua domanda di abilitazione all'insegnamento accademico, accompagnata dallo scritto sull'Origine del dramma barocco tedesco, pubblicato infine tre anni dopo, insieme agli aforismi di Strada a senso unico. In questo periodo Benjamin si mantiene con la sua attività di critico e recensore per la "Literarische Welt" e traduttore (di Proust, con Franz Hessel) e viaggia tra Parigi e Mosca, cominciando a maturare il progetto (destinato a rimanere incompiuto) di un'opera sulla Parigi del XIX secolo (il cosiddetto Passagenwerk). Nel 1929 stringe un profondo rapporto con Brecht, che negli anni Trenta, dopo l'avvento del Terzo Reich, lo ospita a più riprese nella sua casa in Danimarca. Il 1933 segna infatti la definitiva separazione dalla Germania.
Esule a Parigi, trascorre comunque lunghi periodi a Ibiza, Sanremo e Svendborg. Per la "Jüdische Rundschau" esce Franz Kafka, ma le sue condizioni economiche si fanno sempre più precarie: l'assegno garantitogli dallo "Zeitschrift für Sozialforschung" di Adorno e Horkheimer, per cui pubblica nel 1936 L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico nel 1937, diventa il suo unico mezzo di sussistenza.
Nel 1938-39 lavora su Baudelaire (Di alcuni motivi in Baudelaire), ma lo scoppio della seconda guerra mondiale lo induce a scrivere di getto il suo ultimo testo, le tesi Sul concetto di storia. Internato nel campo di prigionia di Nevers in quanto cittadino tedesco, viene rilasciato tre mesi dopo. Abbandona tardivamente Parigi e cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti. Nel settembre del 1940 viene bloccato alla frontiera spagnola dalla polizia: nella notte tra il 26 e il 27 si toglie la vita ingerendo una forte dose di morfina. Ai suoi compagni di viaggio fu concesso di passare il confine il giorno seguente.


Benjamin è scrittore asistematico, privilegia la forma del saggio e dell'aforisma, e concepisce come compito specifico del critico il prendere posizione e la negazione dell'ordine esistente. Nei suoi lavori di critica letteraria riprende la pratica del commentario ebraico, diretta a restituire all'originale la forza distruttiva di cui neppure l'autore di esso era stato cosciente. Il linguaggio, infatti, ha funzione espressiva, non strumentale: attraverso di esso, l'uomo deve dare voce alle cose mute. Dunque, teoria critico-materialistica e pensiero utopico-messianico si congiungono in modo originale nell'opera di Benjamin. Nella genesi del suo pensiero sono presenti motivi della filosofia romantica (alla quale è dedicata la sua tesi di laurea sul Concetto di critica d'arte nel romanticismo tedesco, del 1918), il pensiero nietzscheano (per le critiche alle pretese sistematico-totalizzanti della ragione, l'atteggiamento ermeneutico critico nei confronti della tradizione culturale e della realtà sociale, l'attenzione per il rapporto tra i contenuti del pensare e i suoi modi espressivi), l'esperienza delle avanguardie artistico-letterarie (per tutto ciò che di che di rivoluzionario e di dirompente hanno avuto nei confronti di una concezione ottimistica-retorica dell'uomo).
Una componente essenziale della formazione e del pensiero di Benjamin è poi il suo ebraismo, rivissuto in molti suoi aspetti (a cominciare dalla lacerante tensione tra attesa messianica e valorizzazione della memoria storica) attraverso il rapporto con Gershom Sholem, un grande studioso della mistica ebraica. È al tema di una lingua pura, immediatamente simbolica (cui si oppone la violenza operata dall'astrazione e dal giudizio concettuale proprio delle moderne concezioni del pensiero e del linguaggio) che sono dedicati i primi saggi di Benjamin: Sulla lingua in generale e su quella degli uomini (1916); Per la critica alla violenza (1921); Il compito del traduttore (1923).
Sull'interpretazione dell'opera d'arte è incentrato invece il Saggio sulle affinità selettive di Goethe (1924-1925). In esso s'annuncia un motivo decisivo della riflessione estetica di Benjamin: la conciliazione proposta o suggerita dall'opera d'arte è solo un'apparenza mistificante; quanto alla pretesa totalità essa è falsa e smentita dall'intima (benché talora non evidente) frammentarietà del prodotto artistico. Nell'opera d'arte non è immediatamente visibile una dimensione utopico-positiva. Questa semmai è presente nella forma dell'inespresso, "del non detto" dell'arte, ovvero in una speranza che peraltro possono solo cogliere solo coloro che ne sono radicalmente privi. L'opera più compiuta di Benjamin - la sola ch'egli poté portare a termine - è L'origine del dramma barocco tedesco (1928). Attraverso una ricca analisi delle forme e figure del dramma barocco (Trauerspiel) come impossibile tentativo di ripetere storicamente la tragedia greca, questo celebre saggio svolge un acuto e suggestivo discorso sui concetti di simbolo e allegoria - e più in generale sull'essere e sul conoscere umano. Benjamin presenta infatti l'allegoria barocca come critica dell'aspirazione classicista a riunificare la scissione originaria prodottasi nell'uomo ed espressa sia nella simbologia tecnologica (il creatore e la creatura, la caduta e la redenzione…), sia in alcune coppie antinomiche della tradizione occidentale (il finito e l'infinito, il sensibile e il sovrasensibile…).
Sotto un diverso profilo, l'opera benjaminiana fornisce una chiave preziosa per interpretare anche alcune fondamentali aporie dell'arte (e della coscienza) moderna: Benjamin fa infatti vedere come la tensione a raggiungere nell'esperienza artistica il "simbolo" (e quindi l'unificazione effettiva di cosa, linguaggio e significato) esploda continuamente in "allegoria", ovvero in una dialettica eccentrica (priva di centro) tra quanto è figurato nell'espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la malinconia diviene, nell'indagine di Benjamin, il sentimento fondamentale del soggetto moderno. A un altro livello, ciò che il trionfo dell'allegoria rivela è un'insanabile lacerazione, una sempre più radicale perdita di senso, un decadimento dell'umano e della storia.
A partire dagli anni '30 Benjamin si avvicinò in qualche misura alla "Scuola di Francoforte": pur senza mai entrare a far parte organica del gruppo, egli collaborò con la "Rivista per la ricerca sociale" ed ebbe un'intensa, seppur travagliata, amicizia con Adorno. Le molteplici differenze tra i due pensatori non debbono far dimenticare (come talora è accaduto) certe loro innegabili prossimità di interessi e anche, entro certi precisi limiti, di convinzioni teoriche. Sia Adorno sia Benjamin respingono il privilegiamento dell'esistente, la ùbris della ragione positivistica, la barbarie dell'organizzazione capitalistica e della società. Entrambi (ma soprattutto Benjamin) rifiutano un'interpretazione e una pratica della riflessione come ricerca del sistema, del fondamento assoluto. La filosofia, secondo loro, deve soprattutto mettere in luce le contraddizioni celate sotto le ingannevoli apparenze della realtà e, insieme, il bisogno di felicità e di emancipazione insito nel mondo umano. Tale bisogno si esprime (spesso in modo cifrato) nelle situazioni, nei testi, negli eventi più disparati.
Per questo, entrambi i pensatori fanno filosofia interrogando le testimonianze o i segni più eterogenei e talvolta sconcertanti. Sotto tale profilo, il più caratteristico e suggestivo saggio di Benjamin è l'incompiuta opera su Parigi come "capitale del XIX secolo", nella quale il pensatore ha cercato di afferrare il senso di un'intera epoca storica giustapponendo l'analisi della poesia di Baudelaire e quella dell'assetto urbanistico parigino, l'interpretazione di nuove figure psico-antropologiche (il "flaneur", il "dandy", la prostituta) e l'esame dei nuovi caratteri della produzione e della circolazione della merce. Molta attenzione egli dedica soprattutto alla figura di Baudelaire, di cui fu anche traduttore: in particolare, distingue il concetto di "esperienza" dal concetto di "esperienza vissuta"; la seconda permette di rielaborare razionalmente, attraverso la riflessione, gli "choc" della vita, così da impedirne la penetrazione nel profondo e da difenderne la coscienza dal loro assalto. La semplice "esperienza" è invece quella subita direttamente dallo choc, senza mediazione: è quest'ultimo il caso di Baudelaire, che nella vita cittadina subisce incessantemente l'esperienza degli choc prodotti dagli urti della folla, dalle luci, dalle novità dei prodotti e delle situazioni e insomma dall'esistenza stessa di una metropoli moderna. La folla sarebbe perciò la "figura segreta" (il suggello e insieme la potenza nascosta) della sua poesia: pur non essendo mai compiutamente rappresentata, tuttavia la folla è una presenza ossessiva nell'opera di Baudelaire e non va ricercata tanto nei temi e nei contenuti, quanto nella forma poetica, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora franto, del verso baudelairiano ("questa folla, di cui Baudelaire non dimentica mai l'esistenza, non funse da modello a nessuna delle sue opere. Ma essa è iscritta nella sua creazione come figura segreta").

Nella propria anatomia della modernità, Benjamin si è spesso rivelato più aperto e spregiudicato di Adorno: ora interrogandosi sul fenomeno della droga, ora analizzando con simpatia produzioni socio-culturali in apparenza 'minori', come la letteratura per l'infanzia e il "feuilleton", la fotografia e i giocattoli.
Un'altra e più sostanziale diversità fra i due filosofi è l'atteggiamento nei confronti dell'arte: convinto come Adorno che il fenomeno artistico sia un'esperienza particolarmente eloquente del disagio della civiltà, Benjamin ne ha una visione meno aristocratico-elitaria rispetto a quella dell'amico. Una significativa testimonianza di ciò è offerta dal saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37). In esso, Benjamin contrappone ad ogni interpretazione mistico-esoterica del fenomeno artistico una concezione in qualche modo secolarizzata di esso. Prodotto di uomini per altri uomini, l'arte va studiata "materialisticamente" sia nei suoi modi di elaborazione e di rappresentazione anche tecnica (non esclusi quelli fotografici e cinematografici) sai nelle particolari modalità percettive del suo fruitore.
Lo sviluppo delle forze produttive, rendendo tecnicamente possibile la riproducibilità delle opere d'arte (pensiamo alla televisione, ai cd, alla radio, al computer, ecc), ha messo fine all'alone di unicità, originalità e irripetibilità dell'opera d'arte, ossia all' "aura" che la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i suoi sogni e ideali aristocratici: l'aura è quindi l'alone ideale che rende sensibile al fruitore l'unicità irripetibile dell'atto creativo.
Nella società di massa, in cui regna la riproducibilità dell'opera d'arte, l'opera d'arte "può introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia o del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venir ascoltato in una camera. Ciò che vien meno è quanto può essere riassunto con la nozione di 'aura' e si può dire: ciò che vien meno nell'epoca della riproducibilità tecnica è l'aura dell'opera d'arte".
La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del "sempre uguale", per uomini rimasti privi di saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l'accesso all'arte e alle sue capacità di contestazione dell'ordine esistente. Solo attraverso la distruzione violenta di quest'ordine, ormai diventato inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità. Benjamin contesta le concezioni ottimistiche del progresso, condivise anche dal marxismo dei socialdemocratici tedeschi, secondo cui la storia è un cammino lineare di sviluppo crescente. Esse, infatti, si pongono dal punto di vista dei vincitori nella storia, anziché rimettere in questione le vittorie di volta in volta toccate alle classi dominanti. Si tratta, invece, di "spazzolare la storia contropelo", strappandola al conformismo delle classi dominanti, ovvero accostandosi al passato come profezia di un futuro e arrestando la continuità storica con un salto e una rottura. Nella storia, infatti, non c'è un "fine" garantito: e infatti anche sugli sviluppi della società sovietica Benjamin è pessimista. Solo recuperando e prendendo al proprio servizio la teologia e il messianesimo sarà possibile liberarsi dalla fede cieca in un progresso meccanico.
La differenza più sostanziale tra Benjamin e Adorno è l'atteggiamento nei confronti del pensiero dialettico: profondo conoscitore ed estimatore della cultura tedesca, Benjamin 'ignora' Hegel. Il suo silenzio esprime un rifiuto che, lungi dal condannare i soli aspetti conciliativi/totalizzanti dell'hegelismo criticati anche da Adorno, investe la stessa concezione hegeliana dell'immanenza della ragione nel reale e, soprattutto, della storicità dialettico-progressiva di quest'ultimo.

La critica benjaminiana dello storicismo (e, più in generale, della concezione moderna della temporalità e del suo senso) è radicale: la sua condanna Benjamin la esprime in "Tesi di filosofia della storia" (1940).
Per Benjamin ogni rappresentazione del tempo/storia secondo moduli fisico/lineari è fuorviante: è falso, inoltre, che la storia sia un processo continuo e uniforme nel tempo; che tale processo sia accrescitivo e progressivo; che, quindi, i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare 'davanti'. Alla redenzione umano/sociale si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato, fatto di "rovine su rovine" e così orrendo da esercitare in chi (come l'Angelus Novus raffigurato in un acquerello di Paul Klee molto amato da Benjamin) sa voltarsi a guardarlo una spinta irresistibile verso un futuro diverso.
Se il rifiuto di un tempo/storia monodimensionale e spaziale fa pensare a certe analoghe posizioni assunte da Bergson o da Dilthey, occorre subito aggiungere che Benjamin polemizza aspramente con tutti e due i filosofi. A suo avviso, la storia, ben lungi dall'essere riconducibile ad un' "Erlebnis" soggettiva, è qualcosa di estremamente oggettivo e corposo. Così oggettivo e corposo da costituire una realtà in larga misura estranea, o almeno 'altra' rispetto al soggetto. Sotto un certo aspetto, essa appare, come dicevamo, un "cumulo di macerie", o anche un gioco di forze terribili, tanto più terribili in quanto sanno spesso mascherarsi sotto le forme di miti seducenti. Sotto un altro aspetto, essa contiene però princìpi e valori non solo preziosi, ma imprescindibili e insostituibili. Purtroppo, non sempre il presente vuole e sa interrogare il tempo che è stato: soltanto certe epoche riescono ad inoltrarsi per tale itinerario interrogativo; e solo in certi casi si riesce ad entrare in rapporto con ciò cui, più o meno consapevolmente, si tende. Ma la ricerca di questo rapporto è un compito al quale non ci si può e non ci si deve sottrarre: la decifrazione del passato consente infatti di cogliere e di rivitalizzare idee e "unità di senso" che erano rimaste come se sepolte e bloccate nei loro possibili sviluppi. Inoltre, le domande che rivolgiamo al passato sono in realtà le nostre domande: solo comprendendo il passato comprendiamo noi stessi. Solo liberandone le virtù nascoste liberiamo noi stessi.
Il Novecento appare a Benjamin abitata da grandi potenzialità sia positive (le possenti spinte auto-emancipatorie degli oppressi) sia negative (i totalitarismi, il potere tecnologico non adeguatamente controllato). In veste di marxista sui generis, Benjamin sostiene la necessità che le classi rivoluzionarie sappiano svolgere approssimativamente il loro compito teorico e pratico: senza cullarsi nell'illusione di riforme graduali e indolori, senza sottomettersi ai miti del progresso e della tecnica, ma assumendo invece una responsabilità 'epocale': quella di capire e di far capire che viviamo in uno "stato di emergenza".
Nelle Tesi di filosofia della storia, composte negli ultimi mesi della sua vita in Francia, Benjamin si richiama (a partire dal titolo) alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx: in esse, Benjamin conduce una dura critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici e assume quindi il punto di vista di coloro che hanno vinto nella storia. Egli indica, invece, una possibilità di vittoria per il materialismo storico, se questo " prende al suo servizio la teologia ", che oggi " è piccola e brutta ". Il recupero della tradizione messianica consente infatti di concepire il tempo come un processo non lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari che frantumano la continuità storica:
"la coscienza di far saltare il 'continuum' della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un'immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice 'C'era una volta' nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il 'continuum' della storia".

a cura di Diego Fusaro - www.filosofico.net

da leggere: Gerschom Sholem, Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, Adelphi, 1992

v. anche: http://www.ominiverdi.com/walterbenjamin/

Theodor W. Adorno

Profilo di Walter Benjamin

da Prismi, Einaudi, 1972 [1950]

Il nome del filosofo che si tolse la vita mentre cercava riparo dagli sgherri di Hitler, è venuto acquistando, nei quindici anni che da allora sono trascorsi, un’aureola di autorità nonostante il carattere esoterico dei suoi primi lavori e quello frammentario dei successivi. Il fascino che emana dalla persona e dall’opera non ha lasciato altra possibilità che l’attrazione magnetica o il rifiuto inorridito.
Sotto lo sguardo delle sue parole tutto ciò su cui andava a parare si trasformava come divenuto radioattivo. La capacità di configurare incessantemente aspetti nuovi, non tanto perché egli spezzasse con l’arma della critica le convenzioni, quanto, e più, perché, grazie alla sua organizzazione interiore, sapeva porsi di fronte all’oggetto come se la convenzione non avesse nessun potere su di lui – questa capacità non là si può tuttavia rendere con il concetto di originalità. Nessuno dei lampi della sua mente inesauribile ebbe mai carattere di mera trovata. Il soggetto cui furono elargite in carne ed ossa tutte le esperienze originarie di cui la filosofia ufficiale contemporanea si limita a discorrere sul piano formale, pareva al tempo stesso non aver parte alcuna in esse, così come la sua indole, in specie la sua arte della formulazione istantaneo-definitiva, andava totalmente esente dal momento della spontaneità e della prontezza nel senso tradizionale di queste parole.
Egli non faceva l’effetto di uno che produca la verità o la acquisisca con l’esercizio del pensiero, bensì, evocandola attraverso il pensiero, quello di uno strumento supremo di conoscenza, sul quale questa lasciava il suo deposito. Nulla egli ebbe del filosofante secondo il criterio tradizionale. Quel che apportava di personale alle sue scoperte era ben difficilmente qualcosa di vitale e di «organico»; l’immagine del creatore non gli si applicava affatto.
La soggettività del suo pensiero era contratta a differenza specifica; il momento idiosincratico del suo spirito, il suo elemento di singolarità, che l’atteggiamento filosofico tradizionale considererebbe alla stregua dell’effimero, del casuale, dell’affatto insignificante, si rivelava in lui un tramite dell’impegnatività. Il principio secondo cui nella conoscenza il più universale è il più individuale gli si attagliava perfettamente. Se non fosse profondamente sospetta ogni similitudine tratta dalla fisica in un’epoca come questa di radicale divergenza tra la coscienza sociale e quella che s’impronta alle scienze della natura, si potrebbe effettivamente parlare, nel suo caso, di energia liberata da una disintegrazione atomica dell’intelletto.
La sua insistenza sapeva dissolvere l’insolubile; egli s’impadroniva dell’essenza proprio là dove il muro del puro dato di fatto interdice inesorabilmente ogni essenzialità ingannevole. Ciò lo spingeva, per esprimerci con una formula, a spezzare i lacci di una logica che intreccia il particolare sulla trama dell’universale o semplicemente astrae l’universale dal particolare. Egli voleva afferrare l’essenza là dove essa non si lascia né distillare con un’operazione automatica né precariamente contemplare: voleva decifrarla metodicamente dalla configurazione di elementi discosti dal significato. Il rebus diviene il modello della sua filosofia.

All’intenzionale eccentricità di questa corrisponde tuttavia la sua sottile irresistibilità. La quale non è dovuta né all’effetto magico, che pur non gli era estraneo, né a una sorta di «obiettività» intesa come dissoluzione del soggetto in quelle costellazioni. Promana piuttosto da un tratto caratteristico che la «dipartimentalizzazione» dello spirito riserba altrimenti all’arte, ma che, trasposto nella teoria, dimette l’apparenza per assumere dignità incomparabile: la promessa della felicità.
Quel che Benjamin diceva e scriveva sonava come se il pensiero facesse sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto, e così letteralmente che persino l’adempimento reale entra negli orizzonti della conoscenza. La rassegnazione era radicalmente bandita dalla sua topografia filosofica. Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorga attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di natale. Ma la luce, in quanto luce della ragione, prometteva al contempo la verità stessa, non il suo impotente riflesso.
Se il pensiero di Benjamin non era creazione dal nulla, esso era in compenso un donare dal corno dell’abbondanza; egli voleva risarcire tutto ciò che l’adattamento e l’autoconservazione inibiscono nel piacere, nel quale sensi e spirito si congiugono.
Nel suo saggio su Proust egli ha scorto nell’istanza della felicità il motivo centrale di quello scrittore a lui elettivamente affine, e non si andrà errati supponendo che proprio qui sia l’origine di quella passione alla quale dobbiamo due delle più perfette traduzioni in lingua tedesca – quelle di A l’ombre des jeunes filles en fleurs e di Le côté de Guermantes.
Ma come in Proust l’istanza della felicità tocca tutta la sua profondità sotto il greve peso del romanzo della disillusione, che mortalmente si attua nella Recherche du temps perdu, così la fedeltà alla felicità ricusata è pagata, nel caso di Benjamin, con una mestizia della quale la storia della filosofia così poco altrimenti testimonia quanto dell’utopia del giorno senza nuvole. L’affinità con Kafka non è minore di quella con Proust. Che ci sia una speranza infinita, ma non per noi, potrebbe essere il motto della sua metafisica, se mai si fosse indotto a stenderne una, e al centro della sua opera teoreticamente più elaborata, il libro sul barocco, non a caso si trova la costruzione del lutto come ultima allegoria che si capovolge, quella del riscatto. La soggettività che precipita nell’abisso dei significati «diventa l’espresso garante del miracolo, poiché annunzia la stessa azione divina». In tutte le fasi del suo pensiero, Benjamin ha concepito in uno la dissoluzione del soggetto e la salvezza dell’uomo. Ciò definisce l’arco macrocosmico, alle cui microcosmiche figure egli si dedicava.

Giacché il tratto distintivo della sua filosofia è il suo modo di essere concreta.
Come il suo pensiero in avvii sempre rinnovati cerca di sfuggire al procedere classificatorio, così l’immagine originaria di ogni speranza è per lui il nome delle cose e degli uomini, e quel nome appunto la sua riflessione cerca di ricostruire. In ciò egli sembra incontrarsi con la tendenza generale che, insorgendo contro l’idealismo e la gnoseologia, perseguiva le «cose stesse» anziché il loro calco concettuale e che nella fenomenologia e negli indirizzi ontologici con questa connessi trovò la sua espressione accademica. Ma al modo che le differenze decisive tra i filosofi sempre si celano nelle sfumature, e come le posizioni più inconciliabili tra loro sono quelle che si assomigliano, ma si alimentano da centri diversi, così Benjamin sta nello stesso rapporto con l’ideologia del concreto oggi invalsa. In questa egli ben vide la pura maschera del concetto ormai dubitante di se stesso, così come respinse il concetto ontologico-esistenziale di storia in quanto mero distillato dal quale svapora la materia della dialettica storica.
Senza forse conoscerla, egli assunse a canone del suo procedere l’acquisizione critica del tardo Nietzsche, secondo cui la verità non s’identifica con l’universale atemporale, ma anzi la figura dell’assoluto risulta soltanto da ciò che è storico. Tale programma è formulato da Benjamin, in un appunto per l’opera fondamentale rimasta allo stato di frammento, in questi termini: «l’eterno è in ogni caso più una gala sul vestito che un’idea». Con ciò egli non intendeva affatto l’innocua illustrazione di concetti mediante variopinti oggetti storici, come la coltivava Simmel quando esemplificava la sua modesta metafisica di forma e vita sulla forma dei manici, sugli attori o su Venezia. Al contrario, il suo disperato sforzo di evadere dalla prigione del conformismo culturale concerneva costellazioni della vicenda storica che non restano esempi interscambiabili di idee, bensì, nella loro unicità costituiscono quelle idee in quanto esse stesse storiche.


Ciò gli ha procurato la fama di saggista. Sino ad oggi la sua aureola è ancor quella del raffinato uomo di lettere, come egli stesso avrebbe detto con civetteria antiquaria. Se si bada all’intenzione che è al fondo del suo rivoltarsi contro la trita tematica della filosofia e il suo gergo – linguaggio da ruffiani era solito chiamarlo – è abbastanza agevole e respingere come puro equivoco quel cliché che vede in lui un saggista. Ma il richiamarsi agli equivoci cui la fortuna dei prodotti spirituali può andar soggetta non porta molto lontano, poiché presuppone un essere-in-sé del contenuto indipendentemente dal suo destino storico, o addirittura che si sappia quel che aveva in mente l’autore, e che per principio è ben difficile poter ricostruire, e certo impossibile nel caso di uno scrittore così poliedrico e frammentario quale fu Benjamin. Gli equivoci sono il tramite della comunicazione del non comunicativo.
L’asserzione provocatoria secondo cui un saggio sui passages parigini contiene più filosofia di certe considerazioni sull’Essere dell’essente, coglie più esattamente il senso dell’opera di Benjamin che non l’andare in cerca di quello scheletro concettuale sempre identico a se stesso, che egli aveva relegato in soffitta. Del resto, non rispettando il confine tra il letterato e il filosofo, egli aveva fatto della necessità empirica la sua virtù intelligibile. A vergogna loro, le università lo rifiutarono, mentre l’antiquario che era in lui si sentiva attratto dal mondo accademico nello stesso ironico modo in cui ad esempio Kafka subiva il fascino delle società d’assicurazione. Il perfido rimprovero di essere troppo intelligente lo perseguitò per tutta la vita: un bonzo dell’esistenzialismo ebbe il coraggio di. insultarlo chiamandolo «colpito dai dèmoni», come se la sofferenza di chi è dominato e straniato dallo spirito costituisse il metafisico giudizio liquidatorio su di lui, unicamente perché tale sofferenza turba il fresco e vivo rapporto io-tu. Invece, egli rifuggiva da ogni violenza contro le parole; ogni cavillosità gli era profondamente estranea. In realtà egli suscitava l’odio perché il suo sguardo, involontariamente, senza alcuna intenzione polemica, mostrava il mondo abituale in quell’eclissi che è la sua luce permanente.
In pari tempo tuttavia l’incommensurabile della sua natura, che nessuna tattica poteva vincere e che non sapeva prestarsi al gioco di società nella repubblica degli spiriti, gli consentiva di guadagnarsi da vivere, autonomo e indifeso, come saggista.

Ciò ha favorito enormemente l’agilità del suo acume. Egli imparò a dimostrare con un silenzioso sorriso l’infondatezza delle straordinarie pretese della filosofia prima.
Tutte le sue asserzioni sono ugualmente vicine al centro. Gli articoli sparsi nella «Literarische Welt» e nella «Frankfurter Zeitung» testimoniano i suoi pertinaci intenti quasi quanto i libri e i grandi saggi nella «Zeitschrift für Sozialforschung». Egli ottemperò alla massima dell’Einbahnstrasse [Senso unico], secondo cui tutti i colpi decisivi oggi sono portati con la mano sinistra, senza per questo recedere in nulla dalla verità. Anche i più preziosi trastulli letterari hanno la funzione di esercizi in vista del capolavoro, del cui genere egli al contempo radicalmente diffidava.

Il saggio in quanto forma consiste nella possibilità di contemplare ciò che è storico, le manifestazioni dello spirito obiettivo, la «cultura», come se fossero natura.
Benjamin vi era adatto come pochi. Si potrebbe definire in complesso il suo pensiero come «storico-naturale». Le componenti pietrificate, irrigidite o obsolete della cultura, tutto ciò che in essa ha dimesso l’insinuante vivacità, parlavano a lui come il fossile o la pianta dell’erbario parlano al collezionista. Tra i suoi oggetti preferiti c’erano quelle boccette di vetro con dentro un paesaggio su cui si mette a nevicare appena le scuoti. Sulla porta dei suoi sotterranei filosofici potrebbe stare la parola «natura morta». Il concetto hegeliano della seconda natura come oggettivazione di rapporti umani estraniati a se stessi, nonché la marxiana categoria del feticismo delle merci assumono in Benjamin una posizione chiave. Non lo attira unicamente il compito di ridestare la vita rappresa in ciò che si è pietrificato – come nell’allegoria –, egli è portato altresì a considerare il vivente in modo che si presenti come passato da lunga pezza, come «preistorico», e ceda improvvisamente il proprio significato. La filosofia si appropria del feticismo della merce: tutto deve magicamente trasformarsi per essa in cosa onde spezzare la magia dell’imperversare delle cose. Questo pensiero è così saturo di cultura come suo oggetto naturale, da mettersi dalla parte della reificazione, anziché fermamente confutarla.
Sta qui l’origine della tendenza di Benjamin a cedere la sua energia spirituale a un principio completamente opposto, tendenza che nel lavoro Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit 1, ha trovato la sua estrema espressione. Lo sguardo della sua filosofia è uno sguardo di Medusa. Se in essa, specie nella sua prima fase, dichiaratamente teologica, il concetto di mito detiene il posto centrale come contraltare della conciliazione, tutto, e in particolare l’effimero, diventa a sua volta, per il suo pensiero, mitico. La critica del dominio della natura, che l’ultimo aforisma di Einbahnstrasse programmaticamente annuncia, rimuove il dualismo ontologico di mito e conciliazione: questa è quella dello stesso mito. Nel progresso di tale critica il concetto di mito viene secolarizzato. La sua teoria del destino come nesso colpevole del vivente trapassa in quella del nesso colpevole della società: «Finché c’è ancora un mendicante, c’è ancora mito». In tal modo la filosofia di Benjamin, che un tempo, ad esempio nella Kritik der Gewalt [Critica della violenza], intendeva evocare immediatamente le essenze, si volge sempre più decisamente alla dialettica. Questa non si è aggiunta dall’esterno o per mera evoluzione ad un pensiero in sé statico, era invece già prefigurata nel quid pro quo della massima rigidità e del massimo movimento, che ritorna in tutte le sue fasi. Sempre più distintamente venne in primo piano la concezione della «dialettica in stato di quiete» (Dialektik im Stillstand).


La conciliazione del mito è il tema della filosofia di Benjamin. Tema che tuttavia, come nelle buone variazioni musicali, non si dichiara quasi mai nudo e crudo, ma si tiene nascosto e sposta il peso della sua legittimazione sulla mistica ebraica, della quale egli era venuto a conoscenza in gioventù attraverso il suo amico Gerhard Scholem, l’eminente studioso della Cabala. Non è chiaro in che misura egli si appoggiasse effettivamente a quelle tradizioni neoplatoniche e antinomisticomessianiche.
Parecchi indizi fanno pensare che Benjamin, che non giocava quasi mai a carte scoperte, utilizzasse da parte sua, per radicata opposizione al pensiero dilettantesco che si dirige immediatamente sui propri oggetti e all’intelligencija «indipendente» alla Mannheim, la tecnica, cara ai mistici, della pseudoepigrafia – certo senza tirar fuori i testi – per raggirare così la verità di cui nutriva il sospetto che fosse inaccessibile alla riflessione autonoma. In ogni caso egli ha orientato sulla Cabala il suo concetto di testo sacro. La filosofia consisteva per lui essenzialmente nel commento e nella critica, e al linguaggio, in quanto cristallizzazione del «nome», attribuiva un diritto più alto che quello di portatore del significato e persino dell’espressione. Il rapporto della filosofia con le opinioni dottrinali codificate in precedenza è meno estraneo alla sua grande tradizione di quanto Benjamin non volesse credere. Scritti fondamentali o parti di Aristotele e Leibniz, di Kant e Hegel sono «critiche» e non solo implicitamente, in quanto lavoro su problemi già sollevati, ma in quanto controversie specifiche. Solo quando i filosofi costituitisi a corporazione si disavvezzarono al pensiero proprio, ciascuno credette di doversi cautelare prendendo le mosse da prima della creazione del mondo o se possibile assumendo la gestione della creazione medesima.
Invece Benjamin ha sostenuto un aperto alessandrinismo e ciò valse a sollevargli contro furiose reazioni. L’idea del testo sacro egli la traspose in un illuminismo nel quale la stessa mistica ebraica, secondo l’indicazione di Scholem, si accingeva a ribaltarsi. Il suo saggismo consiste nel trattare testi profani come se fossero sacri. In nessun caso egli si è aggrappato a relitti teologici o ha riferito, come i socialisti religiosi, la profanità a un senso trascendente. Piuttosto, unicamente nella profanizzazione radicale, senza residui, scorgeva una chance per l’eredità teologica, che in quella si dilapida. La chiave di quelle figure enigmatiche è perduta. Esse debbono, come nella poesia barocca si dice della malinconia, «parlare esse stesse». Il procedimento somiglia allo scherzo di Thorstein Veblen quando diceva di studiare le lingue straniere fissando così a lungo ogni parola che alla fine ne sapeva il significato.
Evidente l’analogia con Kafka. Ma egli si distingue dal più anziano praghese, al quale pur nella negatività estrema inerisce alcunché di paesano, di epicamente tradizionale, tanto per il molto più pronunciato elemento di urbanità come contrappeso all’arcaico, quanto per il fatto che il suo pensiero, in forza del suo aspetto illuministico, si rivela infinitamente più agguerrito contro la regressione demoniaca di quanto non fosse Kafka, agli occhi del quale deus absconditus e demonio si confondevano l’uno nell’altro. Senza limitazioni, senza riserve mentali di sorta Benjamin poté nell’età matura abbandonarsi a vedute critico-sociali, non vietandosi purtuttavia nessuno dei suoi impulsi. Il vigore interpretativo si tramutò nella capacità di penetrare le manifestazioni della cultura borghese come geroglifici del suo fosco segreto: come ideologie. Egli ha parlato occasionalmente del «veleno materialistico» che era costretto a mescolare al suo pensiero affinché sopravvivesse. Tra le illusioni delle quali si sbarazzò per non dover rinunziare, c’era anche quella della forma monadologica, riposante su se stessa, della propria riflessione, che egli instancabilmente, incurante del dolore della rinunzia, commisurava alla tendenza coercitiva del collettivo. Ma l’elemento estraneo l’ha così completamente assimilato alla propria esperienza che esso tornò a vantaggio di questa.

Delle controforze ascetiche controbilanciavano quelle dell’ispirazione rinnovantesi ad ogni oggetto.
Ciò ha reso possibile a Benjamin la via della filosofia contro la filosofia. Questa filosofia la si potrebbe esporre piuttosto bene in base alle categorie che in essa non ricorrono. Di tali categorie può dare un’idea l’idiosincrasia per parole come personalità.
Sin da principio il suo pensiero si ribella alla menzogna, per cui l’uomo e lo spirito umano si fonderebbero in se stessi e da essi scaturirebbe un che di assoluto. Il mordente di questo tipo di reazione non è da confondersi con gli indirizzi neoreligiosi, che dell’uomo vogliono fare ancora una volta nella riflessione quella debole creatura a cui è già comunque degradato dalla sua totale dipendenza sociale. Egli non avversa solo il preteso soggettivismo estremo, ma lo stesso concetto di soggettivo. Tra i poli della sua filosofia, mito e conciliazione, il soggetto si dissolve. Sotto il suo sguardo di Medusa l’uomo si trasforma in ampia misura nel teatro di un processo obiettivo. Per questo la filosofia di Benjamin diffonde lo sgomento quasi nella stessa misura in cui promette la felicità. Come nell’ambito del mito in luogo della soggettività dominano la molteplicità e l’ambiguità, così l’univocità della conciliazione – rappresentata secondo il modello del «nome» – è il rovescio dell’autonomia umana. Questa, nell’eroe tragico ad esempio, viene abbassata a momento dialettico di transizione, e la conciliazione dell’uomo con la creazione è condizionata dalla dissoluzione di ogni essere umano che abbia affermato se stesso.
Come si espresse una volta in una conversazione, Benjamin riconosceva il Sé solo come un che di mistico, non di gnoseologico-metafisico, non come «sostanzialità».
L’interiorità non è per lui soltanto una dimora di opacità e di torbido autoappagamento, ma altresì il fantasma che impedisce l’immagine possibile dell’uomo: dovunque egli le contrappone l’esteriorità corporea. Invano pertanto si cercheranno in lui concetti come autonomia, ma anche come totalità, vita, sistema, tutti inerenti all’ambito della metafisica soggettiva. Quel che senza troppo entusiasmo dell’interessato egli celebrò in Karl Kraus, per ogni altro aspetto così completamente diverso da lui, è una caratteristica peculiare di Benjamin: inumanità nei confronti della frode del panumano. Le categorie poste da lui fuori corso sono però nel contempo quelle autenticamente ideologico-sociali. Sempre in esse il padrone si erige a dio. Il critico della violenza richiama l’unità soggettiva per così dire nel mitico brulichio, onde coglierla ancora come puro rapporto naturale; il filosofo del linguaggio orientato sulla Cabala la considera come un insieme di scarabocchi per il Nome. Ciò collega la sua fase materialistica con quella teologica. La sua visione della modernità come arcaicità non conserva tracce di un presunto antico vero, intende invece l’evasione reale dalla paralisi onirica dell’immanenza borghese. Non gli preme tanto di ricostruire la totalità della società borghese, quanto piuttosto di porla sotto la lente come un che di cieco, di legato alla natura, di confuso. In questo il suo metodo micrologico e frammentario non ha mai completamente assimilato la concezione della mediazione universale, che, in Hegel come in Marx, istituisce la totalità. Senza mai deflettere egli tenne fermo al suo principio che la più piccola cellula di realtà intuita controbilancia tutto il resto del mondo. L’interpretare materialisticamente i fenomeni significava per lui non tanto spiegarli in base al tutto sociale, quanto riferirli immediatamente, nel loro isolamento, a tendenze materiali e a lotte sociali. Sperava così di sfuggire a quell’alienazione e riduzione ad oggetto, nella quale la considerazione del capitalismo in quanto sistema minaccia di assimilarsi appunto al sistema. Affiorano motivi del primo Hegel, ch’egli probabilmente non conosceva: anche nel materialismo dialettico ha rintracciato quel che il giovane Hegel chiamava «positività», e vi si è opposto nel modo che gli era proprio. Nello stretto contatto con l’immediato materiale, nell’affinità con ciò che è, al suo pensiero s’accompagnava sempre, pur nella sua singolarità e acutezza, un che di peculiarmente inconsapevole, d’ingenuo se si vuole. Ingenuità che a volte lo indusse a simpatizzare con tendenze di politica di potenza che, com’egli ben sapeva, avrebbero liquidato la sostanza sua propria, l’esperienza spirituale non irregimentata. Ma anche di fronte ad esse assunse astutamente un atteggiamento interpretativo, quasi si potesse, se ci si limita a interpretare lo spirito obiettivo, contemporaneamente soddisfare ad esso ed esorcizzarne l’orrore in quanto lo si è compreso.
Egli era disposto ad apportare all’eteronomia delle teorie speculative piuttosto che rinunciare alla speculazione.


Politica e metafisica, teologia e materialismo, mito e modernità, materia inintenzionale e speculazione stravagante – tutte le strade della città di Benjamin convergevano sul piano del libro su Parigi come la sua place de l’Etoile. Ma non gli sarebbe riuscito di compendiare la sua filosofia di su l’oggetto che gli era destinato per così dire a priori. Come la concezione generale fu suscitata dall’impulso concreto, del pari conservò per tanti anni la forma monografica. Un saggio intitolato Traumkitsch [Kitsch di sogno] apparso sulla «Neue Rundschau» si occupava dello sconvolgente balenare nel surrealismo di elementi obsoleti dell’Ottocento. L’avvio all’argomento specifico l’offrì un articolo di rivista sui passages parigini, da lui progettato insieme con Franz Hessel. Al titolo «lavoro sui passages» egli tenne fermo, dopo che da tempo si era cristallizzato un progetto che avrebbe dovuto valersi di aspetti fisiognomici estremi dell’Ottocento, così come il libro sul dramma si era valso di quelli del barocco. In base ad essi egli divisò di delineare l’idea di quell’epoca nel senso di una preistoria della modernità.
Tale preistoria doveva non soltanto scoprire rudimenti arcaici nel passato più recente, quanto determinare il recentissimo stesso come figura dell’estremamente antico: «Alla forma del nuovo mezzo di produzione, che in principio è ancora dominata da quella del vecchio... corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini nelle quali il nuovo si compenetra col vecchio. Queste immagini sono proiezioni del desiderio, e la collettività cerca in esse sia di eliminare che di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale, nonché le manchevolezze dell’ordinamento sociale della produzione. Emerge nel contempo, in queste immagini, lo sforzo energico di staccarsi dall’invecchiato – e cioè dal passato più recente. Queste tendenze rimandano la fantasia configurativa, che dal nuovo ha tratto il suo impulso, al passato antichissimo. Nel sogno in cui, ad ogni epoca, si presenta in immagini la seguente, questa appare sposata ad elementi della preistoria, cioè di una società senza classi. Le esperienze della quale, depositate nell’inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuovo, l’utopia, che ha lasciato le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle costruzioni durevoli alle mode effimere».
Tali immagini erano tuttavia per Benjamin qualcosa di più che archetipi dell’inconscio collettivo come in Jung: per esse egli intendeva delle cristallizzazioni obiettive del movimento storico e le denominò col nome di immagini dialettiche. La teoria del giocatore, improvvisata con tratto grandioso, ne fornì il modello: esse dovevano, in termini di filosofia della storia, decifrare la fantasmagoria del diciannovesimo secolo come figura dell’inferno. Su quell’originario strato del lavoro sui passages, che è del 1928 circa, se ne venne poi stendendo un secondo, materialistico: sia che la definizione del diciannovesimo secolo come inferno si facesse insostenibile di fronte all’avvento del Terzo Reich, sia che l’idea dell’inferno spingesse in una direzione politica completamente diversa quando Benjamin si rese conto del ruolo strategico dell’apertura dei grandi boulevards di Haussmann, e soprattutto quando s’imbatté in un dimenticato scritto di Auguste Blanqui, L’éternité par les astres, steso in carcere, che anticipa, con l’accento della disperazione assoluta, la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno.
La seconda fase del progetto dell’opera sui passaggi è documentata nel memorandum scritto nel 1935, Paris, die Hauptstadt des XIX. Jahrhunderts [Parigi. La capitale del XIX secolo]. Esso pone in puntuale rapporto configurazioni chiave dell’epoca con categorie del mondo figurativo. Vi si doveva trattare di Fourier e Daguerre, di Grandville e Luigi Filippo, di Baudelaire e Haussmann, ma il lavoro si appuntò su temi quali la moda e le «novità», le esposizioni e le costruzioni in ghisa, il collezionista, il flâneur, la prostituzione. Quanto estremamente ampio e stimolante sia l’arco interpretativo, l’attesta per esempio questo brano su Grandville: «Le esposizioni mondiali edificano l’universo delle merci. Le fantasie di Grandville trasferiscono il carattere di merce all’universo. Lo modernizzano. L’anello di Saturno diventa un balcone in ghisa su cui gli abitanti di Saturno prendono aria la sera... La moda prescrive il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce; Grandville estende i diritti della moda agli oggetti dell’uso quotidiano e al cosmo intero. Seguendola nei suoi estremi, egli scopre la sua natura. Essa è in conflitto con l’organico. Accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che soccombe al sex appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo pone al proprio servizio»

2.
Considerazioni di questo tenore condussero al progettato capitolo su Baudelaire. Benjamin lo staccò dal grande progetto per farne un più breve libro suddiviso in tre parti; un cospicuo frammento apparve nel 1939-40 nella «Zeitschrift für Sozialforschung» come saggio dal titolo Über einige Motive bei Baudelaire. È uno dei pochi testi che, del complesso dei passages, egli abbia condotto in porto. Un secondo è costituito dalle tesi Über den Begriff der Geschichte [Sul concetto di storia], compendio per così dire delle riflessioni gnoseologiche il cui sviluppo ha accompagnato quello del progetto dei passages. Di questo esistono migliaia di pagine, studi sul materiale, che durante l’occupazione furono nascoste a Parigi. Il tutto peraltro è pressoché impossibile ricostruirlo. L’intenzione di Benjamin era di rinunciare ad ogni aperta interpretazione e di far emergere i significati unicamente attraverso un montaggio provocatorio del materiale. La filosofia non doveva soltanto raggiungere il surrealismo, ma essa stessa divenire surrealistica. L’aforisma dell’Einbahnstrasse secondo cui le citazioni dei suoi lavori sono come predoni appostati lungo la strada, che balzano fuori a spogliare il lettore delle sue convinzioni, egli lo concepiva alla lettera.
A coronamento del suo antisoggettivismo, la sua opera fondamentale non avrebbe dovuto consistere che di citazioni. Solo di rado si trovano annotate interpretazioni che non fossero già passate nel Baudelaire e nelle tesi di filosofia della storia, e nessun canone dice come si possa realizzare l’impresa temeraria di una filosofia depurata dall’argomento, e anche soltanto come siano da accostare le citazioni in modo da offrire un certo senso. La filosofia frammentaria restò frammento, vittima forse di un metodo, del quale non è certo che in generale si lasci attuare nell’ambito del pensiero.

Il metodo però non può esser separato dal contenuto. L’ideale di conoscenza di Benjamin non si appagava della riproduzione di ciò che comunque è. Nella limitazione dell’ambito della conoscenza possibile, che la filosofia più recente vanta con orgoglio come prova di una maturità priva di illusioni, egli fiutava il sabotaggio dell’istanza della felicità, la mera ratifica dell’eternamente uguale: il mito stesso. Ma il motivo utopistico è accoppiato a quello antiromantico. Egli non si lasciò mai sedurre dai vari tentativi, in apparenza affini – quello di Scheler ad esempio – di attingere la trascendenza partendo dalla ragione naturale, quasi si potesse annullare il processo delimitatore dell’illuminismo, e tranquillamente ricorrere a estinte filosofie allogate sotto la cappa teologica. Per questo il suo pensiero si vieta, secondo la sua tendenza, la «riuscita» di una compatta univocità ed eleva il frammentario a suo principio. Per ottenere quel che vagheggiava, egli elesse la perfetta extraterritorialità di fronte alla tradizione palese della filosofia. Nonostante la sua grande cultura, gli elementi della storia canonica di quella non si immettono nel suo labirinto se non in ordine sparso, sotterraneamente, obliquamente. L’incommensurabile riposa su uno sfrenato abbandono all’oggetto. Facendosi il pensiero per così dire troppo dappresso alla cosa, questa diviene estranea come qualunque oggetto della vita quotidiana visto al microscopio. A volerlo classificare, per l’assenza di un sistema e di una compatta argomentazione discorsiva, tra i rappresentanti dell’intuizione o della «visione» – e in tal senso è stato spesso frainteso perfino da suoi amici – si dimenticherebbe il meglio. Non lo sguardo come tale pretende di ottenere immediatamente l’assoluto, ma è cambiato il modo di guardare, l’intera ottica. La tecnica dell’ingrandimento fa muovere l’irrigidito e fermare ciò che è mosso. La sua predilezione per oggetti minimali e meschini come la polvere e la felpa nel lavoro sui passages è complementare a quella tecnica che viene attratta da tutto ciò che è scivolato attraverso le maglie della rete convenzionale dei concetti o è troppo disdegnato dallo spirito dominante per avervi lasciato altre tracce che quelle di un giudizio frettoloso.
Come Hegel, il dialettico della fantasia, che egli definì«estrapolazione nel minimo», spera di considerare la «cosa come è in sé e per se stessa», senza riconoscimento dunque della soglia ineliminabile tra coscienza e cosa in sé. Ma la distanza di tale considerazione è spostata. Dato che non avviene, come in Hegel, che soggetto e oggetto vengano sviluppati come identici in ultima istanza, ma piuttosto l’intenzione soggettiva viene rappresentata come dissolventesi nell’oggetto, questo tipo di pensiero non si appaga di intenzioni. Il pensiero incalza la cosa, quasi volesse trasformarsi in un tastare, in un fiutare, in un gustare. In virtù di tale seconda sensibilità, esso spera di penetrare negli aurei filoni che a nessun procedere classificatorio è dato di attingere, senza tuttavia consegnarsi per questo alla casualità dell’intuizione cieca. La riduzione della distanza dall’oggetto istituisce nel contempo il rapporto con una prassi possibile, che in seguito guiderà il pensiero di Benjamin. Quel che l’esperienza ritrova oscuramente e senza obiettività nel déja vu, quel che Proust si riprometteva per la ricostruzione poetica dal ricordo involontario, Benjamin voleva recuperarlo e innalzarlo a verità attraverso il concetto. Egli obbliga il concetto a operare esso stesso ad ogni istante ciò che altrimenti è riservato all’esperire aconcettuale. Il pensiero deve raggiungere lo spessore dell’esperienza e tuttavia non rinunciare a nulla del suo rigore.

L’utopia della conoscenza ha però l’utopia come contenuto. Benjamin la chiamava l’«irrealtà della disperazione». La filosofia si ispessisce a esperienza affinché le si dischiuda la speranza. Questa appare tuttavia unicamente come rifratta. Se Benjamin sovraespone deliberatamente i suoi oggetti per farne risaltare i contorni nascosti che un giorno dovranno palesarsi nello stadio della conciliazione, al tempo stesso si spalanca, inaccessibile, il baratro tra questo e l’esistenza. Il prezzo della speranza è la vita: «messianica è la natura per la sua eterna e totale fugacità» e la felicità, secondo un frammento dell’ultimo periodo che tutto pone in gioco, è «il ritmo suo proprio». Pertanto al centro della filosofia di Benjamin sta l’idea della salvezza di ciò che è morto, come restituzione della vita snaturata attraverso il compimento della reificazione sua propria, giù giù sino all’inorganico. «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza», conclude il saggio su Die Wahlverwandtschaften [Le affinità elettive]. Nel paradosso della possibilità dell’impossibile, per un’ultima volta si sono ritrovati insieme in lui misticismo e illuminismo. Egli si è liberato del sogno senza tradirlo, e senza farsi complice di ciò in cui i filosofi sempre si sono trovati d’accordo: che non deve essere. Il carattere di enigma e di rompicapo che egli diede intenzionalmente agli aforismi dell’Einbahnstrasse e che contraddistingue tutto quel che in genere scrisse ha in quella paradossalità il suo fondamento. Il darne conto nonostante tutto con gli unici mezzi di cui la filosofia disponga, i concetti, costituisce l’Uno, per amor del quale egli senza timore si sprofondò nel Molteplice.



1
L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1966
2 Angelus Novus, Einaudi, 1962



Walter Benjamin

Destino e carattere

da: Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi 1962

Destino e carattere vengono concepiti per lo più in rapporto causale, e il carattere è definito come una causa del destino. L'idea che è alla base di tale concezione è questa: se da un lato il carattere di un uomo, e cioè anche il suo modo specifico di reagire, fosse noto in tutti i particolari, e se dall'altro l'accadere cosmico fosse noto in tutti i campi in cui entra a contatto con quel carattere, si potrebbe dire con esattezza sia ciò che capiterebbe a quel carattere che ciò che sarebbe da esso compiuto. In altri termini, sarebbe noto il destino.
Un aggancio teoretico diretto al concetto di destino non è permesso dalle concezioni attuali, per cui i moderni addivengono bensì all'idea di leggere il carattere dai lineamenti fisici di un individuo, trovando già in qualche modo in sé la nozione di carattere in generale, mentre l'idea di decifrare analogamente il destino di un uomo dalle linee della sua mano sembra loro inaccettabile. Ciò sembra impossibile come «predire il futuro»; categoria sotto cui viene assunta senz'altro la previsione del destino, mentre il carattere appare, di contro, come qualcosa di dato nel presente e nel
passato, e quindi di conoscibile. Ma è proprio la tesi di chi pretende di poter predire agli uomini, in base a questi o quei segni, il loro destino, che questo, per chi sappia farvi attenzione (per chi ha già in sé una nozione immediata del destino in generale), è già, in qualche modo, presente, o, detto con più cautela, è già sul posto. L'ipotesi che un certo «esser sul posto» del destino futuro non contraddica al concetto del medesimo, né la sua predizione alle forze conoscitive dell'uomo, non è, come si può mostrare, assurda. Anche il destino, come il carattere, può essere osservato solo in segni, non in se stesso, poiché – per quanto questo o quel tratto di carattere, questo o quel concatenamento del destino, possa essere immediatamente visibile – la connessione indicata da quei concetti non è però mai presente che in segni, essendo posta al di sopra dell'immediatamente visibile. Il sistema dei segni caratteriologici è generalmente limitato al corpo, a prescindere dall'importanza caratteriologica dei segni studiati dall'oroscopo, mentre segni del destino, secondo la concezione tradizionale, possono diventare, coi tratti fisici, tutti i fenomeni della vita esterna. Ma il rapporto fra segno e designato costituisce, in entrambe le sfere, un problema egualmente difficile e riposto, anche se, per tutto il resto, diverso, perché, a dispetto di ogni superficiale considerazione e falsa ipostatizzazione dei segni, non è in base a connessioni causali che essi significano, nei due sistemi, carattere o destino. Un contesto significativo non si può mai motivare causalmente, quand'anche, nel caso in questione, quei segni fossero stati determinati causalmente, nella loro realtà, dal destino e dal carattere. Qui non studieremo la fisionomia di questo sistema di segni del carattere e del destino; ma ci occuperemo esclusivamente dei designati stessi.

Appare che la concezione tradizionale della loro natura e del loro rapporto non solo rimane problematica, poiché non è in grado di rendere razionalmente intelligibile la possibilità di una previsione del destino, ma che è falsa, perché la separazione su cui si fonda è teoricamente irrealizzabile. Poiché è impossibile formare un concetto non contraddittorio dell'esterno di un uomo agente, come nocciolo del quale, in quella concezione, viene pure considerato il carattere. Nessun concetto di un mondo esterno si lascia delimitare nettamente rispetto al concetto dell'uomo agente. Fra l'uomo che agisce e il mondo esterno tutto è, piuttosto, interazione reciproca, i loro cerchi d'azione sfumano l'uno nell'altro; per quanto le rappresentazioni possano essere diverse, i loro concetti non sono separabili. Non solo non è possibile mostrare in nessun caso che cosa debba essere considerato, in una vita umana, in ultima istanza come funzione del carattere e che cosa invece come funzione del destino (ciò che non vorrebbe dire ancora nulla, se, per esempio, essi sfumassero l'uno nell'altro solo nell'esperienza), ma l'esterno, che l'uomo agente trova come dato, può essere ricondotto, in linea di massima, in tutta la misura che si vuole, al suo interno, e il suo interno, in tutta la misura che si vuole, al suo esterno, anzi l'uno essere considerato in linea di principio come l'altro. In questa considerazione, carattere e destino, lungi dall'essere teoricamente separati, verranno a coincidere. Come in Nietzsche, quando dice: «Chi ha carattere ha anche un'esperienza che ritorna sempre». Ciò significa: se uno ha carattere, il suo destino è essenzialmente costante. Ciò che però a sua volta significa – e questa conseguenza è stata tratta dagli stoici – che non ha un destino.

Dovendosi ottenere il concetto di destino, bisogna quindi separarlo nettamente da quello di carattere, ciò che a sua volta non può riuscire se anche quest'ultimo non riceve una determinazione più precisa. In base a questa determinazione i due concetti diventeranno del tutto divergenti; dove c'è carattere, è certo che non vi sarà destino, e nel quadro del destino non si troverà carattere. A questo scopo bisognerà guardare di assegnare quei due concetti a sfere tali in cui non usurpino, come accade nell'uso linguistico quotidiano, la maestà di sfere e concetti superiori. Il carattere, infatti, viene comunemente inserito in un contesto etico, e il destino in un contesto religioso. Bisogna bandirli da entrambi i campi mostrando l'errore che ve li ha potuti collocare. Questo errore è determinato, per quanto riguarda il concetto di destino, dalla sua connessione con quello di colpa.
Così, per citare il caso tipico, la disgrazia fatale è considerata come la risposta di Dio o degli dèi alla colpa religiosa. Ma qui dovrebbe far pensare il fatto che manchi un rapporto corrispondente del concetto di destino al concetto dato dalla morale simultaneamente al concetto di colpa, e cioè al concetto di innocenza. Nella classica configurazione greca dell'idea di destino la felicità che tocca ad un uomo non è affatto concepita come la conferma della sua innocente condotta di vita, ma come la tentazione alla colpa più grave, all'hybris. Rapporto all'innocenza non si trova quindi nel destino. E – una domanda che va ancora più a fondo – esiste forse nel destino un rapporto alla felicità? È la felicità, come senza dubbio la sventura, una categoria costitutiva del destino? Ma è proprio la felicità che svincola il felice dall'ingranaggio dei destini e dalla rete del proprio. Non per nulla Hölderlin chiama «senza destino» gli dèi beati.
Felicità e beatitudine conducono quindi, al pari dell'innocenza, fuori della sfera del destino. Ma un ordine i cui soli concetti costitutivi sono infelicità e colpa e per entro il quale non è concepibile via alcuna di liberazione (poiché nella misura in cui qualcosa è destinato, è infelicità e colpa) – un ordine siffatto non può essere religioso, per quanto il concetto malinteso di colpa sembri rinviare alla religione. Si tratta di cercare un altro campo, dove contino solo infelicità e colpa, una bilancia su cui beatitudine e innocenza risultano troppo leggere e si librano in alto.
Questa bilancia è la bilancia del diritto. Le leggi del destino, infelicità e colpa, sono poste dal diritto a criteri della persona; poiché sarebbe falso supporre che solo la colpa si ritrovi nel quadro del diritto; si può dimostrare invece che ogni colpa giuridica non è altro che una disgrazia. Per un errore, in quanto è stato confuso col regno della giustizia, l'ordine del diritto, che è solo un residuo dello stadio demonico di esistenza degli uomini, in cui statuti giuridici non regolarono solo le loro relazioni, ma anche il loro rapporto con gli dèi, si è conservato oltre l'epoca che ha inaugurato la vittoria sui demoni. Non è col diritto, ma nella tragedia, che il capo del genio si è sollevato per la prima volta dalla nebbia della colpa, poiché nella tragedia il destino demonico è infranto. Ciò non significa che la concatenazione – che non ha fine dal punto di vista pagano – di colpa e castigo sia sostituita dalla purezza dell'uomo purgato e riconciliato col puro dio. Ma nella tragedia l'uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dèi, anche se questa conoscenza gli toglie la parola, e rimane muta. Senza dichiararsi, essa cerca segretamente di raccogliere le sue forze.
Essa non pone ordinatamente colpa e castigo nei due piatti della bilancia, ma li agita insieme e li confonde. Non si può dire affatto che sia ristabilito «l'ordine etico del mondo», ma l'uomo morale, ancora muto, ancora minore – come tale è l'eroe – cerca di sollevarsi nell'inquietudine di quel mondo tormentato. Il paradosso della nascita del genio nell'incapacità morale di parlare, nell'infantilità morale, è il sublime della tragedia. Ed è, probabilmente, il fondamento del sublime in generale, in cui appare assai più il genio che Dio. – Il destino, appare quindi quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole. Come Goethe riassume queste due fasi nelle parole: «Voi fate diventare il povero colpevole». Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa. Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive. Esso corrisponde alla costituzione naturale del vivente, a quell'apparenza non ancora del tutto dissolta, a cui l'uomo è così sottratto che non ha mai potuto risolversi interamente in essa, ma – sotto il suo impero – ha potuto restare invisibile solo nella sua miglior parte. Non è quindi (in fondo) l'uomo ad avere un destino, ma il soggetto del destino è indeterminabile. Il giudice può vedere destino dove vuole; in ogni pena deve ciecamente infliggere destino. L'uomo non ne viene mai colpito, ma solo la nuda vita in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in ragione dell'apparenza.
Nel senso del destino questo vivente può essere accoppiato alle carte come ai pianeti, e l'indovina si avvale della semplice tecnica di inserirlo, con le cose più immediatamente certe e calcolabili (cose impuramente gravide di certezza), nel contesto della colpevolezza. Con ciò essa apprende in segni qualcosa su una vita naturale nell'uomo che essa cerca di porre al posto del capo di prima 2; come d'altra parte l'uomo che si reca da lei abdica a se stesso a favore della vita colpevole. Il contesto della colpa è temporale in modo affatto improprio, affatto diverso, per genere e misura, dal tempo della redenzione o della musica o della verità. Dalla determinazione del carattere particolare del tempo del destino dipende la piena illuminazione di questi rapporti. Il cartomante e il chiromante mostrano, in ogni caso, che questo tempo può essere reso, in ogni momento, contemporaneo ad un altro (che non significa presente).
È un tempo non autonomo, parassitariamente aderente al tempo di una vita superiore, meno legata alla natura. Esso non ha presente, poiché gli istanti fatali esistono solo nei cattivi romanzi, e conosce anche passato e futuro solo in inflessioni caratteristiche.

Vi è quindi un concetto del destino – ed è il vero ed unico, che riguarda allo stesso modo il destino nella tragedia come le intenzioni della cartomante – che è affatto indipendente da quello del carattere e cerca la sua fondazione in una sfera affatto diversa. Nello stato corrispondente deve essere posto anche il concetto di carattere. Non è un caso che entrambi gli ordini si riconnettano a pratiche ermeneutiche e che nella chiromanzia carattere e destino vengano propriamente a coincidere. Entrambi riguardano l'uomo naturale, o, per dir meglio, la natura dell'uomo; ed è essa che si annuncia nei segni naturali, direttamente o sperimentalmente dati.
La fondazione del concetto di carattere dovrà quindi riferirsi a sua volta a una sfera naturale e avere altrettanto poco a che fare con l'etica o con la morale come il destino con la religione. D'altra parte il concetto di carattere dovrà liberarsi anche di quei tratti che determinano la sua falsa connessione col concetto di destino. Questa connessione è prodotta dall'immagine di una rete suscettibile di essere infittita senza limiti dalla conoscenza, fino a diventare saldissimo tessuto: come il carattere appare a una superficiale considerazione. Accanto a questi tratti fondamentali lo sguardo acuto del conoscitore di uomini dovrebbe cogliere cioè, secondo questa concezione, altri tratti più minuti e più fitti, finché la rete apparente si condensi in un tessuto. Finché, nei fili di questo tessuto, un debole intelletto ha creduto di possedere l'essenza morale del carattere in questione, e ha distinto in essa le buone e le cattive qualità. Ma, come tocca dimostrare alla morale, mai qualità, ma solo azioni possono essere moralmente rilevanti. Va da sé che l'apparenza vuole altrimenti. Non solo «furtivo», «prodigo», «animoso», sembrano implicare valutazioni morali (qui si può ancora prescindere dall'apparente coloritura morale dei concetti), ma soprattutto parole come «disinteressato», «maligno», «vendicativo», «invidioso», paiono designare tratti di carattere in cui non è più possibile astrarre da una valutazione morale. E tuttavia questa astrazione non solo è possibile in ogni caso, ma necessaria per cogliere il senso dei concetti. Ed essa va concepita nel senso che la valutazione in sé rimane perfettamente intatta e le viene tolto solo l'accento morale, per far posto, in senso positivo o negativo, ad apprezzamenti non meno limitati delle determinazioni – senza dubbio moralmente indifferenti – di qualità dell'intelletto (come «intelligente» o «stupido»).

La vera sfera a cui appartengono questi attributi pseudomorali, ci si svela nella commedia. Al centro di essa, come protagonista della commedia di carattere, è spesso un uomo che se dovessimo trovarci nella vita di fronte ai suoi atti anziché a teatro di fronte a lui, definiremmo subito un mascalzone. Ma sulla scena della commedia i suoi atti acquistano solo quell'interesse che li investe alla luce del carattere; e questo è, nei casi classici, oggetto non di condanna morale, ma di alta serenità. Non è mai in se stesse, mai dal punto di vista morale, che le azioni dell'eroe comico toccano il pubblico; i suoi atti interessano solo in quanto riflettono la luce del carattere. Dove si osserva che il grande poeta comico, come Molière, non cerca di determinare il suo personaggio attraverso una molteplicità di tratti caratteristici. Anzi, all'analisi psicologica è precluso ogni accesso alla sua opera.
Non ha nulla a che fare, con l'interesse di quell'analisi, che avarizia o ipocondria vengano ipostatizzate, nell'Avare o nel Malade imaginaire, e messe alla base di ogni azione. Sull'ipocondria e sull'avarizia quei drammi non insegnano nulla; lungi dal renderle comprensibili, le rappresentano in forma cruda e semplificata, e se l'oggetto della psicologia è la vita interiore dell'uomo empiricamente inteso, i personaggi di Molière non possono servire ad essa neppure come pezze d'appoggio. In essi il carattere si dispiega luminosamente nello splendore del suo unico tratto, che non ne lascia sussistere alcun altro visibile accanto a sé, ma lo annulla con la sua luce. La sublimità della commedia di carattere riposa su questa anonimità dell'uomo e della sua moralità pur mentre l'individuo si dispiega al massimo nell'unicità del suo tratto caratteristico. Mentre il destino svolge l'infinita
complicazione della persona colpevole, la complicazione e fissazione della sua colpa, – alla mitica schiavitù della persona nel contesto della colpa il carattere dà la risposta del genio.
La complicazione diventa semplicità, il fato libertà. Poiché il carattere del personaggio comico non è il fantoccio dei deterministi, ma la lucerna al
cui raggio appare visibilmente la libertà dei suoi atti. – Al dogma della naturale colpevolezza della vita umana, della colpa originaria, la cui fondamentale insolubilità costituisce la dottrina e la cui occasionale soluzione costituisce il culto del paganesimo, il genio oppone la visione della naturale innocenza dell'uomo. Questa visione rimane a sua volta nell'ambito della natura, ma le conoscenze morali sono così vicine alla sua essenza come l'idea opposta solo nella forma della tragedia, che non è la sua sola. Ma la visione del carattere è liberante sotto tutte le forme: essa è
in rapporto con la libertà (come non è possibile mostrare qui) attraverso la sua affinità con la logica. – Il tratto di carattere non è, quindi, il nodo nella rete, ma il sole dell'individuo nel cielo incolore (anonimo) dell'uomo, che getta l'ombra dell'azione comica. (E questo situa la profonda osservazione di Cohen, che ogni azione tragica, per quanto sublime inceda sui suoi coturni, getta un'ombra comica, nel suo contesto più proprio).

I segni fisiognomici, come gli altri segni divinatori, dovevano necessariamente servire, presso gli antichi, soprattutto all'indagine del destino, conforme al primato della fede pagana nella colpa. La fisiognomica come la commedia furono manifestazioni della nuova età del genio. La fisiognomica moderna mostra ancora il suo rapporto con l'antica arte divinatoria nello sterile accento morale dei suoi concetti, come anche nella tendenza alla complicazione analitica. Proprio sotto questo aspetto hanno visto meglio fisiognomici antichi e medioevali, che capirono che il carattere può essere colto solo sotto pochi concetti fondamentali moralmente indifferenti, come quelli che cercò di fissare, per esempio, la teoria dei temperamenti.



Walter Benjamin

La tecnica dello scrittore


I. Chi intende procedere alla stesura di un'opera di vasto respiro si dia buon tempo e, al termine della fatica giornaliera, si conceda tutto ciò che non ne pregiudica la continuazione.

II. Parla di quanto hai già scritto, se vuoi, ma non farne lettura finché il lavoro è in corso. Ogni soddisfazione che in tal modo ti procurerai rallenterà il tuo ritmo. Seguendo questa regola, il desiderio crescente di comunicare diverrà alla fine uno stimolo al compimento.

III. Nelle condizioni di lavoro cerca di sottrarti alla mediocrità della vita quotidiana. Una mezza quiete accompagnata da rumori banali è degradante. Invece l'accompagnamento di uno studio pianistico o di uno strepito di voci può rivelarsi non meno significativo del silenzio tangibile della notte. Se questo affina l'orecchio interiore, quello diventa il banco di prova di una dizione la cui pienezza soffoca in sé persino i rumori discordanti.

IV. Evita strumenti di lavoro qualsiasi. Una pedante fedeltà a certi tipi di carta, a penne e inchiostri ti sarà utile. Non lusso, ma dovizia di codesti arnesi è indispensabile.

V. Non lasciarti sfuggire alcun pensiero, e tieni il tuo taccuino come le autorità tengono il registro dei forestieri.

VI. Rendi la tua penna sdegnosa verso l'ispirazione ed essa l'attirerà a sé con la forza del magnete. Quanto più lento sarai nel decidere di mettere per iscritto un'intuizione, tanto più matura essa ti si consegnerà. Il discorso conquista il pensiero, ma la scrittura lo domina.

VII. Non smettere mai di scrivere perché non ti viene più in mente nulla. È un imperativo dell'onore letterario interrompersi solo quando c'è da rispettare una scadenza (un pasto, un appuntamento) o quando l'opera è terminata.

VIII. Occupa una stasi dell'ispirazione con l'ordinata ricopiatura del già scritto. L'intuizione ne sarà risvegliata.

IX. Nulla dies sine linea: sì, però qualche settimana.

X. Non considerare mai perfetta un'opera che non t'abbia tenuto una volta a tavolino dalla sera fino a giorno fatto.

XI. La conclusione dell'opera non scriverla nel solito ambiente di lavoro. Non ne troveresti il coraggio.

XII. Gradi della composizione: pensiero, stile, scrittura. Il senso della bella copia è che in questa fase l'attenzione va ormai soltanto alla calligrafia. Il pensiero uccide l'ispirazione, lo stile vincola il pensiero, la scrittura ripaga lo stile.

XIII. L'opera è la maschera mortuaria dell'idea.

da: Strada a senso unico, Einaudi, 1983