Paolo Spriano

L'Ordine Nuovo e la fondazione del Partito Comunista


Dal « Grido del popolo » l'opera di educazione si riverserà e si amplierà, col 1919, nell'«Ordine Nuovo». I tempi sono divenuti ancora più turbinosi. Dalle rovine e dai lutti della guerra, un'« ardente vita », di speranze, di propositi, di manifestazioni, nell'attesa imminente di « fare come in Russia », si sprigiona per l'Europa dei popoli; i clamori della rivoluzione si espandono da Pietroburgo a Berlino, da Budapest a Vienna. Il « biennio rosso » del primo dopoguerra comincia nella certezza d'un immancabile arroyesciamento sociale.
« L'Ordine Nuovo » non è dapprima che una goccia nel grande mare della propaganda socialista. Una rivista settimanale di giovani in cui si danno convegno, col maggio del 1919, Gramsci e i suoi coetanei tornati dalla guerra: Togliatti, il cui legame di collaborazione intellettuale col'ex com­pagno di scuola sì è già intensificato nel 1917, Tasca, che ha trovato il denaro per varare il progetto ed è il più noto e popolare nell'ambiente socialista della città, e un altro, giovanissimo, Umberto Terracini, che rivelerà la stoffa del dirigente politico, dell'oratore tagliente ed efficace, uno dei migliori della Federazione giovanile. A Torino le condizioni dello sviluppo del movimento sono tra le più favorevoli: centpcinquanta-duecentomila operai di fabbrica, l' « Avanti! » trasformatosi in un'edizione regionale con una tiratura quotidiana di cinquantamila copie, l'Alleanza Cooperativa Torinese che è una vera potenza e un modello dell'associazionismo operaio, sindacati di classe robusti il cui potere di contrattazione aumenta di giorno in giorno.

« Rassegna di cultura socialista », porta per sottotitolo « L'Ordine Nuovo », ma esso diventa qualcosa di diverso dai fogli piccoli e grandi, che pullulano nella penisola soltanto quando passa da questo stadio di rassegna culturale a quello di palestra, di strumento di discussione e di lancio, di una grande idea-forza, quella dei consigli di fabbrica. È un'idea che Gramsci e i suoi ricavano da tutta l'esperienza russa ed europea dei Soviet e di consimili organismi operai autonomi, e trasferiscono nel vivo del « laboratorio sociale » dei grandi stabilimenti della città dell'automobile. Siamo tra l'estate e l'autunno del 1919. Gramsci dispiega ora un'attività instancabile, certo il periodo più esaltante, forse il periodo più felice della sua vita. La rivista ha come sede poco più di uno sgabuzzino di pochi metri quadrati nei locali di via Arcivescovado dell'« Avanti! » piemontese, di cui i suoi artefici sono redattori. Qui si fanno piccole, intense riunioni che poi si trasferiscono tra le commissioni interne delle officine; qui Gramsci riceve gli operai, chiunque abbia da sottoporgli un problema, una proposta o un consiglio da chiedere. « L'orso » non è diventato un tribuno, non lo diventerà mai, non ha nulla del cliché tradizionale del capo socialista. Preferisce alle grandi assemblee e ai comizi questi contatti personali, e in essi è meticoloso, curioso di ogni particolare, tanto fraterno e generoso quanto è ironico addirittura sarcastico, severo, con i suoi collaboratori abituali da cui esige sempre la massima attenzione e precisione. Gramsci ritiene del leninismo e della lezione bolscevica la convinzione che sono necessarie « nuove creazioni rivoluzionarie » che affondino le radici nel momento della produzione, che partano dal luogo di produzione e formino nuovi istituti proletari, espressione di un « ordine nuovo » da contrapporre al vecchio, primi pilastri della costruzione di una macchina statale che sostituisca la vecchia macchina dello Stato borghese. La fabbrica è il « territorio nazionale » dell'autogoverno operaio, è la naturale sede della democrazia di classe, del lavoratore non soltanto salariato ma produttore.

L'idea-forza dei Consigli di fabbrica

Così, la rivista imposta il problema della trasformazione delle vecchie commissioni interne, che hanno caratteri ancora largamente burocratici, e sono una semplice appendice del sindacato, in organismi eletti da tutta la maestranza, reparto per reparto, per unità di lavoro. I commissari di reparto esprimono a loro volta il Comitato esecutivo o nuova commissione interna, la cui rappresentatività effettiva della massa è enormemente accresciuta e le cui mansioni già fissano in prospettiva un terreno di scontro sul luogo di produzione tra due poteri: quello padronale e quello dei lavoratori. In pochi mesi l'idea-forza si realizza in decine di stabilimenti metallurgici dalla Fiat alla Diatto, dalla Savigliano alla Lancia. Più di centocinquantamila operai sono organizzati dai consigli di fabbrica all'inizio del 1920.
Il  movimento  ha  una   sua  carica antiburocratica vivissima, che si indirizza, d'un canto, a rinnovare l'atmosfera del sindacato, della Camera del Lavoro, a togliere ogni remora corporativistica alle rivendicazioni generali, e, dall'altro, ad estendere, attraverso un contatto diretto con la classe, i legami esili della sezione socialista (cinquecento iscritti, per lo più) col mondo del lavoro. È una trasformazione profonda che forse avrebbe bisogno di un tempo adeguato per irradiarsi maggiormente, per divenire un fenomeno politico in grado di mutare la situazione generale.
Ma il tempo non c'è, la tensione sociale nel paese è tale che urgono scelte di fondo a cui il movimento è impari, a Torino come altrove. Se il 1919 ha visto il Partito socialista logorare le sue forze, e quelle delle masse, in un fraseologia barricadiera senza seguito nell'azione, dilapidare un patrimonio di energie nell'inerte attesa che le cose, il loro fatale evolversi, consegnino il potere nelle mani della classe operaia (grandi scioperi si succedono senza prospettiva, le « occasioni rivoluzionarie » dell'estate e del dicembre passano non colte dalle dirigenze che si limitano a organizzare le elezioni in cui le liste socialiste hanno un grande successo e mandano centocinquantasei deputati alla Camera), il gruppo « ordinovista » è, in un certo senso, un'isola.

Inizia l'occupazione delle fabbriche

Tutto intento al momento costruttivo del nuovo sistema dei consigli, Gramsci con Togliatti e Terracini (Tasca si va lentamente distaccando da loro) conduce una polemica che ha un senso vitale ma anche un limite strettissimo. Egli difende, contro gli attacchi che gli vengono mossi da destra e da sinistra, il suo concetto di una rivoluzione di cui debbono essere protagoniste le masse, organizzate in una nuova rete istitutiva, nega che la « dittatura del proletariato » possa ridursi in una dittatura di partito, si differenzia sia dagli anarchici sia, aspramente, dai riformisti. Ma il gruppo, nel suo insieme, non si avvede che nella posizione di Bordiga e dei suoi amici c'è qualcosa di giusto: l'insistenza a richiamare il carattere peculiare, urgente, che ha il problema del partito, come forma massima di direzione del movimento. In un partito così immobile, tra velleità massimalistiche e remore riformistiche, come si potrà operare un avvio rivoluzionario? « L'Ordine Nuovo » non ha una linea definita per più di un anno sul tema, non costituisce una frazione sua né nel partito né nel sindacato. Il movimento consiliare si arresta alle porte di Torino, anche se le sue idee penetrano un po' dovunque, persino fuori d'Italia.
E la borghesia imprenditrice torinese non attende senza reagire che il potere nelle sue fabbriche venga assunto dagli operai. È essa a dare battaglia nell'aprile del 1920, proclamando la serrata degli stabilimenti, impegnando l'avversario in una lotta logorante e senza uscita, poiché ai torinesi (tacciati di avventurismo, di anarcosindacalismo, di spirito « letterario » e aristocratico) viene a mancare la solidarietà attiva del Psi e della Cgl.
Gli operai metallurgici torinesi difendono le loro istituzioni con grande tenacia. Alla serrata replicano con uno sciopero di un mese, che diventa sciopero generale in città per dieci giorni. Ma sono costretti alla fine a cedere, con un compromesso che riduce notevolmente le loro conquiste. È un'esperienza cocente, è un richiamo brusco alle esigenze di porre in primo piano il problema di rinnovamento del Psi, a costo di una scissione interna (come da mesi vanno chiedendo Bordiga e il suo gruppo « astensionista »). Gramsci è restio a confondersi in una diatriba che gli pare troppo ristretta. È sempre « il lavoro tra le masse » quello che gli pare preminente, il lavoro di « educazione comunista ».
Nell'estate del 1920 due nuovi avvenimenti fanno precipitare la situazione. A Mosca e Pietroburgo si tiene in luglio il secondo Congresso dell'Internazionale comunista (il primo, in realtà). Lenin ha letto le tesi formulate da Gramsci per rinnovare il movimento operaio italiano e le approva, con grande stupore dei delegati italiani. Ma il punto decisivo è un altro: si invita perentoriamente il Psi a espellere dal suo seno i riformisti. Soltanto così esso potrà portare alla rivoluzione le masse. I massimalisti, con Serrati alla loro testa, non se la sentono di accettare la scissione. I riformisti hanno in mano gran parte del movimento effettivo, sindacale, amministrativo, cooperativo. Anche l'ideologia deterministica accomuna massimalisti e riformisti. E quando ancora alcuni dei maggiori dirigenti socialisti italiani sono in Russia, scoppia in Italia la lotta che deciderà storicamente della sconfitta della rivoluzione: l'occupazione delle fabbriche metallurgiche di tutta la penisola, che impegna più di mezzo milione di lavoratori, per un mese intero.

La battaglia de « L'Ordine Nuovo »

La tempesta è arrivata sul capo degli organizzatori sindacali senza che essi ne misurassero la gravità e le conseguenze, ne prevedessero gli sbocchi. Agli operai si è sempre detto che la prossima occasione sarebbe stata quella buona. Anche in questo caso, come nell'aprile, l'occasione dell'urto frontale è stata provocata dagli industriali decisi a farla finita e insofferenti della mediazione e della « arrendevolezza » del governo Giolitti. Alla serrata, operata a Milano, il sindacato metallurgico replica ordinando agli operai associati di occupare tutti gli stabilimenti del metallo nella penisola, continuando, asserragliatisi dentro, più o meno armati, a mandare avanti la produzione. È il mese di settembre del 1920. Vengono al pettine i nodi dell'insufficienza rivoluzionaria del Psi.
Gramsci è scettico e preoccupato, e lo ha scritto alla vigilia, sull'« Ordine Nuovo »: si sa dove si vuole arrivare? Vista dall'angolo visuale del gruppo ordinovista la pagina dell'occupazione delle fabbriche è, per così dire, ancora più drammatica. È vero che ovunque, e non soltanto a Torino, ma a Milano, a Genova, in Emilia, in Toscana, gli operai occupanti (il governo lascia fare: meglio nelle fabbriche che per le strade, pensa giustamente Giolitti) costituiscono consigli di fabbrica, esperimentano proprio quell'allenamento a funzioni direttive, quell'organizzazione autonoma, che è uno dei capisaldi della teoria gramsciana Ma una direzione generale del movimento manca. Passa la prima settimana di entusiasmo, passa la seconda, gli industriali non hanno nessuna intenzione di cedere (la vertenza era nata per una richiesta di aumento salariale).
La Confederazione del Lavoro è nelle mani dei riformisti che non chiedono se non di chiudere presto l'agitazione, tramite i buoni uffici di Giolitti e dei suoi prefetti. Un'organizzazione sindacale centrale basata sui consigli non esiste. Neppure esiste una frazione rivoluzionaria decisa nel Psi. Gli operai stessi sono divisi. Molti vorrebbero intensificare, estendere la lotta, gli episodi di forza e di aggressività sono innumerevoli. Ma il collegamento col mondo delle campagne è inesistente, la piccola borghesia è ormai ostile, lo Stato può contare sull'esercito. Se nel 1919 la crisi della « macchina statale borghese » era profonda e i ceti intermedi parevano chiedere una guida al proletariato per uscire da quella crisi, ora la situazione è mutata, il fronte si è ristretto. Si è perso troppo tempo. E la direzione massimalista del Psi si acconcia alla ritirata. La rivoluzione viene messa ai voti nel consiglio generale della Cgl e respinta dai funzionari: si troverà un compromesso onorevole sindacalmente (e Giolitti fatica a piegarvi gli imprenditori più « oltranzisti », come diremmo oggi), ma la spinta rivoluzionaria è bloccata, battuta; la sconfitta politica si rivelerà presto di proporzioni enormi: nelle masse all'euforia succede depressione, alla fiducia il disinganno.
Gramsci e i suoi compagni sono stati attivissimi in quel mese. Torino operaia ancora una volta è stata all'avanguardia.

Nell'autunno del 1920, mentre nella valle padana la reazione agraria si sta scatenando, arma le squadre fasciste (prima inesistenti, una sparuta minoranza), compie le prime gesta di violenza, incendia, ammazza, stronca le leghe bracciantili, il movimento socialista attraversa la sua crisi più grave come contraccolpo immediato della sconfitta del settembre. La lezione di quell'esperienza per Gramsci è duplice. D'un lato, egli trova una conferma alle proprie idee « consiliari »: quella è sempre la strada maestra da percorrere (e nessuno, neppure lui che pure aveva previsto lo scatenarsi della reazione « proprietaria », si avvede che i rapporti di forza sono ormai rovesciati a favore della vecchia classe dirigente e del suo nuovo « braccio punitivo »), Dall'altro lato, egli non può non dare ragione a Bordiga sul punto essenziale: basta con quel Partito socialista, basta con quel coacervo (« circo Barnum » egli lo chiamerà dopo) di correnti e forze contrastanti, ciascuna delle quali elide l'altra. Quel « basta » è lo stesso lanciato dall'Internazionale comunista, sin dal luglio. Così il processo di confluenza tra Bordiga e Gramsci è rapido tra l'ottobre del 1920 e il gennaio del 1921, nonostante tante diversità di ispirazione politica e teorica. Nasce la « frazione comunista », in cui, com'è naturale, prevale il gruppo bordighiano da tempo organizzatosi all'uopo nazionalmente, e da battaglia nel partito sulla linea decisa con l'Internazionale: scissione. Scissione dai riformisti, coi massimalisti se vorranno marciare, senza, se essi non si decideranno al « passo fatale ».

Nasce a Livorno il Partito comunista d'Italia

E la scissione avviene a Livorno, tra il 15 e il 21 gennaio del 1921, quando i rappresentanti di cinquantottomila socialisti della « frazione comunista » rompono gli indugi, si scindono dal grosso del partito (massimalisti e riformisti coesisteranno ancora, ma soltanto per un anno) e fondano il Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale comunista. Un processo analogo è avvenuto nel frattempo tra le file dei socialisti francesi e di quelli tedeschi. Senonché, il partito della rivoluzione nasce quando la situazione è talmente cambiata che persino la sua esistenza è messa in forse dall'assalto, ormai fattosi massiccio, dello squadrismo fascista. Il partito sorge in una tempesta di ferro e di fuoco, che squassa tutto il movimento operaio nel suo insieme, con un crescendo che si arresterà soltanto, e neppure del tutto, coll'ottobre del 1922, quando Mussolini andrà al potere e la vecchia classe dirigente affiderà a lui il compito politico ed economico di quella reazione che essa ha finanziato, protetto, aiutato più che tollerato.
Gramsci al congresso della scissione di Livorno non ha preso la parola. È stato eletto nel Comitato centrale, a lui è affidata la direzione dell'« Ordine Nuovo » trasformatosi in quotidiano, ereditando l'edizione piemontese dell'« Avanti ». Ma il capo del partito è Amadeo Bordiga, attivissimo, capace, che fa dell'intransigenza più netta un dogma, che ritiene compito primo del nuovo partito condurre a fondo la lotta contro il Psi: quello è un cadavere da cui sbarazzare la strada. I comunisti saranno poco più di quarantamila nel tremendo 1921, quando alle violenze squadriste si accompagnano licenziamenti in massa nelle fabbriche per la crisi economica, scoppiata anch'essa imprevista. La forza di resistenza della classe operaia è infranta di colpo, almeno apparentemente.
Come ci si organizza? Il Pcd'I pur con tutto il suo settarismo, il suo estremismo, è l'unico raggruppamento operaio che, dinanzi all'insorgere e allo svilupparsi della violenza squadrista, dia ai propri militanti la direttiva di rispondere colpo per colpo, violenza per violenza, che crei - purtroppo in parte solo sulla carta - tutto un apparato « illegale », un'organizzazione militare per far fronte alle squadre fasciste. I socialisti si mostrano assai più scossi dalla bufera: giungono persino a un assurdo patto di pacificazione con Mussolini, nell'estate del 1921, patto che i fascisti stracceranno per primi. Senonché, l'arrendevolezza e lo spirito di capitolazione del Psi trova nel Pcdi soltanto una risposta polemica sterile. Quando, qua e là, più o meno spontaneamente, vari gruppi proletari danno vita all'associazione degli « Arditi del popolo », la direzione del Pcdi vieta ai suoi membri di farvi parte. Tutta la resistenza armata deve essere su basi di partito.
La prospettiva politica che guida il gruppo dirigente (Terracini è ora stretto collaboratore di Bordiga, Togliatti lo va diventando quando passa a dirigere nell'ottobre del 1921 il quotidiano « il Comunista » a Roma) è imperniata su un errore esiziale e poco conta che anche il resto della sinistra operaia e democratica non veda chiaro e vada anch'essa a precipizio in ordine sparso verso la comune sconfitta. Il Pcd'I è convinto che un colpo di stato fascista non ci sarà. Semmai, lo sviluppo del fascismo si concluderà con un compromesso istituzionale, e, dopo essere servito a stroncare la classe operaia, esso lascerà il campo a una soluzione « socialdemocratica ». Bordiga e gli altri si augurano tale approdo. La lezione servirà ai lavoratori perché il socialismo italiano venga finalmente smascherato come « forza controrivoluzionaria », farà chiarezza, consentirà all'avanguardia comunista di raggruppare sotto le sue bandiere tutte le energie veramente rivoluzionarie quando (come pensano anche tanti altri) la reazione si esaurirà e si tornerà al gioco politico precedente.
Alcuni anni dopo, Gramsci dirà che anche tale atteggiamento dei comunisti non era se non una forma di massimalismo, un residuo di quella componente tipica del movimento italiano che essi intendevano negare e superare. Ma nel 1921-22 anche nelle sue prese di posizione troviamo largamente rispecchiata una mentalità settaria, che, del resto, è in gran parte un passaggio obbligato e un elemento di coesione interna mentre si è sotto i colpi del nemico. Gramsci fa, per la verità, un po' parte per se stesso. È difficile collocarlo esattamente in una gerarchla che si concepisca con l'esperienza successiva. L'uomo non è ancora molto noto nel partito. Il suo prestigio intellettuale, la sua autorità morale sono notevoli, diremmo anzi grandi presso quei compagni - ma quanti sono? - che hanno lavorato con lui. La sua penna tagliente incute rispetto agli avversari e ammirazione nei lettori dell'« Ordine Nuovo », il giornale a cui egli dedica tutto il suo tempo. Ma il centro del partito è dominato dalla personalità di Bordiga e, del resto, Gramsci non è secondo a quegli nell'invettiva verso i « cugini » socialisti, introducendo anzi nella pubblicistica politica un nuovo stile che del sarcasmo fa un'arma poderosa, anche bizzarra, estrosa nell'invenzione di termini, iperboli, macchiette, apologhi coloritissimi.

Il contrasto tra il Pcd'I e l'Internazionale

L'originalità di Gramsci in questo periodo la cogliamo però piuttosto in una serie di spunti, di accenni, di preoccupazioni, di « distinguo » che potrebbero (se egli volesse - e non vuole - trasformarli in occasioni di lotta politica interna) costituire una piattaforma diversa per il partito intero. Rispetto al fascismo, in primo luogo. Gramsci, ad esempio, è propenso a vedere nella formazione degli « Arditi del popolo » uno strumento importante di lotta al fascismo, ma si acconcia poi al veto del centro.
E sulla dinamica del movimento mussoliniano egli è assai meno superficiale degli altri. La natura reazionaria di quel movimento è fuori discussione. Senonché Gramsci è attento a vederne le componenti diverse (quella agraria, la più tipicamente conservatrice, e quella urbana-piccolo borghese) ad analizzarne uno sviluppo « autonomo » (non tale, cioè, da venir regolato a bacchetta dai grandi committenti del capitalismo italiano), a coglierne le divisioni interne. E sa che ci si deve muovere cercando di approfondirle (egli tenta persine un abboccamento con D'Annunzio) prima che sia troppo tardi. Mussolini può attuare un colpo di stato dittatoriale: bisogna mettere in guardia tutto il movimento operaio. Qui, come altrove, si avverte la profonda differenza di mentalità tra Gramsci e Bordiga, la diversità di formazione culturale. Il secondo è sempre per semplificare, ha una forma mentis matematica sorretta da un moralismo giacobino. Il primo è sempre per distinguere, ha una concezione strategica più complessa, è convinto che i disegni meccanici sono destinati a trovare contaminazione e mediazioni nuove nella storia fatta dagli uomini.
C'è anche - e lo si vede, a Roma, durante i lavori del secondo Congresso del Pcd'I, nel marzo del 1922 - in Gramsci una convinzione dettata dal pessimismo. La classe operaia è in ginocchio, scompaginata, disillusa. In questa situazione, si tratta di compiere intanto un'operazione di ancoraggio, di ridarle fiducia e compattezza attorno alla nuova formazione politica, farle acquistare un minimo di capacità offensiva prima di passare ad un'altra fase in cui il proletariato, « premendo direttamente e intensamente sui partiti opportunisti, cerchi di porsi a capo di tutto il popolo lavoratore ». Un prima e un dopo: un'illusione, una miopia? Negli anni successivi il giudizio su quella impostazione sarà appunto tale. Ma il Gramsci del 1922 è questo. Perciò lo vediamo alleato a Bordiga contro la pressione dell'Internazionale comunista che ha mutato tattica, a poco a poco, dal terzo Congresso (giugno-luglio 1921), e va ora perorando il fronte unico politico dei comunisti coi socialisti e i socialdemocratici.
Il mutamento di tattica è stato imposto dalla sconfitta subita non solo in Italia ma in Germania, nei Balcani, in tutto l'Occidente europeo, dal movimento rivoluzionario e dalle stesse difficoltà angosciose in cui si dibatte l'economia russa. Così, se nel 1920 si voleva la scissione nelle file del socialismo internazionale affinchè, come era accaduto ai bolscevichi, vi potesse scaturire, « liberarsi », un partito compatto, comunista, un'avanguardia omogenea, a guidare la presa del potere, ora che l'ondata rivoluzionaria è infranta, si vira di novanta, anzi di centottanta gradi. L'appello alle tre forze operaie per un fronte unico politico, insieme con la raccomandazione ai partiti comunisti dell'Occidente di puntare alla conquista della maggioranza, vogliono offrire una piattaforma di resistenza è di fronte alla controffensiva avversaria e insieme proteggere il nuovo Stato socialista dall'isolamento e da un nuovo assalto capitalistico.

Mosca, marzo  1922. Gramsci al  IV Congresso dell'Internazionale comunista

È una svolta brusca, e, da quanto abbiamo detto, « insopportabile » per quei partiti (l'italiano, in primo luogo, ma anche il francese) che sono appena sorti dalla scissione e, per di più, non credono nella necessità di una tattica diversa, di riavvicinamento ai socialisti. La polemica, il dissidio, non fanno che salire ed esasperarsi tra la metà del 1921 e il 1923. Il Pcd'I è contro il fronte unico politico (ma solo per il fronte unico sindacale), è contro uno schieramento unitario di partiti da contrapporre al fascismo.
Gramsci, dalla fine del maggio del 1922, si trova a Mosca, delegato del Pci presso l'Esecutivo dell'Internazionale comunista. È partito stanchissimo, logorato da un anno di intense fatiche. Per mesi e mesi, tra l'estate e l'autunno del 1922, verrà ricoverato in un sanatorio per rimettersi in salute. Le cure, il riposo, la pausa, sono anche un momento nuovo nella vita privata del rivoluzionario trentenne. Si innamora di una giovane musicista russa (che si era diplomata in Italia), Giulia Schucht, e presto si unisce con lei: un sentimento tenerissimo, dolce.
Il periodo moscovita di Gramsci (estate 1922 - fine 1923) è anche un periodo di espansione politica e teorica per lui, forse altrettanto formativo di quello torinese, ordinovista. Il carteggio che egli scambia con i compagni in Italia (i collaboratori suoi più intimi, dai tempi del giornale fatto insieme: Togliatti, Terracini, Leonetti, Scoccimarro ) lo mostra ampiamente. La cronaca delle vicissitudini del Pcd'I, nel frattempo, è assai intricata e dolorosa: si piomba nel'illlegalità pressoché completa dopo l'avvento del fascismo al potere (saranno arrestati nel 1923 Bordiga, Grieco, poi Togliatti, Leonetti e altri) e nel frattempo si giunge sull'orlo della rottura con l'Internazionale comunista. Il gruppo dirigente italiano è ostile, più ancora che scettico, nei confronti del tentativo che si opera a Mosca di ricomporre l'unità tra i comunisti e socialisti massimalisti italiani, anzi di avviare decisamente, dopo il quarto Congresso dell'IC, una fusione dei due partiti. La fusione fallirà, per una serie di circostanze, e anzitutto per una riluttanza che è assai decisa da parte dei socialisti (il più avverso si rivela il giovane redattore capo dell'« Avanti! », Pietro Nenni) ma non meno ferma, anche se più occulta, da parte dei comunisti. Il no di Bordiga è però clamoroso, lo porta addirittura fuori dal Comitato centrale, quando la pressione dell'Internazionale comunista si fa più stringente. Gramsci è tutt'altro che entusiasta dell'operazione, ma il suo pensiero si va precisando, tra il 1923 e il 1924, nel senso di un rinnovamento generale dei principi e della tattica su cui il partito si è fondato e basato sino ad allora.
C'è, indubbiamente, alla base, una sua convinzione pratica, politica, che lo stesso nuovo posto di osservazione rafforza e alimenta: che non si debba e non si possa rompere col Comintern. Egli sa che il partito ha un senso, un posto, un legame col proletariato, soltanto se resta la sezione italiana dell'Internazionale. Dirà più d'una volta che soltanto, o meglio, soprattutto per questo, a Livorno sono andati con la frazione comunista cinquantamila militanti socialisti e che, se la metà di essi resiste alle persecuzioni, continua a lottare, a sperare, a organizzarsi, è perché il Partito comunista d'Italia è un reparto del fronte internazionale guidato dal paese della rivoluzione, dal partito di Lenin. Senonché egli scorge ora meglio quanto non solo di settario, di primitivo, di formalistico, ma di provinciale vi sia nella intransigenza cieca del Pcd'I, nella sua ossessione di purezza, nel suo testardo negare l'esigenza di un allargamento della sua azione, di una svolta veramente unitaria. E sarà presto il momento della lotta aperta con le posizioni di Bordiga che ancora permeano largamente tutto il partito.

Gramsci e l'Internazionale comunista

Quando Gramsci, alla fine del 1923, si sposta a Vienna (per essere in contatto più stretto con l'Italia, lavorando in un nuovo ufficio dell'Internazionale), e una nuova fase politica si apre, egli non è ancora il capo ufficiale del partito, ma è già il suo dirigente politico effettivo, il cui consiglio diviene sempre più determinante...
Torna in Italia in maggio. È stato eletto deputato alla Camera dagli elettori comunisti della circoscrizione veneta. Un lavoro enorme lo attende, di capo effettivo, di « uomo pubblico », e insieme di dirigente impegnatissimo nella lotta interna. Il periodo 1924-26 sarà anche il periodo in cui Gramsci acquista tra i militanti di tutta Italia maggiore notorietà e, non a caso è anche lo stesso periodo in cui il Pci mette, tra questi, le radici più salde, per il grande sviluppo della sua lotta antifascista, che gli garantiranno la penetrazione e il successo della lunga resistenza ventennale e della sua espansione dopo la liberazione.