Markus Wolf

L'uomo senza volto

da: Markus Wolf, L'uomo senza volto, Rizzoli, 1997



INTRODUZIONE

Per trentaquattro anni ho operato come capo del servizio segreto del ministero della Sicurezza di Stato della Repubblica democratica tedesca. Come riconoscevano perfino i miei più acerrimi nemici, nel suo genere probabilmente era il servizio più efficiente dell'intera Europa. Abbiamo messo le mani su molti segreti strategici e tecnici dei potenti eserciti schierati contro di noi, e tramite lo spionaggio sovietico li abbiamo passati ai centri di comando del Patto di Varsavia a Mosca. Era opinione diffusa che io conoscessi i segreti della Repubblica federale tedesca meglio dello stesso cancelliere di Bonn. Effettivamente, abbiamo piazzato agenti nello stesso ufficio di uno o due cancellieri, tra il migliaio circa che abbiamo infiltrato in tutti i settori della vita politica, economica e in altri settori della società tedesco-occidentale. Molti di questi agenti erano tedeschi dell'Ovest che lavoravano per noi soltanto per convinzione personale.
Vedevo la mia vita professionale e personale come un lungo arco che partiva da quella che era obiettivamente una grande meta, sotto ogni punto di vista. Noi socialisti della Germania Est abbiamo tentato di creare un nuovo tipo di società, che non ripetesse i crimini tedeschi del passato. Eravamo soprattutto decisi a fare in modo che nessuna guerra scoppiasse più sul suolo tedesco.
I nostri peccati e i nostri errori furono quelli di ogni altra agenzia di spionaggio. Se abbiamo avuto dei difetti, e ce n'erano sicuramente, erano quelli di una eccessiva professionalità che andava a scapito della nostra vita privata. Come la maggior parte dei nostri compatrioti, eravamo troppo disciplinati. I nostri metodi funzionavano così bene, che involontariamente contribuimmo a distruggere la carriera dello statista più lungimirante della Germania moderna, Willy Brandt. L'accorpamento del servizio di spionaggio nel ministero della Sicurezza di Stato significò che il servizio e io siamo stati accusati di essere responsabili sia della repressione all'interno della Repubblica democratica tedesca sia della collaborazione con terroristi internazionali.
Non è facile per noi che eravamo dall'altra parte della ormai scomparsa Cortina di ferro raccontare la storia di questa guerra di spie, in modo da farla capire a quelli che hanno passato la loro vita dall'altra parte. Nel proporvi la mia storia anche di una singola battaglia della guerra fredda, non cerco perdono in nome degli sconfitti. Noi abbiamo combattuto contro la rinascita del fascismo. Combattevamo per una combinazione di socialismo e libertà, un nobile obiettivo che abbiamo completamente fallito, ma che io credo ancora possibile. Rimango saldo nelle mie convinzioni, anche se ora il tempo e l'esperienza le hanno in parte modificate. Non sono un disertore, e con questo memoriale non offro una confessione per farmi perdonare.
Dall'epoca in cui assunsi la direzione dello spionaggio della Germania Est, negli anni Cinquanta, fino a quando fui fotografato di nascosto nel 1979 e identificato da un disertore, l'Occidente non aveva idea del mio aspetto. Mi chiamavano «l'uomo senza volto», un soprannome che fa sembrare quasi romantiche le nostre attività d'intelligence e la guerra di spie tra Oriente e Occidente. Non lo era. La gente soffriva. La vita era dura. Spesso fu chiesta o data la consegna di non fare prigionieri, nella guerra tra le due ideologie che dominavano la seconda metà del nostro secolo, e che paradossalmente diede all'Europa la sua più lunga era di pace dai tempi della caduta dell'impero romano. Furono commessi crimini da entrambe le parti, e come tutti, o quasi tutti a questo mondo, ho i miei rimorsi.
In questa autobiografia ho tentato di raccontare i fatti per intero, così come li conosco dal mio particolare punto di vista. I lettori, i critici e gli storici possono esaminarli, accettarli, e metterli in dubbio. Ma respingo le accuse di alcuni dei miei connazionali, di non avere alcun diritto di raccontare e analizzare i successi e i fallimenti della mia attività. In Germania è stato fatto un tentativo, attraverso i tribunali e altro, di regolare i conti in modo che prevalga un'unica versione della Storia. Non cerco giustificazioni morali né perdono, ma dopo avere lottato duramente è tempo che entrambe le parti facciano il punto della situazione.
Ogni storia degna di tal nome non può essere scritta solo dai vincitori.

EPILOGO

Una vita spesa in un servizio segreto è un mélange di gloria dopo gli occasionali successi, miseria quando non si ottengono i risultati sperati o essi non vengono riconosciuti, e soprattutto routine, cioè raccolta e analisi di informazioni destinate per lo più a scontentare i capi politici del momento. Mi è difficile immaginare che gli abili professionisti che furono i miei avversari durante la guerra fredda vedano la loro esistenza sotto una luce molto diversa - a parte il fatto, naturalmente, che la parte per cui hanno lottato è risultata vincitrice. La mia vita, comunque, non è stata segnata solo dal mio ruolo sul versante segreto della guerra fredda, ma anche dall'aver assistito a innumerevoli abusi di potere, compiuti nel nome di quell'ideale socialista al quale credo ancora.
Mi sono sempre ispirato, e ho cercato di spingere i miei colleghi a ispirarsi, alla storia degli agenti segreti che consideravo i nostri predecessori. La tradizione che essi rappresentavano ha motivato gli ufficiali e gli operativi del mio dipartimento al di qua e al di là dell'Elba, ma una questione restava in sospeso. Negli anni in cui Hitler spadroneggiava in Germania e attuava una politica estera fatta di minacce e colpi di mano, eroi come Richard Sorge, Harro Schulze-Boysen e Leopold Trepper fornirono ai sovietici importanti notizie circa i piani militari del Terzo Reich. Innumerevoli vite avrebbero potuto essere salvate, se si fosse tenuto conto di quelle informazioni, tuttavia Stalin le ignorò. L'aspetto tragico della vita di quegli uomini fu che servirono un sistema che non tollerava le menti più critiche, e demandava a una sola persona ogni decisione cruciale, ogni giudizio definitivo. Un sistema che teme chi muove obiezioni, tende a respingere le informazioni che suonano come obiezioni. Questa fu purtroppo la strada che prese anche la Repubblica democratica tedesca, via via sempre più incapace di accettare il dissenso e gli intellettuali più critici.
Negli ultimi anni, potei mettermi in contatto con alcuni superstiti della Rote Kapelle. Trovai più particolari su quell'organizzazione nelle pubblicazioni occidentali che nei nostri archivi militari. Mielke conservava i fascicoli sul periodo nazista in una sezione del Dipartimento investigativo, posta sotto il suo personale controllo. Feci del mio meglio per ottenere il permesso di consultarli, ma non ci riuscii. Quello che più mi incuriosiva era cosa avesse spinto uomini dal passato e dalle convinzioni così diverse a rischiare la vita per combattere Hitler. Come avevano superato i loro dubbi, le loro paure? Dove avevano trovato le forze per andare controcorrente, per sfidare un regime che per anni, nonostante i suoi aspetti barbari, sembrò a milioni di persone invincibile, e quasi dotato di poteri sovrumani? Simili interrogativi, e le relative implicazioni per quanto riguarda le responsabilità storiche e morali dei singoli, erano quasi ignorati dalla pubblicistica della Rdt.
Noi, che combattemmo la guerra fredda, non avevamo un livello di motivazione così alto come i membri della resistenza al nazismo. Inoltre, se c'è una morale in questo mio libro di memorie, è che ci sono limiti ben precisi a quello che un servizio segreto può fare. Se possiamo voltarci indietro e contemplare con una certa soddisfazione il nostro lavoro, non è perché esso fu in grado di volgere in rotta il nemico assestandogli il colpo finale, ma per la ragione opposta. I servizi segreti hanno contribuito a un periodo di pace lungo mezzo secolo - uno dei pochi della storia europea - dando agli statisti la ragionevole certezza che non sarebbero stari colti di sorpresa dall'avversario.
I leader politici dell'Est e dell'Ovest - che furono, per così dire, i nostri clienti - non sempre sono disposti ad ammetterlo. Il coraggio e la sofferenza che sono a volte il vero costo di un'informazione, non trovano alcun riscontro nel valore che le viene attribuito da politici e militari. A giudicare dalla mia esperienza, l'efficacia di un servizio segreto dipende soprattutto dalla disponibilità di coloro che ricevono le informazioni a utilizzarle, anche quando contraddicono i loro pregiudizi e desideri. In confronto, l'efficienza e l'abnegazione di informatori, operativi e dirigenti ha poca importanza. I problemi cominciano col numero limitato di persone che in genere leggono i rapporti, e prendono decisioni sulla base del loro contenuto. È chiaro che i loro criteri di giudizio finiscono con l'avere un peso eccessivo, e hanno poche occasioni di correggersi tramite il confronto con quelli altrui. Inoltre, poiché le persone sono poche e le informazioni sempre di più, la burocrazia che trasmette il materiale e in una certa misura lo filtra finisce con l'avere un ruolo cruciale nel processo decisionale. Ma di solito, la comunicazione tra questo tipo di burocrazia e i servizi di informazione è tutt'altro che buona. Durante la mia permanenza al vertice dell'Hva, era raro che ci si sedesse intorno a un tavolo, per mettere a punto criteri comuni su quali questioni dovessero avere la priorità. Alla fine, il frutto del lavoro mio e dei miei colleghi era depositato su un piccolo numero di scrivanie, quasi tutte scelte in base al capriccio di Mielke.
In una società autoritaria gli errori di giudizio sono più gravi e più frequenti, per la carenza di meccanismi di controllo. Le deliberazioni del politburo del Partito comunista si riducevano quasi sempre a maratone oratorie, il cui unico risultato era lo spreco di tempo. Nelle rare riunioni dei vertici del ministero della Sicurezza, i lunghi monologhi di Mielke erano in genere seguiti dall'enunciazione di luoghi comuni, o dalla discussione di questioni di importanza trascurabile.
Tuttavia, nemmeno le democrazie occidentali sembrano avere trovato un modo davvero soddisfacente di affrontare il problema della valutazione dei dati di intelligence. Il disastro della Baia dei Porci ne diede testimonianza eloquente. La decisione del presidente Kennedy di tentare quell'assurda avventura fu il frutto dell'incompetenza del servizio segreto estero statunitense, a sua volta influenzato dal wishful thinking di politici incompetenti. Per quanto ne so, in Germania occidentale i rapporti del Bnd all'ufficio del cancelliere erano considerati carta straccia dalla maggior parte di coloro che li ricevevano. Helmut Schmidt, asceso alla cancelleria grazie al caso Guillaume e molestato da vari incidenti della stessa natura durante la permanenza al potere, una volta si rivolse all'ambasciatore della Rdt a Bonn, Michael Kohl, nel tono acido che era una sua caratteristica. «Dovreste proprio finirla con questa storia dello spionaggio» dichiarò Schmidt. «Comunque, c'è ben poco da ricavare da simile spazzatura. Solo qualche avanzo. Di informazioni militari importanti, non se ne parla nemmeno... I veri segreti sono ben protetti, sia negli Stati Uniti sia in Unione Sovietica. Spendere soldi nello spionaggio non serve a niente, se non ad accrescere la fiducia in se stessi dei servizi segreti, che così si sentono autorizzati a difendere i loro bilanci e a mantenere un organico pletorico.»
A dispetto di queste affermazioni, il Bnd rimase sotto il diretto controllo del cancelliere. E sia lui, sia il capo di stato maggiore erano spesso ospiti della direzione generale del Bnd, a Pullach. Nel 1977, annotai sul mio diario che i servizi segreti sono «efficaci per il solo fatto di esistere. Sia che otteniamo informazioni genuine oppure no, la nostra reputazione ha un effetto sicuro: tutti sanno che eventi e operazioni significativi non potranno essere tenuti nascosti a lungo. Già questo è importante per garantire la pace e il rispetto degli accordi internazionali.»
Le mie parole possono sembrare autocelebratorie, e dare l'impressione che sopravvalutassi sia il prestigio della mia professione sia l'impatto dei dati da noi forniti. In realtà, io avevo semmai la tendenza a dubitare del valore del mio lavoro, specialmente in coincidenza con gli anniversari del nostro paese. Subito dopo l'anniversario della Rdt del 1974, scrissi: «Nel dibattito sull'utilità dei servizi segreti, oltre alla questione del cui bono, il problema se essi siano di qualche utilità a chicchessia viene sollevato con crescente frequenza. E anche tra noi addetti ai lavori, chi, in tutta onestà, si sentirebbe di rispondere prima di avere riflettuto con cura? Il problema non consiste tanto nei costi (le forze armate divorano denaro in misura infinitamente maggiore), quanto nei ricavi. Buona parte delle montagne di carte prodotte dalla Nato, ed etichettate "cosmic" o "top secret", una volta lette non valgono neanche il loro peso in carta igienica.»
Altri critici hanno paragonato le nostre attività a un gatto che si morde la coda. Gli agenti del Kgb spiano quelli della Cia, che con l'aiuto del Bnd, o del Mossad, o del Secret Intelligence Service britannico, spiano i russi che li spiano... Uno di questi critici ha dichiarato: «Per questi importanti obiettivi, si assoldano squillo perché seducano diplomatici, si fabbricano ombrelli con la punta avvelenata, e segretarie occidentali di mezza età ricevono mazzi di fiori da giovani bellimbusti orientali. Non c'è nazione al mondo che non ritenga indispensabile avere un servizio segreto. Si da il caso, però, che queste agenzie passino gran parte del tempo a mettersi reciprocamente i bastoni tra le ruote. In questo i tedeschi - una nazione divisa - a forza di vittorie di Pirro hanno probabilmente raggiunto livelli destinati a restare ineguagliati.»
Agli estranei, il mondo delì'intelligence deve a volte apparire assurdo; le sue attività, giochi senza senso nei casi migliori, comportamenti subdoli e immorali nei peggiori. Ora che la guerra fredda è finita, il costo di simili apparati viene giudicato in modo più libero, più attento e più severo che in passato. La Cia, in particolare, è stata aspramente criticata per non aver previsto l'imminente crollo dell'Urss, nonostante i suoi bilanci miliardari, e per essersi lasciata infiltrare da una talpa che disarticolò completamente la sua rete di agenti e informatori all'interno dell'Unione Sovietica.
Personalmente, credo che negli ultimi tempi, all'Est come all'Ovest, gli organici avrebbero potuto essere dimezzati senza significative perdite di efficienza. Ma se è vero che nell'epoca dei satelliti e degli hackers lo spionaggio tecnologico (che ha anch'esso i suoi costi) può e deve essere utilizzato, gli agenti in carne e ossa non possono essere completamente accantonati. La tecnologia non può fare di più che fotografare la situazione in un dato istante. Scopi non immediatamente evidenti, secondi fini e opzioni le rimangono per loro natura celati, anche utilizzando il più sofisticato dei satelliti.
Inoltre, l'acquisizione e la valorizzazione di risorse umane di alto livello è quasi del tutto indipendente dal numero di impiegati che lavorano al quartier generale. Al contrario, la mia impressione è che il numero di spie di qualità su cui un paese può contare tenda a essere inversamente proporzionale alla grandezza dell'apparato burocratico. Nel mio servizio mi sono sempre basato su questo presupposto, nonostante la politica affatto diversa praticata dal resto del ministero della Sicurezza. Si pensi che nell'ultima fase della storia della Rdt, il personale del ministero ammontava a ottantamila persone. Un numero enorme, per una nazione con diciassette milioni di abitanti. Con quale utilità per la difesa delle istituzioni, lo si è visto nel 1989. Mi sono sempre battuto contro la legge di Parkinson. Quando lasciai la Direzione principale di investigazione, nel 1987, i suoi dipendenti erano più di tremila; e quattro anni dopo, quando fu definitivamente abolita, il personale era aumentato di altre mille unità. Analogo era il numero di agenti che la Direzione gestiva nella Germania Ovest. Fino a qualche anno prima, il numero totale degli agenti nella Rft non superava il migliaio, e di questi, solo poco più del 10% potevano essere considerati fonti di una certa importanza.
Perciò, anche ammesso che i servizi segreti siano indispensabili, le loro dimensioni potrebbero essere sensibilmente ridotte se i loro obiettivi fossero definiti con maggiore precisione. Senza dubbio i servizi segreti potrebbero essere usati contro il terrorismo, contro il dilagare del commercio di stupefacenti, e per arginare la proliferazione delle armi atomiche. Mi sembra dubbio, invece, che i servizi segreti nazionali possano essere di qualche utilità nello spionaggio industriale, visto che le grandi corporations possiedono già propri servizi di intelligence.
Un fatto che mi preoccupa è che se i servizi segreti - poco democratici per natura, essendo la segretezza in una certa misura incompatibile col controllo da parte dei parlamenti e dei media - non saranno ridotti in misura significativa, sarà sempre forte la tentazione dei governi, perfino nei paesi democratici, di servirsene per spiare e disinformare i loro stessi cittadini. Nei regimi totalitari, come l'ex Rdt, si da per scontato che ciò avvenga; ma la storia ha dimostrato che anche nei sistemi politici aperti, il controllo dell'operato dei servizi è difficile, se non impossibile. Perfino le commissioni di controllo composte da pochi parlamentari scelti con cura, cui si è fatto ricorso negli Stati Uniti e in Germania, non hanno accesso alle informazioni più riservate, come una lunga serie di scandali ha ampiamente dimostrato.
Un altro punto da sottolineare è che finché ci saranno conflitti politici, e forze armate come estrema risorsa per risolverli, nessun paese potrà fare a meno di raccogliere informazioni sulle forze e le intenzioni dei nemici potenziali. Al massimo, governi e parlamenti potranno vigilare che le istituzioni preposte alla raccolta delle notizie di valore strategico si occupino di questo, e solo di questo. Ma anche in tal caso, la lotta contro l'oscurità è destinata a continuare. E questa lotta, quale che sia il suo esito, non è un gioco. È uno scontro reale, che per chi vi è coinvolto può significare una condanna al carcere, la distruzione della carriera e dei rapporti famigliari, in certi casi la morte. Un prezzo elevato, per notizie che non possono fermare l'evoluzione in atto in un paese o in una regione geografica e sostituirla con un'altra, ma tutt'al più solo rallentarla o accelerarla. Alla fine di una carriera tutta dedicata al lavoro di intelligence, non posso fare a meno di chiedermi se ne valga la pena.
Verso la fine del mio processo, a Dùsseldorf, feci la seguente dichiarazione: «A settant'anni è abbastanza naturale tentare di fare un bilancio della propria vita. La parola "tradimento" è stata pronunciata più volte [durante il processo], e non ho potuto non chiedermi se ho davvero tradito qualcuno dei principi morali che hanno accompagnato la mia esistenza; intendo i principi cari a me, alla mia famiglia, ai miei amici e a coloro il cui esempio ho cercato di imitare. Oggi mi rendo conto che sbagliammo spesso, che commettemmo errori anche gravi, e che spesso ci accorgemmo troppo tardi degli errori e delle loro cause. Ma ancora oggi credo negli ideali e nei valori che ispiravano il nostro tentativo di cambiare il mondo.»
Spero che dal racconto della mia vita sia emerso con chiarezza che non ho mai consapevolmente tradito i miei ideali; quindi non ho mai avuto, e non ho, la sensazione che la mia esistenza sia stata priva di scopo. Come quella di tanti miei amici e contemporanei, essa non è trascorsa invano, per quanto discutibili possano essere state talvolta le nostre decisioni e per quanto dolorose siano state le ferite che a volte abbiamo inflitto - agli altri, e a noi stessi.
Se ripenso al tempo della mia giovinezza, in Unione Sovietica, i primi ricordi che si affacciano alla mia mente non sono i crimini di Stalin o il patto con la Germania nazista, ma episodi della vita quotidiana in tempo di guerra. La seconda guerra mondiale è stata l'evento cruciale per milioni di persone; ed è stata l'evento che ha posto fine al Terzo Reich. Come può sentirsi un traditore della Germania chi ha combattuto contro la barbarie hitleriana? Per quanto modesto sia stato il contributo della mia famiglia e mio a quel titanico scontro, esso è per me motivo di orgoglio.
Nutro gli stessi sentimenti per il mio tentativo, dopo la fine della guerra, di rendere consapevole l'opinione pubblica delle cause della tirannide nazista, dei suoi delitti contro l'umanità, e dell'esistenza di molti ex nazisti nei centri di potere della Germania Ovest. La lunga ombra del Führer fu una delle ragioni per cui decisi di diventare un agente segreto. Anche questa ragione non ha niente a che vedere col tradimento.
A parte il nazismo, e la pesante eredità che ha lasciato a noi tedeschi, sono contento di aver contribuito al mantenimento dello status quo in Europa; una condizione non priva di aspetti angosciosi e pericolosi, ma che alla fine ha evitato lo scoppio - inconcepibile, ma in alcuni momenti non del tutto improbabile - di una guerra nucleare.
Tuttavia, la fierezza per questi aspetti del mio lavoro è temperata da altre considerazioni. Per quanto pensi che la Rdt debba essere giudicata in modo equanime, e trovi giusto sottolineare le sue origini antifasciste, so bene che il lato tenebroso della sua storia non può essere cancellato. Molti aspetti dello stato tedesco orientale erano inaccettabili, a cominciare dalla sua evidente natura oppressiva. Mi rendo conto di portare, per questo, la mia parte di responsabilità. Appartenevo alla classe dirigente del paese, e se oggi vengo rimproverato quasi come se fossi stato il capo del governo, come se quanto accadeva nella Rdt in tema di ordine pubblico e diritti individuali fosse stato sotto il mio controllo, capisco di non avere il diritto di lamentarmi.
Dal tempo dei drammatici eventi del 1989, mi sono chiesto più volte come la Germania Est abbia potuto crollare così miseramente e spettacolarmente. Mi sono chiesto se non avessi aspettato troppo per dire a voce alta quello che da tempo pensavo e intuivo. Se ho rallentato il passo, non è stato per timore di rappresaglie, ma per lo spettacolo, al quale avevo assistito infinite volte nella Rdt, dell'inutilità di ogni atteggiamento critico; dell'impossibilità di produrre un cambiamento con la sola forza delle parole e degli argomenti. Troppe volte avevo constatato che le proteste servivano solo ad aumentare la sorveglianza e le limitazioni alla libertà di espressione. Mi ero convinto che unicamente con la gradualità, e la prudente ricerca di un dialogo, si potesse sperare di ricavare qualcosa da una leadership troppo isterica e insicura per essere messa di colpo di fronte alla realtà. Mi sbagliavo? È possibile, ma purtroppo non si può tornare indietro a controllare.
Penso spesso, specialmente quando sono in compagnia di uno dei miei dieci nipoti, a una lettera che mio padre scrisse a mio fratello nel 1944. Uno dei consigli che gli diede in quell'occasione, fu di non avere paura di formarsi una propria opinione su qualsiasi argomento. Al consiglio di mio padre, oggi aggiungerei quello di non avere paura di battersi, se necessario, per la propria opinione, anche a costo di subire ritorsioni. Mi sono reso conto presto che è inutile costringere chicchessia a pensarla come noi. Così si ottiene, tutt'al più, un conformismo superficiale; e una società costruita su di esso, poggia sulla sabbia. Eppure, ho passato gran parte della vita, e tutta la mia carriera, aspettando pazientemente un cambiamento.
Ricordo chiaramente con quanta ansia molti di noi speravano in un cambiamento di leadership a Mosca, sapendo che esso avrebbe avuto enormi ripercussioni a Berlino Est. Quando finalmente, con l'ascesa al potere di Michail Gorbaciov, giunsero le riforme tanto attese, nessuno fu più entusiasta e più ottimista di me. Non avevamo capito che la svolta era arrivata troppo tardi. Ormai, la glasnost non poteva risolvere nessun problema. L'utopia germogliata in Russia nel 1917 aveva consumato tutto il tempo e le occasioni che la Storia le aveva messo a disposizione.
Cos'è rimasto di quell'utopia? Se mi volto indietro, e ripenso alla nostra convinzione di poter dimostrare che le teorie di Marx ed Engels funzionavano, che era possibile costruire una società in cui gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità fossero pienamente realizzati, non mi è facile dire dove, esattamente, abbiamo sbagliato. Quando eravamo giovani, avevamo spesso l'impressione che la nostra fiducia, il nostro ottimismo fossero di per sé una forza capace di cambiare il mondo. Oggi direi che il nostro errore, nella misura in cui è possibile racchiuderlo in una formula, fu quello di essere fin troppo socialisti a parole, e troppo poco socialisti nei fatti. Per esempio, i crimini di Stalin non furono l'inevitabile risultato della teoria socialista, ma al contrario, una flagrante violazione di essa. Eppure, il sacrificio della libertà personale sull'altare del potere del Partito, la manipolazione degli uomini e la falsificazione della storia scaturiti dallo stalinismo furono rapidamente adottati dalla gran parte dei paesi a Est della Cortina di ferro. La triste realtà della Rdt era una questione non tanto di incompatibilità tra democrazia e socialismo, ma di sistematico abuso di potere da parte della nostra classe dirigente. Esso stese sulla società una coltre, sotto la quale la Repubblica democratica finì col soffocare. Non ho difficoltà a riconoscere che il nostro sistema si è dimostrato infinitamente inferiore a gran parte delle nazioni democratiche e industrializzate dell'Occidente, anche tenendo conto dei pregi del nostro sistema di sicurezza sociale. L'insegnamento che si può ricavare dal declino e dalla dissoluzione della Germania orientale è che la libertà di pensiero e di espressione è indispensabile per una società moderna, non meno degli elementi di giustizia sociale che avevamo introdotto nella Rdt, dei quali eravamo tanto fieri.
Per gran parte dei miei connazionali, la vita nella Germania unificata si è rivelata meno facile di quanto si aspettavano: il lavoro spesso difficile da trovare, gli affitti delle abitazioni sono alti, e molti avvertono la mancanza del diffuso senso di solidarietà che caratterizzava la vita nel vecchio sistema. Non sarebbe né giusto né sensato giudicare la vita in un paese reale, come l'odierna Repubblica federale, confrontandola con una comunità socialista puramente immaginaria. Credo, tuttavia, che molti tedeschi non si sentano a loro agio in una società in cui i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri vedono lentamente ridursi il loro già modesto tenore di vita. Mi chiedo come facciano gli americani, giustamente fieri della loro patria e delle sue grandi conquiste, a tollerare che in una delle nazioni più prospere e potenti del mondo quasi quaranta milioni di cittadini vivano in miseria. Altrettanto disagio mi suscita l'idea di una società e di una civiltà basate esclusivamente sul denaro. Il denaro può essere efficace come qualunque altro strumento di potere, ma spesso esso opera in un modo che è meno visibile, senza essere meno brutale. Nel blocco orientale, gli abusi di potere assumevano la forma della manipolazione degli ideali; ma nei paesi capitalisti, i pretesi ideali delle libertà individuali a volte si riducono a mera copertura di interessi di tipo affaristico. Forse è questa una delle ragioni per cui, anche nelle nazioni «vincitrici» della guerra fredda, tante persone appaiono infelici, e scettiche sulla capacità dei sistemi politici di risolvere i loro problemi.
Nonostante tutto, resto un idealista e un ottimista. Sono sicuro che molti giovani credono ancora in un futuro migliore per tutti, e in un mondo più umano di quello in cui viviamo oggi. Credo che le utopie non siano né inutili né dannose, ma un aspetto ineliminabile dell'esperienza umana. Penso anzi che sbarazzandoci delle utopie - se ciò fosse possibile - rischieremmo di precipitare nella barbarie; in un'epoca di brutalità che potrebbe significare la distruzione non di una nazione, ma di tutto il pianeta. Sono sicuro che la nuova generazione, e quelle successive, troveranno il modo di realizzare le speranze in cui ho creduto, e che ancora mi sono care.
Non lontano dal mio appartamento sorge un monumento a Karl Marx e Friedrich Engels. Nell'autunno del 1989, alcuni giovani ci scrissero sopra «Non colpevoli» con una bomboletta spray. Sono d'accordo. Mi piace pensare che essi condividessero il mio giudizio sulle potenzialità del marxismo. La guerra fredda è finita, e con essa, probabilmente, anche il mio compito, ma non ho perso la speranza. A casa mia, spesso prendo da uno scaffale un libro di Jean Ziegler. Il titolo riassume i miei sentimenti in questa fine del secolo, mentre mi avvicino alla conclusione di una vita che è stata nel bene e nel male più ricca di quanto avrei mai immaginato da bambino: A demain, Karl.

Livio Zanotti *

La spia che restò nel freddo

La spia che restò nel freddo. Cuoco e scrittore, dopo il crollo del muro, ma sempre fedele a se stesso e agli ideali che lo avevano spinto a restare capo dei servizi della DDR pur vedendone la mancanza di senso. E senza mai commettere reati. Lo vedevo di tanto in tanto in un ristorante italiano della Marburgerstrasse, al centro di Berlino ovest. Nella saletta dei clienti  abituali, non passava certo inosservato. Più d'un metro e ottanta, con la faccia di Paul Newman. Diritto malgrado i capelli bianchi, lo sguardo ironico e sicuro. Assaporava con gusto ogni pietanza, lentamente. Al proprietario, Massimo Mannozzi, chiedeva puntuali spiegazioni sulle ricette.
E annotava tutto su un piccolo taccuino. «Sono cuoco anch'io e adoro la cucina italiana...», mi disse una sera in cui l'osservavo incuriosito. E alla mia espressione incredula, replicò promettendomi in regalo per la prima occasione in cui ci fossimo incontrati di nuovo, un libro di cucina che aveva appena pubblicato.
Aveva un fare insolitamente disinvolto dietro la gentilezza formale dei vecchi prussiani. Lasciò che gli presentassi mia moglie, poi ci presentò la sua. All'andarsene salutarono con aperta simpatia.
- Uno scrittore?, domandai al proprietario.
- Markus Wolf... rispose.
- Vuoi dire «La Talpa»? **
- Lui, in carne ed ossa...
Erano stati appena aperti i primi varchi nel muro, a picconate e con le mani. Il popolo delle Trabant aveva invaso Kurfürsterdamm e tutte le strade adiacenti degli opulenti quartieri occidentali, si affacciava sulle vetrine luccicanti del KaDeVe. Ma in teoria la DDR, la Germania est, esisteva ancora e il suo personaggio più misterioso, il leggendario capo del suo spionaggio, cenava accanto a noi come un borghese qualsiasi. Senza conoscerlo, ma informato della sua esistenza dai vecchi conoscenti dell'MI5, i servizi d'informazione britannici, John Le Carré gli aveva conferito da anni dignità letteraria nella più famosa delle sue spy-stories, «La Talpa», appunto.
Quando tornammo a incontrarci, per prima cosa cavò il suo libro di ricette dalla tasca del soprabito e ce lo diede: già con dedica... Centocinquanta pagine di doppi sensi, in cui ogni ingrediente, ogni pietanza, tutti i piatti suggerivano anche una divertita lettura in chiave politica. Mentre le sfogliavamo, lui ci riservava occhiate compiaciute (soprattutto a mia moglie), io stentavo a convincermi d'avere davanti il diabolico guerriero della notte, rimasto invitto pur nella disfatta della sua patria.
- Dunque, ha deciso di cambiare mestiere: d'ora in avanti, cuoco e scrittore, complimenti!
- Eh sì, finalmente ho potuto scegliere...
- Vuol dire che per trent'anni ha fatto la spia perché obbligato, e da chi?
- Da chi, dalla vita! Ma attenzione: non sono un pentito!
Gli avi ebrei dei Wolf cacciati dalla cattolicissima Spagna di Isabella e Ferdinando; quattrocento anni dopo lui e suo fratello Konrad, ancora ragazzi, la madre scrittrice e il padre noto commediografo, tutti militanti comunisti, fuggono dalla Germania conquistata da Hitler. Wolf racconta che in un primo momento trovarono rifugio in Svizzera. Con loro numerosi altri ebrei tedeschi, comunisti e non, la maggioranza dei quali si trasferì poi in Messico.
«Se fossimo anche noi andati in America, la mia vita, la nostra vita sarebbe stata probabilmente del tutto diversa. E anche le scelte che ho fatto. Ma l'Unione Sovietica era la trincea principale della battaglia antifascista e noi eravamo comunisti, dunque la scelta era fatta...»
Soltanto negli anni Settanta Markus Wolf aveva sentito il bisogno di guardarsi attorno, di guardarsi dentro, per scoprire che tutto era troppo diverso da come se lo era immaginato. I tentativi compiuti per collegare socialismo e libertà erano drammaticamente falliti. Ne aveva visto anche con i propri occhi alcune delle vittime. Il suo stesso lavoro di capo dei servizi d'informazione della DDR non serviva a migliorare le cose. Ma c'era impigliato dentro. Né aveva mai pensato di uscirne da solo.
«Non ho mai pensato che la mia famiglia e io stesso avevamo sbagliato. I nostri ideali di giustizia, fraternità e libertà restavano; e li sento ancora oggi immutati. Ma io sono una persona leale. Non ho tradito e non tradirò».
Le cene italiane furono bruscamente interrotte dal carcere: la riunificazione tedesca pretendeva qualche sacrificio e Markus Wolf venne accusato proprio di tradimento dalla nuova Germania. Il tribunale di Düsseldorf lo processò e condannò per aver introdotto spie nel cuore della Repubblica federale: per aver ingannato il cancelliere Willy Brandt con l'agente Günther Guillaume e una dozzina di giovani donne impiegate nel governo di Bonn attraverso falsi matrimoni. Ma ai giudici non fu possibile trovare testimoni e prove che accusassero l'ormai settantenne Wolf di altri reati. Anzi, il suo omologo dell'ovest, il capo dello spionaggio federale, dichiarò che per quanto ne sapeva «La Talpa» odiava la violenza e non aveva mai ordinato l'assassinio di nessuno.
Markus Wolf, da parte sua, sostenne di non aver mai tradito, visto e considerato che aveva lavorato agli ordini del suo paese, la Repubblica democratica tedesca, riconosciuta da mezzo mondo. E ottenne infine che la sentenza di colpevolezza venisse parzialmente annullata.
L'ultima volta che l'ho visto diceva che fare lo scrittore l'aveva messo in pace con se stesso. Abitava e lavorava in un piccolo ma assai grazioso appartamento sull'Isola dei Musei, nel centro storico di una Berlino resa irriconoscibile dalla ricostruzione. I nuovi grattacieli gli chiudevano la vista sul Glienicker Brücke, quel «ponte delle spie» che noi abbiamo visto tante volte al cinema e per lui era la frontiera della guerra fredda, su cui giocava la sua battaglia talvolta mortale.
La sua armata della notte aveva migliaia di uomini, ma nessuno lo ha mai denunciato; né lui ha mai fatto alcun nome. È morto nel silenzio della notte berlinese, dopo essere andato a dormire convinto che l'indomani avrebbe scritto ancora.
Era rimasto fuori dalla politica attiva, malgrado le sollecitazioni dei vecchi amici. Più che parlare loro, ormai li ascoltava. Ma a 83 anni, il cuoco aveva finto di dimenticare la spia e scelto la tavola come ultimo campo di battaglia.

il Manifesto 10.11.06

* ex corrispondente del Tg2 da Berlino

** l'autore fa un po' di confusione: La talpa di Le Carrè racconta la storia di un agente britannico doppiogiochista, e il richiamo è al leggendario Kim Philby. Caso mai in Le Carré il riferimento a Misha Wolf è nell'enigmatico personaggio di Karla.



Marco Ansaldo

Wolf: "Nell'attentato al Papa Ali Agca non era solo"

Intervista all'ex capo della Stasi *

Berlino - "Le carte della Stasi pubblicate di recente non provano la responsabilità della Germania orientale o della Bulgaria nell'attentato al Papa. Ma questo non significa che i bulgari, a nostra insaputa, non possano essere stati dietro il colpo. Io non lo so. Ma non posso nemmeno escluderlo. Infatti un agente di Sofia mi parlò di Ali Agca: il terrorista turco era stato da loro addestrato in un campo in Bulgaria". La faccia tuttora straordinaria di Markus Wolf sbuca all'improvviso da un viottolo sul Nikolai Viertel, il quartiere pedonale berlinese che dà sul fiume Sprea.

"L'uomo senza volto", abilissimo nel non finire mai fotografato, il leggendario "Karla" mitizzato dai romanzi di Le Carrè e per 34 anni segretamente a capo dei servizi segreti esteri della Germania Est, cammina a passo spedito. A 82 anni, "Misha" Wolf, russo di formazione, maestro di spionaggio, saluta in modo gentile ma spiccio, si siede a un tavolo appartato e ordina un cappuccino.

Non avrebbe voluto incontrare un giornalista, dopo la morte di Wojtyla. Ma quando ha capito che avevamo dei documenti da mostrargli, le carte della Stasi (il ministero per la Sicurezza da cui la sua intelligence dipendeva) sull'attentato, ha prima chiesto consiglio alla moglie, e ha poi accettato: "Vediamoci a quest'ora, lungo la Sprea, in quel locale".

Le tattiche di Wolf sono pietre miliari nei manuali degli agenti segreti. Il "metodo Romeo", ad esempio, che prevedeva l'uso di giovani uomini (o donne), disposti a usare il sesso come arma per carpire informazioni da attempate ma potenti segretarie governative, e teorizzato come sistema infallibile ("l'essere umano ha tante debolezze"). Il denaro, soprattutto ("gli uomini ne vogliono sempre di più di quel che già hanno").

Per colpi rimasti nella storia. Come quello di piazzare un suo agente, Guenter Guillaume, per anni a fianco del cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt in qualità di consigliere. "È vero, nella mia vita professionale non ho avuto scrupoli - ammette mentre gli occhi piccoli ti scrutano da un volto che sembra tagliato con l'accetta - dovevamo essere machiavellici: il fine giustifica i mezzi. L'intelligence non prevede il concetto di moralità".

Generale, questi sono i dossier del carteggio fra la Stasi e la Bulgaria sulla cosiddetta "Operation Papst". Riconosce questi fascicoli? Markus Wolf si toglie gli occhiali, e sfoglia le carte con dimestichezza, come uno che sa cosa leggere e cosa tralasciare.
" - dice dopo qualche minuto - sono vere, le riconosco. Sono le carte mie e del mio dipartimento".

In questi documenti si parla di collaborazione tra la Stasi e la Bulgaria, invocando una serie di "misure attive" per influenzare i media occidentali, i giudici italiani, i paesi della Nato. È così?
"Certo, ma queste richieste di aiuto dei bulgari non sono per nascondere eventuali tracce di complicità, di cui qui non troverà riscontro. Ma solo per contrastare la campagna di propaganda scatenatasi contro Sofia".

La Stasi fu in qualche modo coinvolta nell'attentato?
"No, non fu opera nostra".

Ma può escludere che i bulgari abbiamo organizzato l'attentato, a vostra insaputa?
"No, questo non posso escluderlo. Posso solo dire che noi non sapevamo. Per quel che ricordo, i bulgari ci dissero che Ali Agca, l'attentatore, era stato da loro addestrato in un campo che avevano da qualche parte. Tenemmo una riunione comune, in una villa qui a Berlino. E uno degli agenti di Sofia, in contatto soprattutto con uno dei miei luogotenenti, mi parlò di Agca. Ma noi in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa".

L'attentatore di recente ha sostenuto di non aver potuto compiere l'attentato senza l'aiuto di qualcuno in Vaticano, qualche sacerdote o cardinale. Le sembra realistico?
"Ho letto quell'intervista. Noi avevamo un agente infiltrato nella Santa Sede. Era un benedettino, si chiamava Eugen Brammertz. Fu un contatto utile, riuscimmo a metterlo alle costole del cardinale Casaroli (allora "ministro degli Esteri" del Papa, ndr), per sapere come intendesse muoversi la Curia. Ma più in là non andammo".

Arruolaste anche Alois Estermann, il capo delle Guardie svizzere morto nel 1998 dentro le Sacre mura, in un omicidio molto misterioso?
"No, lui no. Vede, infiltrare spie nella Santa Sede era per noi un lavoro molto difficile. Bisognava individuare le persone, io amavo reclutare i giovani, ma aspettare anche che crescessero".

Si occupava lei di questo?
"C'era una divisione, la XXesima, che lavorava sulla Chiesa. Ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo".

Agca poteva essere un agente del Kgb?
"Non credo. Ma non credo nemmeno alla versione del killer solitario. Compiere un attentato al Papa è un'azione così complicata, occorre uno studio del soggetto da colpire, con una preparazione talmente meticolosa e perfetta, che solo un'organizzazione ben strutturata può portarlo a termine".

La Stasi, organo di sicurezza comunista, usava per le sue operazioni speciali i Lupi grigi turchi, nazionalisti di estrema destra?
"Il mio ufficio no, ma non posso sapere se altri dipartimenti lo facessero".

E il Kgb potrebbe aver concepito un piano del genere?
"Guardi, io sono russo di formazione. Conoscevo bene l'allora capo del Kgb, Juri Andropov, poi divenuto Segretario generale dell'Unione Sovietica. Gli ho parlato almeno tre volte a tu per tu circa operazioni da fare insieme, soprattutto riguardanti la situazione in Polonia. So bene qual era la sua mentalità. Escludo che potesse aver pensato a un'operazione del genere".

Perché ne è così sicuro?
"Perché non faceva parte del modo di ragionare di Andropov, che era profondo e raffinato insieme. E l'ipotesi di eliminazione del Papa polacco sarebbe stato un gesto più controproducente che positivo".

Perché no? In fondo Wojtyla vi dava fastidio.
"Ah questo sì, certamente. Per noi era 'persona non grata'. E così per l'Urss e gli altri paesi vicini. Il Papa era certamente il leader cattolico più anticomunista che si potesse trovare. Di sicuro costituiva un problema, ma non al punto da eliminarlo fisicamente. Non per i servizi della Germania comunista, almeno".

la Repubblica, 11 aprile 2005

Il mito della spia

Markus Wolf, in arte 'Mischa' come lo hanno conosciuto per oltre quarant'anni tutti gli appassionati di spionaggio e politica internazionale, è stato fino all'ultimo un autentico personaggio capace di dominare non solo le cronache politiche ma anche quelle letterarie e cinematografiche. Prima ancora della sua fortunata autobiografia e del bellissimo saggio di Pierre Faillant de Villemarest a lui dedicato nel 1991, si deve a John Le Carré la sua notorietà.

   Infatti, secondo una sorta di leggenda letteraria mai smentita il personaggio di Karla, potentissima spia comunista che si oppone all'inglese George Smiley in una partita a scacchi mortale che attraverso ben tre libri dello scrittore inglese, era modellato fedelmente sul vero Mischa Wolf. Gli sceneggiatori che portarono in tv La talpa e Tutti gli uomini di Smiley' (entrambi firmati da Le Carré) non ebbero il desiderio di ricercare la somiglianza fisica e affidarono il ruolo di Karla a Patrick Stewart meglio noto come il capitano Picard di 'Star Trek' e il professor Xavier di 'X-Men'. Con la sua testa calva, le sopracciglia arcuate e la gestualità trattenuta o minacciosa Patrick Stewart intercettò però perfettamente lo spirito del personaggio e fece ben presto dimenticare agli appassionati la differenza fisica con il volto quadrato, labbra strette e lo sguardo profondo del vero Markus Wolf.

   Il segreto della popolarità che Le Carré conferì alla grande spia della Germania Est attraverso il ritratto di Karla sta nella sua lealtà quasi militaresca ad una guerra segreta in cui non ci sono buoni e cattivi ma solo vincitori e vinti e su questo terreno egli si incontra perfettamente, nonostante le differenze di umanità e ideologia con George Smiley immortalato per sempre con le fattezze di Alec Guinness. Curioso notare che Wolf ha spesso riconosciuto di amare profondamente i romanzi di Le Carré e di riconoscere il vero spirito degli agenti segreti nelle pagine di uno scrittore che per altro aveva lavorato a sua volta nell'intelligence britannica.

    Le Carré non è il solo ad essersi ispirato a Mischa Wolf. Ancora di recente Frederick Forsyth nelle pagine de Il veterano e altre storie riproduce un genere di agente segreto simile al capo della Stasi ed è chiaro che per una società letteraria come quella inglese ancora profondamente segnata dal tradimento di Kim Philby l'ombra lunga delle spie oltrecortina di ferro giocava e gioca un ruolo determinante. Nonostante avesse fatto del riserbo e del silenzio una sua consegna di vita, Wolf è stato soprattutto negli ultimi anni un personaggio pubblico: ha rilasciato interviste, ha scritto un libro di memorie, è apparso in documentari e filmati che raccontavano la guerra segreta come nelle bella miniserie televisiva di Tessa Coombs Cold wa' del 1998.

   Ma sono apparsi sullo schermo anche i due documentari di Marcel Ophuls girati alla fine degli anni '90. Tra i molti misteri della sua vita c'é anche il suo mai chiarito rapporto con lo spionaggio da quando, alla fine degli anni '80, in seguito alla riunificazione delle due Germanie aveva ufficialmente lasciato ogni ruolo attivo per scrivere le sue memorie. Sono in molti a ritenere che in realtà almeno per i primi anni successivi l'uomo che era riuscito a infiltrare perfino la Cancelleria tedesca, mettendo una sua agente alle costole di Willy Brandt, non avesse mai smesso di agire nell'ombra.

 


Il miglior agente segreto della Germania Orientale

L’uomo senza volto che gestiva una rete di quattromila agenti, che fece cadere Willy Brandt e sorvegliare il cancelliere Adenauer, è morto nel sonno nella sua casa a Berlino il 9 novembre 2006, esattamente in occasione del diciassettesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino e dalla riunificazione della Germania.
Markus Wolf, in arte “Mischa”, aveva 83 anni, lascia un’eredità di misteri ed un’autobiografia Memorie di una spia (Rizzoli).
Nato il 19 gennaio del 1923 a Hechingen, figlio di un medico ebreo, comunista e militante antinazista che agli inizi degli anni ’30 si trasferisce a Mosca, si fa notare subito dai quadri dirigenti che lo mandano a studiare ingegnerie aeronautica e gli risparmiano il fronte, affidandogli la propaganda bellica su Radio Mosca.
Al termine della guerra viene mandato a Berlino e sotto copertura, nelle vesti di giornalista, segue il processo di Norimberga.
I sovietici gli affidano compiti sempre più delicati in Polonia e in Cecoslovacchia.
Dopo un tirocinio di due anni, torna a Mosca per poi stabilirsi definitivamente a Berlino Est, in qualità di agente segreto al servizio del Ministero per la Sicurezza dello Stato, Ministerium für Staatssicherheit, o Stasi.
Nel 1953, all'età di 30 anni, nell'ambito della Stasi crea la divisione di intelligence internazionale HVA (Hauptverwaltung Aufklärung, Amministrazione centrale delle informazioni) e dal 1958 ne è alla direzione.
All’improvviso nel 1987 lascia la direzione: destituito per la troppa confidenza con il generale Kessler, ministro della Difesa? Dimissioni per sfiducia del regime?
Forse non si saprà mai; ed anche questo si aggiunge ai suoi molteplici segreti.
A lui è affidata per trent’anni una rete di quattromila agenti; inventa nuovi metodi spionaggio, ad esempio gli “agenti Romeo”, il cui compito è quello di sedurre le donne in posizione strategica per poter strappare segreti di Stato, o i finti bambini nazisti che tornano a cercare la madre.
Il suo capolavoro è l’agente Guillaume che, in qualità di consigliere speciale, arriva a diventare l’ombra di Willy Brandt: la sua scoperta da parte degli agenti federali provocherà uno scandalo clamoroso, costringendo Brandt a dimettersi da Cancelliere.
Wolf nella sua biografia dirà: ”È stato un grosso errore, la peggior sconfitta”.

Wolf è la leggenda della guerra fredda, l’uomo degli scambi di spie sul ponte di Glenicke.
Alla fine degli anni ’80 cerca di assumere un ruolo di primo piano nelle anuova fisionomia politica della DDR, ma la prima volta che si presenta al pubblico sulla Alexanderplatz, i duecentomila scesi in piazza per protesta contro il regime restano allibiti. L’uomo della Stasi che marcia contro Honecker? Viene fischiato e la sua avventura politica è già finita prima di iniziare; si ritira così a vita privata.
Alla caduta del Muro, i servizi segreti tedesco-federali gli danno la caccia e lui ripara prima in Austria e poi in Unione Sovietica. Anche lì non è più “persona gradita” e nel 1991 ritorna in Germania.
Per sua stessa ammissione, nel 1990 rifiutò una nuova identità e una nuova vita negli Stati Uniti, in cambio dei nomi degli appartenenti alla sua rete spionistica.
Arrestato nel 1993 e processato per spionaggio e tradimento, si rifiuta di fare i nomi dei suoi agenti e viene condannato a sei anni.
Tuttavia la Corte Suprema rovescia la sentenza in quanto ha agito “su incarico di uno Stato sovrano”.
Un altro processo, nel 1997, lo vede imputato del rapimento di tre persone, viene condannato a due anni, ma la pena è sospesa.
Intanto esce la sua autobiografia, si concede volentieri a giornali e tv, d’altronde come spesso ripete “Ho solo una paga da ufficialetto”.
Racconta il suo rimpianto: ”Non ho dubbi sul comunismo, ma sui metodi con cui hanno cercato di realizzarlo. Non posso dire d'essere fiero di quello che ho fatto, ma posso dire di non aver vissuto invano."

*abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, Ministero per la Sicurezza dello Stato. Wolf in realtà non era il capo della STASI, che si occupava anche della sicurezza interna e delal repressione politica, ma del suo dipartimento di spionaggio all'estero, l'HVA.