Paolo Spriano

Una nuova strategia per il partito e la classe operaia


Gramsci, uomo di punta dell'antifascismo, a partire dalla crisi Matteotti (giugno 1924) e Gramsci capo del Pcd'I, suo « segretario generale » (viene eletto tale dal Comitato centrale nell'agosto, anche se - per ragioni cospirative - la nomina sua, come quella dei membri del nuovo Esecutivo, non vengono rese pubbliche) non si confondono bensì si fondono. Il suo destino di combattente (nelle grandi sconfitte del movimento del primo dopoguerra) è anche il suo titolo di costruttore. La continuità è trasparente in tutto il decennio di milizia effettiva dal 1916 all'arresto del novembre del 1926.
Il partito è ancora, nel 1924-25, largamente bordighiano nei quadri intermedi e nella base (assai ridotta nel 1923; più ampia, circa ventimila iscritti, nel 1924) e Gramsci lo conquista, nel Comitato centrale e nelle organizzazioni periferiche, non soltanto perché (ma anche ciò ha la sua importanza) lo pone di fronte alla scelta tra la linea dell'Internazionale comunista e quella di Bordiga, ma in primo luogo facendo sua quella « linea » (al quinto Congresso del Pcd'I si precisa la parola d'ordine generale di « un governo operaio e contadino »), riempiendola di concretezza politica.
In un certo senso, è vero che solo ora il partito comincia a « fare politica », a colmare il distacco tra l'ideologia e la realtà, tra l'organizzazione e l'azione. Gramsci è convinto che il partito, sino ad allora, « era rimasto come un qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé », nell'illusione « che le masse lo raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell'onda rivoluzionaria giunga sino alla sua altezza oppure quando il centro del Partito ritenga di dover iniziare un'offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all'azione ».
Ora le cose premono: il fascismo è in crisi per il delitto Matteotti. Un'ondata di sdegno sale dal paese, le opposizioni si muovono, Mussolini pare perdere la testa sotto la pressione di una generale condanna morale, i deputati antifascisti abbandonano Montecitorio, « salgono sull'Aventino ». Gramsci non esita a battersi con un'intuizione essenziale, che è insieme un'accorta indicazione tattica e una profonda acquisizione di metodo rivoluzionario. A nome dei comunisti propone ai gruppi dell'Aventino, al Comitato delle opposizioni, di costituirsi in Antiparlamento, di instaurare davvero un dualismo di potere (emanando leggi in contrasto con quelle del governo) che costringa il re a cacciare Mussolini e che apra la strada a una riscossa popolare unitaria.
Sono le masse che devono decidere della partita, bisogna arrivare a uno sciopero generale antifascista.

« II compito essenziale del nostro Partito - scrive ancora nel settembre del 1924 - consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice; la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propaganda, di organizzazione ».

Il 1924-26 è il periodo in cui si raccolgono, e si sperimentano, dinanzi alla nuova realtà, le esperienze che Gramsci aveva accumulato nel 1919-21. Liberarsi dell'estremismo infantile, ha come passaggio obbligato l'obiettivo di ritrovare un contatto diretto con la classe operaia che non dimentichi la sua funzione decisiva. La « bolscevizzazione », l'organizzazione per cellule, la spinta al « lavoro sindacale » e a quello « agrario » non sono se non aspetti diversi di un'unica, permanente ricerca: quella delle « forze motrici » della rivoluzione italiana, di una « educazione » del partito a riconoscerle e a metterle in moto.

Lione: si afferma una strategia nuova

La fondazione dell'« Unità » nel 1924, la rinascita di una serie dell'« Ordine Nuovo », quindicinale, a Roma, in cui l'aspetto di studio diviene prevalente, esprimono quest'ansia di una costruzione « a lunga scadenza ». E tutto l'interesse nuovo portato alla « questione meridionale » fino al saggio che porta quel nome, in cui si prospetta come chiave rivoluzionaria l'alleanza tra i contadini poveri del Mezzogiorno e il proletariato urbano del Nord rappresenta anche il punto più alto di elaborazione raggiunta dalla nuova direzione di Gramsci, che con Togliatti prepara le Tesi del terzo Congresso del Pci, radunatosi a Lione, nel gennaio 1926.
Lione sancisce la vittoria di Gramsci (con lui si schiera il novanta per cento dei delegati) e più ancora, l'affermazione di una strategia, di una prospettiva nuova per il partito, nell quali il tema delle alleanze della classe operaia ha ormai un posto centrale.
Si sa come si conclude la crisi sopravvenuta al delitto Matteotti, dal 3 gennaio 1925. Mussolini riesce a restare in sella, ancora una volta protetto dalla Corona, sorretto dallo squadrismo, aiutato dall'apparato statale, battendo le opposizioni incerte e divise, colpendo gli oppositori singoli più irriducibili come Amendola e Gobetti. I comunisti, nonostante siano ripiombati nella pressoché totale clandestinità, sono anch'essi sorpresi dalla rinnovata repressione che ormai ha il crisma di decreti reali.
La sorpresa è anzitutto politica. I comunisti, dal congresso di Lione in poi, hanno continuato a parlare di fase preparatoria di una nuova situazione rivoluzionaria. Sopravvalutano le divisioni interne al fascismo e le difficoltà economiche del paese, hanno ipotizzato la possibilità che si passi a un governo di coalizione « democratico ».

La debolezza dello schieramento antifascista

La debolezza di legami effettivi con le masse e lo sgretolamento di tutto lo schieramento antifascista contribuiscono a un isolamento che precede la repressione più aspra. Pare, a questo punto, che tutto congiuri a fare cadere Gramsci, come gran parte del gruppo dirigente del Partito comunista, nelle mani del nemico. C'è persino una sua riserva morale: non gli pare giusto mettersi in salvo lasciando il terreno di battaglia nel momento della maggiore prova. Sarà Gramsci stesso che in carcere tornerà su questo stato d'animo ricordando come il capitano non deve abbandonare la nave che per ultimo quando essa fa naufragio, che l'esempio che questi può dare in tali circostanze è doppiamente importante.
In ogni caso, la congiura delle cose e degli stati d'animo, la sorpresa dinanzi al passaggio del fascismo a regime, la riluttanza personale a predisporre un sistema rigoroso di « passaggio all'illegalità » innanzitutto per sé, si esprimono anche in dati di fatto e di tempo concreti. Sin dal settembre si decide che Gramsci dovrà porsi in salvo all'estero, ma da un lato non si prendono tutte le misure necessario per sottrarlo alla possibile cattura e dall'altro, la data della partenza è rinviata per la dilazione che ha subito la convocazione di una riunione internazionale a Mosca.
Gli è che siamo, coll'autunno del 1926, a un punto critico della lotta interna al Partito bolscevico, tra la maggioranza staliniana-buchariniana e le opposizioni: Gramsci paventa l'acutizzarsi di quella tensione, gli effetti di una profonda spaccatura nel gruppo dirigente, nello stato maggiore rivoluzionario degli eredi di Lenin. E invia a Togliatti, rappresentante nel 1926 del Partito comunista italiano a Mosca, una lettera destinata al Comitato centrale del Partito russo in cui assume una posizione di principio importante.

La lettera inviata a Togliatti

Sebbene dichiari giusta la linea della maggioranza, Gramsci mette in guardia contro un furore di lotta intestina che ha come rischio l'annullamento della funzione dirigente del Partito russo su scala internazionale, funzione legata alla sua unità di indirizzo e alla compattezza di quello « Stato maggiore ». Non solo, « Ci pare - scrive Gramsci ai compagni sovietici che la passione violenta delle questioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle questioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale ».
Togliatti non è d'accordo con una presa di posizione che egli considera un aiuto fornito alle opposizioni. Per lui, le questioni di metodo sono superate, è la scelta politica di fondo che bisogna mettere in primo piano: o con Stalin e la maggioranza, o con Trockij, Zinov'ev e Kamenev. Gramsci replica ancora: siamo al 26 ottobre del 1926, due settimane prima dell'arresto. Rimprovera a Togliatti di non avere capito che la lettera inviata al CC del Partito russo era « tutta una requisitoria contro le opposizioni ». Queste ultime per Gramsci rappresentano « tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico ». Ed è un tratto essenziale dell'ottica gramsciana, che egli svilupperà nelle note del carcere: la sostanza della sua critica a Trockij, ad esempio, nonché il punto di partenza delle riflessioni sulla necessità che la classe operaia sappia passare dalla fase « economico-corporativa » a quella egemonica, in primo luogo nei confronti del mondo contadino. Ma Gramsci non tiene perciò meno fermo il punto ribadito nel documento inviato precedentemente:

La questione dell'unità, non solo del Partito russo ma anche del nucleo leninista, è un questione della massima importanza nel campo internazionale; è dal punto di vista di massa, la questione più importante in questo periodo storico di intensificato processo contraddittorio verso l'unità.

La posizione critica dei comunisti italiani provoca a Mosca non soltanto perplessità ma preoccupazioni. Parte dal centro dell'Internazionale uno dei suoi segretari, lo svizzero Jules Humber tDroz per giungere in Italia a discutere con i dirigenti del Pcd'l. La riunione clandestina si dovrebbe tenere nei pressi di Genova e Gramsci, proprio per questo resta in Italia: vuole parteciparvi assolutamente. Ma sono i giorni dell'immediata vigilia delle « leggi eccezionali » seguite allo strano, fallito attentato a Mussolini di Bologna (31 ottobre) che offrirà al dittatore il pretesto per sopprimere tutte le libertà. Gramsci cerca di raggiungere Genova ma la polizia, che ne segue ogni passo, lo blocca a Milano ed egli è costretto a tornare a Roma, nella stanza affittata come deputato. Ogni tentativo ulteriore, del resto mal organizzato, di sottrarlo alla sorveglianza continua fallisce e arriva l'arresto, la sera dell'8 novembre 1926. Gramsci ritrova in carcere alcuni dei suoi più intimi collaboratori, da Scoccimarro a Terracini.

La lunga ed estenuante « traduzione ordinaria »

Comincia il suo viaggio da una prigione all'altra. Prima è ristretto a Regina Coeli, poi, alla fine di novembre, con varie soste nei carceri di Napoli e di Palermo, è spedito al confino di Ustica. È una pausa quasi serena. Gramsci con Bordiga - i rapporti tra i due sono più che cordiali, affettuosi- fa un corso di lezioni ai compagni arrestati e confinati nell'isola. Ma la pausa è molto breve. Il tribunale militare di Milano spicca mandato di cattura contro Gramsci, proprio mentre, dal 1° febbraio, comincia a funzionare il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Dal 20 gennaio, ammanettato, in « traduzione ordinaria », il detenuto deve compiere un allucinante viaggio che dura diciannove giorni, sostando nelle celle dei carceri e nelle caserme di Palermo, Napoli, Cajanello, Isernia, Sulmona, Castellamare Adriatica, Ancona, Bologna. Giunge stremato a Milano, nelle carceri di San Vittore, il 7 febbraio 1927 e vi resterà sino al maggio del 1928: tanto dura l'istruttoria condotta dal giudice Macis.
Contro lui e gli altri dirigenti arrestati si va allestendo quello che passerà alla storia come il « processone » dei comunisti, poi celebrato a Roma dal Tribunale speciale nel giugno del 1928.
Le condanne sono pesantissime; Gramsci, indicato dal pubblico ministero come l'uomo « che dirige con mano sicura il partito », come « l'anima di tutto il movimento », « uno dei più sentiti dalle folle », deve essere messo in condizione di non nuocere più al regime. Il suo cervello politico deve cessare di funzionare almeno per vent'anni. Il pubblico ministero, nonostante che la qualifica di segretario del partito non emerga dai documenti ufficiali né dalle cronache, non si sbaglia. Gramsci è il capo: o meglio, in un gruppo dirigente assai ristretto che lavora molto collettivamente l'autorità di Gramsci si fonda più che su funzioni di guida operativa oppure su un'immagine pubblica diffusa, sulla sua azione di ispiratore e di costruttore.
Va tenuto presente questo carattere specifico del ruolo svolto da Gramsci nel 1924-26. I dirigenti nell'emigrazione lo sottolineano, nel momento stesso in cui lanciano il primo grido d'allarme sulla salute del detenuto.
Togliatti afferma solennemente nel 1927: La storia del nostro Partito è ancora da scrivere. Chi la scriverà e saprà cogliere, al di sopra delle particolari vicende politiche e organizzative, la grande linea della formazione storica di esso come avanguardia della classe operaia, dovrà dare ad Antonio Gramsci il posto d'onore.