Theodor Wiesengrund Adorno

Insieme ad Horkheimer e a Marcuse, Adorno fu il principale esponente di quella che è stata chiamata la Scuola di Francoforte.
Per descriverne sommariamente la figura faremo riferimento in particolare all'introduzione di Renato Solmi a quello che ci pare il suo lavoro più affascinante, Minima Moralia, ricordando che l'enorme mole di lavoro di Adorno non trovò mai una sistematizzazione organica, ma preferì la forma dell'articolo, del saggio, dell'aforisma: "Chi oggi sceglie il lavoro filosofico come professione, deve rinunciare all'illusione con la quale prendevano precedentemente l'avvio i progetti filosofici, che sia possibile afferrare in forza del pensiero la totalità del reale."
Un breve ritratto di Adorno ci viene offerto da un altro illustre esule tedesco, Thomas Mann: (1)

"Theodor Wiesengrund Adorno nacque nel 1903 a Francoforte sul Meno. Suo padre era un ebreo tedesco; sua madre, cantante, è la figlia di un ufficiale francese di origine corsa (e, più in là, genovese) e di una cantante tedesca. È cugino di quel Walter Benjamin che, perseguitato a morte dai nazisti, ha lasciato l'acutissimo e profondo volume sulla 'Tragedia tedesca', vera filosofia e storia dell'allegoria.
Adorno, che così si chiama col cognome di ragazza della madre, è un uomo di simile mentalità, tragico-savia, scontrosa e selvatica. Cresciuto in un ambiente di interessi puramente teorici (anche politici) e artistici, soprattutto musicali, studiò filosofia e musica e nel 1931 divenne libero docente all'Università di Francoforte, dove insegnò filosofia finché fu scacciato dai nazisti. Dal 1941 vive a pochi passi da noi a Los Angeles
."
Tornato in Germania qualche anno dopo la fine della guerra, Adorno riprese ad insegnare all'Institut für Sozialforschung di Francoforte. È morto nel 1969.
Musica e filosofia, dunque, le sue passioni e, al tempo stesso, la materia di un improbus labor.
Il suo primo libro (1933) è su Kierkegaard, cui segue l'opera teorica più complessa, Dialettica dell'Illuminismo, scritta insieme al grande amico Max Horkheimer. Scrive Minima moralia appena prima di rientrare in Europa e nel 1949 pubblica Filosofia della musica moderna, seguito da un lungo saggio su Wagner. Mahler (1960) precede di due anni Introduzione alla sociologia della musica. Altre opere sono: Dialettica negativa, Prismi e Dialettica e positivismo in sociologia (con Jürgen Habermas e Karl Popper). Numerosissimi i lavori pubblicati su riviste americane e tedesche, tra cui, di particolare importanza, quelli sui rapporti fra struttura psicologica individuale e tendenze ideologiche (The Authoritarian Personality, New York, 1950 - La personalità autoritaria, Comunità, 1973), dove, tra l'altro, emergono dati statistici inquietanti sulle propensioni al fascismo latenti nella società statunitense.
(2) "L'illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni, ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di una trionfale sventura, gli uomini pagano l'accrescimento del loro potere con l'estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L'Illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini, che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale: è questo il corso della civiltà europea."

Come Horkheimer e Marcuse, Adorno passa bruscamente dalla Germania di Goethe e di Beethoven - e del feroce scontro di classe conclusosi con il trionfo nazionalsocialista - all'America del pop corn e dei petrolieri.
I marxisti ingessati hanno sovente ironizzato sullo choc culturale di questo raffinato intellettuale di fronte alla brutalità dell'american way of life, intendendo con ciò che tutto il suo lavoro più che "critico" era "romantico". In realtà il marxismo di Adorno era assai più denso e vitale di quello burocraticamente ostentato dai suoi detrattori, e le categorie marxiane dei rapporti di produzione furono sempre il suo riferimento teorico fondamentale, naturalmente di continuo "disturbate" da un insopprimibile spirito indagatore, marxista, appunto.
Ovviamente non è posssibile condensare in poche righe un pensiero così acuto e complesso come quello di Adorno, e ci si limiterà ad accennare in estrema sintesi solo ad alcune sue teorie generali (rimandando anche alle pagine sulla Scuola di F. e su Marcuse), con l'avvertenza che quanto più esse (mass media, consumi, consenso, ecc.) sembreranno in qualche modo acquisite dall'odierno senso comune, tanto più furono a suo tempo dirompenti ed assolutamente innovative; al punto che la loro validità trova la sua più clamorosa, e paradossale, conferma proprio nell'essere state in larga misura metabolizzate dal "sistema", tanto da essere divenute esse stesse strumenti di lavoro degli esperti di marketing o human relations.

Il "supercapitalismo" americano ha bisogno di esprimersi-espandersi in tutta la sua esuberanza, non sopporta vetuste mediazioni, e dunque si assume direttamente l'onere di esercitare le tecniche ideologiche necessarie a mantenere e rafforzare il proprio dominio. In altre parole, se altrove il meccanismo capitalistico è reso fluido da una rete di supporti culturali e politici esterni all'azienda, negli USA è chi possiede e dirige l'apparato produttivo che interviene in prima persona per garantire la stabilità e la proficua riproducibilità dei rapporti economici. E l'industria culturale è l'esempio principale: non solo ricava continui e crescenti profitti, ma è essa stessa un dispositivo teso a garantire equilibrio sociale, inducendo i consumatori a comportamenti non dissonanti; quando la pubblicità spinge ad acquistare un determinato bene di consumo, non solo mantiene vitale quel prodotto ma plasma il consumatore stesso, persuadendolo ad agire in modo socialmente coerente col suo ruolo di attore inconsapevole e passivo.
Il "privato" diventa prepotentemente parte dello schema generale, è "sussunto" - per usare la terminologia marxiana - nel quadro dei rapporti di produzione e di scambio.
L'individualità del cittadino si può esprimere liberamente - negli hobbies, ad esempio - a patto che egli non metta in discussione la base fondante del sistema, cioè l'appartenenza alla sola società possibile, quella delle merci e della soddisfazione che esse universalmente garantiscono. I rapporti stessi fra gli individui sono conformati in questo senso: i regali non sono più un'espressione dell'affetto privato di una persona verso l'altra, ma "obblighi sociali" - nella forma e nella sostanza, così che un dono (quale esso sia: Barbie, elettrodomestico, libro) deve avere certe caratteristiche, e solo quelle; il tempo libero è apparentemente un rifugio privatissimo e inviolabile, rispetto ai tempi quotidiani scanditi dal lavoro, ma in realtà falciare il prato di casa, andare al cinema, cucinare per gli amici, sono soprattutto "prove di coerenza" nei confronti della sola "normalità sociale" accettata unanimemente; al supermercato l'acquirente s'illude di gestire totalmente la propria libertà, visto che può scegliere fra innumerevoli prodotti, senza avere il più remoto sospetto che il punto è ben altro: consumare (e desiderare di) sempre più, non importa se scegliendo A o B, che magari fanno capo al medesimo gruppo industriale (un meccanismo, peraltro, molto simile a quello della televisione); ci si può sposare con chiunque (entro certi limiti...), l'importante è che la cerimonia, indipendentemente dalla tipologia del rito religioso, ci sia, tributo collettivo alla "felicità" che la società dispensa a tutti.
Già, l'amore: cosa c'è di più "naturale"? Ma proprio questo sentimento privatissimo, apparentemente alieno da qualsiasi restrizione sociale, è, come tutte le altre azioni dell'uomo, in relazione diretta, intima, per così dire, con lo sviluppo dei rapporti di produzione e di scambio.
"Il rapporto immediato, naturale, necessario dell'uomo con l'uomo - scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (Einaudi, 1949, p. 120) - è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell'uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell'uomo con l'uomo, allo stesso modo che il rapporto con l'uomo è immediatamente il rapporto dell'uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. Così in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d'intuizione, sino a qual punto per l'uomo l'essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l'essenza umana dell'uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà a cui l'uomo è giunto."
Perché la storia dei rapporti tra i sessi è un capitolo della storia della proprietà privata e dell'alienazione umana. La donna, a cui è stato assegnato il compito di rappresentare la natura nella società basata sul dominio e sulla repressione della natura, è, nella sua apparente immediatezza, distantissima da ogni immediatezza: "il carattere femminile - scrive Adorno - è il calco, il negativo del dominio."
È venuta meno, o tende a divenire residuale, la servitù femminile tradizionale, fatta di pronta obbedienza e, addirittura di assenza di anima, perchè ciò non ha più senso nella gigantesca Disneyland produttiva e tecnologica: il ruolo della donna cambia non perché si siano imposti elementi reali di liberazione e autonomia, ma perché il parossistico sviluppo della spirale dei consumi richiede mobili lucidissimi, lingerie adeguate, cucine efficienti, corpi ipervitaminizzati.
Volete anche il job? Benissimo: si apra alla donna il tempio del lavoro, dell'attività intellettuale, delle armi, della decisione politica, e si ironizzi pure sul neoautoritarismo femminile, purché non si metta in discussione l'ordine matrimoniale: le amicizie più convenienti, l'indifferenza reciproca, l'intima incomprensione, e in generale, dice Adorno, "la non-identificazione", cioè il trattarsi vicendevolmente come oggetti, considerare l'altro come un dato "funzionale", oggettivo, della propria esistenza. "Per i borghesi la donna non sarà mai abbastanza femminile."
E l'emancipazione giuridica ed economica rafforza il quadro ideologico.
"Basti pensare allo standard femminile proclamato e diffuso dai film, dove la donna è ridotta al rango di un animale umano. Anche qui, la società di massa non fa che sciorinare al sole la verità della società borghese: ma la scomparsa di ogni mediazione ideologica (per non parlare della proiezione religiosa) tende ad eliminare l'ultimo contrasto di apparenza e realtà, ideologia e prassi, di cui si alimentava, con la mistificazione culturale, anche la critica e la rivolta. Mentre i giudici dei concorsi di bellezza prendono le misure dei seni e dei bacini, e sottopongono il giudizio di Paride alle ferree leggi della stereometria, moralisti zelanti, pensosi dei valori tradizionali, propongono di introdurre un sistema di punti dove si tenga conto anche della grazia, dell'intelligenza e del grado di cultura. (Il sistema della somma algebrica trova, del resto, altre applicazioni: i settimanali diretti al pubblico femminile contengono schedari a base di domande, compilati i quali, e addizionati i punti negativi e positivi, la lettrice saprà se deve abbandonare il fidanzato, o qual è il suo "tipo" ideale). Ma la bellezza è diventata, piu che mai, un mito. Belle sono le star, ma, appunto per questo, tutte le altre donne non lo sono. La bellezza, venerata nell'ideologia, è evitata, nella pratica, come la peste. Il correlato pratico della star è la mom [mammina]. Gli uomini parlano della bellezza di una donna in tono tra inquieto e divertito, misto di invidia e di scherno. Si dà per scontato che la bellezza, se invita all'ammirazione, esclude il rispetto. La massima volterriana, per cui l'amore non è che una debolezza, ha acquistato una portata universale. Ma nel disagio che suscita la bellezza, nella possibilità sempre presente della passione, vive il ricordo dell'utopia, il sospetto della mutilazione prodotta dall'Aufklärung [illuminismo]. È vero che la bellezza, prodotta e conservata artificialmente, diventa, via via che passano gli anni, sempre meno degna di rispetto. L'opera di Tolstoj è l'ultima in cui la donna che suscita la passione è ancora degna di suscitarla. Poi viene Proust, l'angelo azzurro, la tragedia di uomini come Pavese. Ma ciò che segue è molto peggio. Come la pin-up-girl prende il posto della donna fatale, la tentazione è neutralizzata per sempre." (3)
Un'ultima serie di brevi considerazioni su quello che probabilmente è stato l'oggetto di maggior interesse per le analisi di Adorno, l'arte di massa prodotta dall'industria culturale: va chiarito che Adorno ne ha studiato minuziosamente tutti i campi e le relative tecniche, essendo oltre a tutto un grande esperto di musica, e certo non gli si rende giustizia riconducendo un discorso così accurato a poche righe.
Intanto occorre sottolineare che Adorno era certo un profondo conoscitore degli aspetti strettamente tecnici, ma non era assolutamente un critico della tecnica, bensì un critico dell'economia.
Egli, come tutti i francofortesi, va "oltre" il marxismo, nel senso non di negarlo ma di usarlo insieme ad altri strumenti di indagine; non si tratta di semplice giustapposizione, o di passaggio da un attrezzo all'altro a seconda della bisogna, ma di intreccio profondo (e quindi terribilmente impegnativo: nota Solmi che "in questo, che è il suo merito, è anche la principale ragione della sua difficoltà") tra materialismo e psicologia, tra storia e sociologia: Adorno non considera la struttura economica come l'elemento costante contrapposto alla variabile costituita dalle singolarità psicologiche, così come apparato sociale e individuo non si dispongono ordinatamente uno accanto all'altro. Di qui nelle pagine di Adorno "i trapassi bruschi, e a prima vista sconcertanti, dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo, e viceversa; e quello che potrebbe sembrare, ma non è, un linguaggio metaforico e suggestivo." Ma è proprio qui che il debito verso Adorno resta enorme: pochi come lui sono stati in grado di svelare le relazioni più nascoste tra le varie sfere della vita, facendo emergere il segno comune dell'alienazione che permea tutto l'esistente. Se in nessun paese come negli Stati Uniti certi processi si sono sviluppati in modo così robusto e veloce, ciò non è dovuto a qualche speciale caratteristica "americana", anche se il bisogno di essere sempre rassicurati fa sì che gli americani sentano come assolutamente propri certi stili di vita (fino all'estremo: vaglielo a spiegare che la pizza non è un tipico piatto made in USA); anzi, paesi europei o asiatici in nulla affini agli Stati Uniti potranno ancora più facilmente assimilare atteggiamenti e bisogni provenienti da laggiù, analogamente a ciò che avviene per lo sviluppo economico: come ha acutamente analizzato lo storico Alexander Gerschenkron comparando il processo di industrializzazione di paesi diversi: lo sviluppo dei paesi arretrati, ad esempio, "appare non già come una serie di pure e semplici ripetizioni della 'prima' industrializzazione, bensì come un sistema coerente di deviazioni più o meno accentuate da quella." (4)
E ormai da decenni si è avuto conferma - tanto da diventare un luogo comune, appunto - di come abitudini e consumi tipicamente americani si siano "naturalmente" radicati in culture di matrice totalmente diversa.
Ciò è possibile sia per la pervasività dei "monopoli" (oggi la terminologia è cambiata, e parliamo di "multinazionali", "globalizzazione", ecc.), che esportano violentemente bisogni e prodotti, sia per le risorse culturali che alle aziende vengono fornite dagli intellettuali. Preso atto della scomparsa di qualsiasi ipotesi di "innocenza" della cultura, l'intellettuale novecentesco è sempre in bilico fra moralismo e pragmatismo: nel primo caso le università possono essere degli ottimi rifugi in cui esercitare, spesso del tutto sterilmente, "scrupolo filologico" o "coerenza formale"; chi, invece, si sente immune da questa ingenuità (che anzi disprezza), e quindi in qualche modo si sente superiore agli eterni moralisti, finge di mediare tra il proprio sapere ed il cinismo dei processi di produzione, oppure si mette direttamente al servizio dell'industria in qualità di consigliere, tecnico, e così via. In entrambi i casi si tratta di una capitolazione tanto più disonorevole quanto, viceversa, vorrebbe essere "tattica." Il solito patto col diavolo, insomma.
Nascono così i fabbricanti di miti, i guru della comunicazione, i teorici della "frivolezza" (per usare un termine particolarmente caro a Lukàcs), spietati nei confronti di un pubblico che considerano imbelle, e quindi meritevole di ogni bassezza, a fronte di un potere economico che pure disprezzano ma a cui almeno riconoscono autonomia e lungimiranza.
In questo senso sono esemplari le nuove frontiere della televisione (reality show) e della comunicazione (sms), che Adorno ha avuto il privilegio di non conoscere, ma di cui, per primo, aveva intuito le formidabili potenzialità.

In conclusione possiamo notare come in Adorno il tradizionale nesso marxiano tra dialettica e certezza (lo storicismo secondo il quale il riscatto dell'umanità è "inevitabile") tenda a far posto a quello fra dialettica e speranza: la coscienza di classe che si fa prassi resta un punto centrale, ma gli ostacoli a che tale coscienza si esprima pienamente, con intima e libera consapevolezza, sono tali che un pessimismo pungente e mai rassegnato è indispensabile.
Ben lungi dal cadere nella metafisica o nell'agnosticismo ideologico, Adorno si discosta sensibilmente da alcune categorie marxiane (lo sviluppo della storia, in primo luogo) ma tutto il suo discorso si aggira internamente al marxismo.

NOTE

(1) Thomas Mann, Romanzo di un romanzo, Mondadori, 1952, p. 53; in questo libro Mann rivelerà che proprio Adorno fu "il consigliere segreto" del romanzo che stava scrivendo in quel periodo, Doctor Faustus
(2) Naturalmente per Illuminismo qui non s'intende una particolare epoca storica, bensì un atteggiamento: la tendenza dell'uomo a dominare e a trasformare la natura in base ai propri fini e bisogni. Il fatto che questo tentativo sia destinato sostanzialmente a fallire e a rovesciarsi nel suo contrario, cioè nell'infelicità e nel dominio dell'uomo sull'uomo, porta l'elaborazione di Adorno ad un approdo radicalmente pessimistico sulla civiltà e la storia del mondo, in ciò attirandosi le critiche feroci del marxismo ortodosso (e ottuso)
(3) Renato Solmi, Introduzione a: Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, 1974, p. XXXII
(4) Alexander Gerschenkron, Il problema storico dell'arretratezza economica, Einaudi, 1965, p. 44

Minima Moralia

mARX

Così Cesare Cases: "Adorno non nutriva speranze messianiche verso l'Urss ed era, al tempo stesso, ferocemente critico nei confronti della società di massa capitalista americana. Per queste ragioni i Minima moralia si è proposto come il vero libro del '900: un'opera che - mentre stava arrivando anche in Italia la società dei consumi di tipo americano - non poteva non affascinare quanti a sinistra rifiutavano quel modello ma si sentivano altrettanto lontani dall'elogio del comunismo sovietico espresso da altri filosofi come Gyorgy Lukàcs. Quelle massime a tesi, molto corte, offrivano al pubblico un nuovo modo di filosofare (i pensieri di Nietzsche erano più elaborati): in ogni aforisma è tutto un mondo a venire riproposto. E con grande leggerezza". Un modo di comunicare che, sul finire degli anni Cinquanta, colpì uno dei nostri scrittori più raffinati e attenti al pensiero di Adorno.

E Alberto Arbasino: "Questa filosofia espressa in forma frammentaria non poteva non avere un forte impatto su una cultura che non aveva ancora scoperto Lo Zibaldone di Leopardi. Poi sarebbero venuti Benjamin ed Enzensberger, ma allora i saggisti ignoravano quel modo rapido di comunicare, col titolino ammiccante che poteva essere una citazione da Goethe o da una fiaba popolare, da una canzonetta, dalla pubblicità (tipo "agitare prima dell'uso") o dalla segnaletica (tipo "senso unico" o "lavori in corso"). Adorno insegnava un nuovo modo di procedere nella saggistica".

Günther Grass: "Non mi ricordo più la data in cui lo lessi per la prima volta. So soltanto che quella famosa frase "scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro" mi ha impressionato. Non si poteva non sentire o non vedere la parola di Adorno. Era una specie di segno premonitore e un criterio, ed era corretto in quanto uno scritto dopo Auschwitz doveva sempre includere la conoscenza degli eventi di Auschwitz e le loro conseguenze. A quella frase famosa ho dato il significato di un segnale di pericolo, non di divieto. Questo ha influenzato molto il mio scrivere. Era qualche cosa che nessun altro aveva formulato così chiaramente - in modo esagerato, altrimenti non avrebbe avuto nessun effetto. Ho incontrato Adorno una volta o due: era un uomo brillante, anche vanitoso in modo divertente. L'ultima volta che lo vidi, è stato in occasione della Fiera del Libro nel 1968: allora fu fatto a pezzi dai suoi stessi seguaci, davanti a un pubblico studentesco urlante. Se ricordo bene, Habermas ed io siamo stati gli unici a opporci. È stato vergognoso vedere come questa persona anziana sia stata derisa, con odio. Dopo quel vergognoso incidente a Francoforte, ho avuto un breve scambio epistolare con Adorno: è stato poco prima della sua morte. Non ho capito come abbia potuto esporsi a tutto questo per poi ridursi infine al silenzio. Qui inizia però la mia critica: la sua magnifica struttura teorica, che non voglio sottovalutare, nutriva un certo timore nei confronti della realtà. Certo, forse una parte delle accuse degli studenti deriva anche dal fatto che la teoria era in un certo modo lontana dalla realtà. Infatti un'alternativa democratica compariva chiaramente all'orizzonte dal 1969 e ciò si delineava già prima con il sorgere della nuova politica, che un Willy Brandt aveva già professato quando era ancora sindaco in carica di Berlino. Ma sussisteva in tutta la Scuola di Francoforte un certo timore di avvicinarsi troppo alla politica quotidiana. Indipendentemente dal fatto che la famosa frase di Adorno sulla cultura dopo Auschwitz ha avuto un grande effetto su di me, posso dire, per quanto concerne il mio sviluppo personale, che dopo la mia formazione professionale, grafica, scultura, pittura, tutto il mio interesse era rivolto verso l'arte e che ho fatto tremende acrobazie per evitare quei temi che mi opprimevano. Fino al momento in cui non c'è stata più alcuna scusa e mi sono confrontato con questa tematica che fino a oggi non mi ha più abbandonato. La sua critica all'illuminismo voleva dire, e vuol dire, non rompere la brocca, perché ha una crepa, ma tentare di rivedere l'illuminismo con i mezzi dell'illuminismo: così almeno io ho inteso Adorno. Anche questo in completa contraddizione con gli sviluppi successivi, in cui si pensava di dover prendere definitivamente congedo dall'illuminismo."

  • Auschwitz inizia ogni volta che si guarda un mattatoio e si dice: sono soltanto animali.
  • Anche l'uomo più miserabile è in grado di scoprire le debolezze del più degno, anche il più stupido è in grado di scoprire gli errori del più saggio.
  • Basta che Stalin si schiarisca la gola perché essi gettino Kafka nella spazzatura.
  • C'è un criterio quasi infallibile per stabilire se un altro ti è veramente amico: il modo in cui riporta giudizi ostili o scortesi sulla tua persona. Questi ragguagli sono, per lo più, superflui, pretesti per lasciar trapelare la malevolenza senza assumere la responsabilità, anzi in nome del bene.
  • Comunque agisca l'intellettuale, sbaglia.
  • Con la famiglia - perdurando il sistema - è scomparso non solo l'organo più efficiente della borghesia, ma la resistenza che, se opprimeva l'individuo, d'altro canto lo rafforzava, o addirittura lo produceva. La fine della famiglia paralizza le controforze. L'ordine collettivistico nascente è una tragica parodia di quello senza classi: e col borghese liquida l'utopia che si nutriva dell'amore della madre.
  • Il compito attuale dell'arte è di introdurre caos nell'ordine.
  • L'amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile.
  • L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.
  • L'insetticida, che sin dall'inizio tende implicitamente al campo di sterminio, diventa il prodotto finale del dominio dell'uomo sulla natura, dominio che liquida se stesso. (da Note per la letteratura, 1943 – 1961 – Einaudi)
  • L'irrazionalità della società borghese nella sua fase più tarda è restia a farsi comprendere: erano ancora bei tempi quelli in cui si poteva scrivere una critica dell'economia di questa società, cogliendola pienamente nella ratio a lei propria. Perché la società ha ormai gettata questa ratio tra i ferri vecchi sostituendola virtualmente con una disponibilità immediata su ogni cosa. (da Note per la letteratura, 1943 – 1961)
  • L'intelligenza è una categoria morale.
  • L'umano è nell'imitazione; un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini.
  • La comunicazione, legge universale della convenzione, annuncia che non è più possibile alcuna comunicazione. (da Note per la letteratura, 1943 – 1961)
  • La decadenza del dono si specchia nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo.
  • La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.
  • La vera felicità del dono è tutta nell'immaginazione della felicità del destinatario.
  • Le vere riflessioni sono le sole a non essere in grado di comprendere se stesse.
  • Nella psicanalisi nulla è vero tranne le esagerazioni.
  • Nei migliori dei casi uno regala quello che gli piacerebbe per sé, ma di qualità lievemente inferiore.
  • Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze.
  • Occorre rivedere continuamente tutto ciò che ha l'apparenza di una certezza.
  • Ogni satira è cieca verso le forze che si liberano nello sfacelo.
  • Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio.
  • Quel che temiamo più di ogni cosa, ha una proterva tendenza a succedere realmente.
  • Un tedesco è colui il quale non può dire una bugia senza crederci.
  • Le orecchie non hanno palpebre.