Una vita in nome della classe operaia


In memoria di Sàndor Kopàcsi *




Socialismo e dittatura non possono coesistere - Imre Nagy


 


Sàndor Kopàcsi fu una delle principali figure della rivoluzione ungherese del ‘56. Ex operaio metalmeccanico, figlio e nipote di operai, giovanissimo seguì il padre e i suoi compagni di lavoro nei gruppi partigiani socialisti che combatterono contro i nazisti durante la seconda guerra mondiale, contribuendo a liberare l’Ungheria dall’esercito di Hitler. Dopo la guerra, come molti altri partigiani, fu integrato nella polizia dove entrò convinto di contribuire a costruire uno Stato socialista. Grazie al suo impegno, alla sua moralità e alla vicinanza con il popolo, riconosciuta anche dai burocrati più incalliti, divenne questore di Budapest nel ’52, a soli 28 anni. Vicino alle idee di Nagy, entrò nel governo rivoluzionario del ’56 e ne seguì le sorti. Arrestato nel novembre dello stesso anno e condannato a morte, fu tenuto in carcere in attesa della sentenza. Vide morire i suoi compagni e amici, come Maléter e lo stesso Nagy, mentre la sua popolarità nella classe operaia e il suo ruolo più defilato durante gli eventi rivoluzionari spinsero il regime di Kàdàr a convertire la pena capitale in ergastolo. Nel ’63, in seguito a una amnistia, venne liberato e spedito a lavorare in una fabbrica di Budapest. Nel ’75 gli fu permesso di emigrare in Canada dove viveva sua figlia assieme a una nutrita comunità di esuli ungheresi. Nel ’79 pubblicò le sue memorie, “In nome della classe operaia”, opera tradotta in otto lingue. Si è spento a Toronto, il 5 marzo del 2001.

 

In nome della classe operaia



Kopàcsi inizia il suo racconto dagli anni ’70, quando anziano operaio di fabbrica, ma faticosamente neo-laureato in legge, prova a cambiare lavoro, boicottato segretamente dal partito, seppure si fosse, si diceva, in tempi di riconciliazione. Si era salvato anni prima dal patibolo per intervento personale di Kàdàr presso Krusciov, e l’amnistia lo aveva poi liberato dall’ergastolo, ma non poteva pretendere più che un posto da operaio tornitore. Dopo una dura battaglia e dietro consiglio di Mosca, il partito si arrenderà, consentendo all’ex questore e a sua moglie di emigrare. Erano divenuti troppo scomodi.

Flashback…e l’autore torna al capodanno del ’55, quando, fresco di nomina a questore della capitale, viene invitato con la moglie in una lussuosa villa nei dintorni della capitale dove i generali russi e i dirigenti di partito festeggiano l’anno nuovo e a questi è presentato con tutti gli onori. In quei mesi prima della tempesta il suo lavoro procede tranquillamente. Tra i tanti episodi divertenti, l’autore racconta quello di un giovane dirigente di partito, Szalai, che lo chiama scandalizzato per la presenza di prostitute nelle strade di Budapest ricevendone una risposta serafica: “ce ne sono cinquemila schedate e quindicimila non schedate”. Ne segue una comica spedizione di alti ufficiali ungheresi e del KGB per i bassifondi della città a constatare la presenza di ubriachi e prostitute nonostante si stesse “costruendo il socialismo”.

Cambia ancora la scena, e Sàndor ci racconta della sua gioventù. Suo nonno e suo padre avevano passato la vita nella enorme acciaieria di Diòsgyör, insieme ad altri ventimila operai. Lui entra in fabbrica giovanissimo e da subito diviene un attivista del movimento operaio. A quindici anni è ferito dai fascisti mentre accompagna di notte il padre a distribuire volantini contro i fascisti per conto dei socialdemocratici di cui era dirigente giovanile. L’adolescenza di Kopàcsi passa così tra macchine utensili e militanza politica. La situazione non è facile per i militanti di sinistra: in quegli anni è al potere il reggente Horty, che decide di entrare in guerra al fianco di Hitler. Ne fecero le spese trecentomila uomini, il fiore della gioventù ungherese, e quattrocentomila ebrei.

In questo periodo Kopàcsi, entrato nella resistenza, conosce la moglie Ibolya che gli sarà sempre vicino anche nei momenti più tragici. Nel settembre del ’44 Horty, imitando Badoglio, cerca di sfilarsi dal disastro in cui stavano precipitando le armate naziste e dichiara la cessazione delle ostilità. Il giorno stesso, il partito delle Croci Frecciate, i fascisti ungheresi, prende il potere instaurando un regime di terrore. Intanto i tedeschi si ritirano dal paese, incalzati dall’Armata Rossa e dai partigiani, ma con calma.

Vinta la guerra, i partigiani sono inquadrati nelle nuove forze dell’ordine ungheresi e così il metalmeccanico Sàndor diviene poliziotto, entusiasta di contribuire all’edificazione dello Stato operaio, ma le delusioni cominciano subito. Socialisti e comunisti avevano lottato fianco a fianco nella resistenza, ma ora gli stalinisti, su ordine di Mosca, usano ogni pretesto per isolare e schiacciare tutte le altre correnti del movimento operaio. Nell’estate del ’46, dei minatori affamati e disperati avevano linciato un contabile e la polizia per vendicarsi ne aveva torturati alcuni. Due giorni dopo, ventimila minatori chiedono la testa del capo locale della polizia politica, invadono il commissariato uccidendone il capitano. Kopàcsi salva la vita a moglie e figlio di quell’ufficiale rischiando la sua. Non era solo determinazione e coraggio, riesce perché la classe operaia gli riconosce autorità e gli operai contano ancora molto nel Paese. Così quando Kàdàr e altri dirigenti vanno a scusarsi con i minatori riuniti in assemblea, vengono fischiati e il futuro capo di Stato riceve anche dei sonori schiaffoni.

Nella primavera del ’49, ufficiale brillante e promettente, Kopàcsi è trasferito a Budapest e proprio nel cuore dell’apparato, alle dipendenze del Comitato centrale. Il regime era fiero di lui: un vero figlio della classe operaia che si era distinto come partigiano e come saggio poliziotto in periferia. Lì incontra figure che considera ancora leggendarie, come Ràkosi e Gerö, all’epoca i capi della frazione alle dirette dipendenze di Mosca, mentre Rajk e Kàdàr erano più in ombra, anche se in posizioni di rilievo, per non parlare di Nagy, considerato un innocuo studioso, discepolo di Bucharin.

Da un giorno all’altro, l’atmosfera cupa ma ancora vivibile, cambia violentemente. Molti alti dirigenti, tra cui il Ministro degli Interni Làszlò Rajk, scompaiono improvvisamente. Tutti si domandano che cosa sta succedendo finché non emerge la verità ufficiale: è stato sventato il “complotto delle spie di Tito”. Il superiore di Kopàcsi, Szilagyi, gli dice subito che è una montatura ma che bisogna tacere. Gli stessi sovietici che avevano arrestato e torturato Rajk e gli altri, sanno che è tutto falso ma pretendono che i prigionieri si prestino alle necessità del regime. Così, dopo mesi di torture atroci, si presentano dai prigionieri e gli spiegano che sapevano della loro innocenza ma che la situazione internazionale era complessa, l’imperialismo aveva mille risorse, e gli chiedono di assumersi comunque la responsabilità dei fatti per il bene del partito e dello Stato in cambio della liberazione. Molti accettano, e non solo per calcolo. Gli stalinisti li ripagano con il patibolo.

La campagna farsesca contro Tito apre gli occhi a molti quadri onesti che ancora militavano nei partiti comunisti di fede moscovita. Làszlò Angyal, dirigente dei servizi di sicurezza, si suicida. La sera prima di spararsi lascia una sorta di testamento orale al suo ufficiale Szilagyi: “il nostro ideale, l’ideale comunista è un ideale puro. Non può ammettere imbrogli e assassinii. La vita dei compagni non è moneta di scambio. Se questo è il partito comunista, non vale la pena vivere”. Il colonnello Benkö lascia le tante medaglie conquistate in anni di onorata carriera per il regime attaccate a un cartello con scritto “non vi è bastato?” e scappa oltre confine. Il massacro colpisce gli elementi più devoti e onesti del movimento operaio e consegna il partito ai peggiori stalinisti. A forza di silurare ufficiali e dirigenti come traditori, il regime arriva allo stesso Kàdàr, che viene arrestato e torturato. Kopàcsi, pur ancora fiducioso nel regime, è dubbioso ma viene rassicurato “i traditori si annidano ovunque, anche nella classe operaia”. La linea del regime è semplice: è tutta colpa di Tito, “cane rabbioso dell’imperialismo”.

A metà del ’49 Kopàcsi, già capitano, viene nominato responsabile dell’organo che decide sulla prosecuzione dell’internamento, composto, oltre che dal giovane e promettente ufficiale, da un avvocato ereditato dal vecchio regime e da un colonnello dell’AVH giurista. Le riunioni sono semplici e informali. La maggior parte dei casi riguarda furti e delitti rurali, pochissimi riguardano le classi “ostili al regime”. Tuttavia, per ovvie ragioni politiche, i poveracci che finiscono nei campi di lavoro per aver sottratto un sacco di patate allo “Stato socialista” sono tutti classificati come spie inglesi o francesi, o trotskisti, quando non come elementi reazionari o fascisti. Kopàcsi, ancora fedele al regime ma anche scrupoloso nel suo lavoro, decide di visitare i campi di prigionia, come Kistarcsa, un gulag in miniatura. Vi trova contadini rinchiusi anni per aver rubato dieci chili di mais o un maiale. C’erano poi i veri “politici”, cioè i prigionieri di massima sicurezza, eroi del movimento operaio invisi al regime. Osserva Kopàcsi: “la constatazione era amara: in uno Stato in cui il potere apparteneva agli operai e ai contadini, la maggioranza dei detenuti erano operai e contadini”. Appena tornato dal campo, fa liberare 95 dei 150 prigionieri. Poche ore dopo viene allontanato dal posto per manifesta ingenuità e dopo pochi giorni inviato a “formarsi” alla scuola di partito, “scuola di insensibilità, scuola di automi”, osserva. Le lezioni teoriche vertono su Hegel e Lenin, ma in realtà si insegna la delazione e il sospetto. Gli allievi sono sottoposti a continui interrogatori, piccoli processi. Quelli che non resistono si suicidano. Così viene plasmata la nuova leva di dirigenti dello Stato “socialista”.

È lo stesso Ràkosi a volere Kopàcsi colonnello. Lui, basso ed ebreo, vuole un questore alto ed ariano e soprattutto operaio per rilanciare la polizia della capitale. Andava a sostituire un questore che usava la polizia per epurare il partito riempiendo le celle di ufficiali mentre i criminali erano liberi per la città. Questo soggetto, Moravetz, cadde definitivamente in disgrazia quando il 4 aprile, festa della liberazione, invece di assicurare il servizio d’ordine inviò tutte le forze a circondare l’ambasciata iugoslava con ovvie conseguenze per la manifestazione che finì con comici scontri tra blindati circondati dalla folla senza controllo. Appena arrivato Kopàcsi fa liberare i poliziotti detenuti. La svolta ha l’appoggio del ministro Hàzi che era sì un dogmatico dalla testa dura, ma credeva davvero che occorresse fare ricorso ai migliori quadri proletari del paese per andare avanti. Conosce subito anche i sovietici assegnati alla questura, che si mostrano abbastanza gioviali. Come i ministri del vecchio regime, abitavano nei quartieri residenziali della capitale, con piscine e parchi privati. Il povero questore operaio deve però subito affrontare una prova di forza con l’AVH, la “punta di lancia della classe operaia ungherese”, che si installa al piano superiore della questura e pretende di usarne come roba sua. Erano i veri capi, nota Kopàcsi, “al di sopra del partito e dello Stato”. L’AVH si occupava solo degli ufficiali di polizia, anziché del crimine. Arrestavano ufficiali “glorie del movimento operaio” come dice l’autore, senza nessuna prova. Scoprivano congiure, complotti, cospirazioni, senza mai addurre nulla di minimamente concreto. Cercavano di schiacciare ogni minima prova di autonomia, di creatività. Nella primavera del ’56 questi signori cominciarono a frequentare le riunioni del circolo Petöfi. La cosa interessante è che gran parte di loro si dichiarò d’accordo con le idee di riforma che vi si esprimevano. Il più duro, Dohàny, che aveva fatto passare l’inferno a Kopàcsi, si rifiutò di ritrattare il suo appoggio alle idee di riforma e fu cacciato dai servizi segreti. Se ne tornò in fabbrica e all’autore disse “sarebbe meglio se non l’avessi mai lasciata”. Altri dirigenti dell’AVH, di lì a poco, fecero altre scelte.

Una delle prime prove che il nuovo questore deve affrontare è la morte di Stalin. Kopàcsi racconta onestamente di quando, circa trentenne, si trova a piangere come un bambino la morte del dittatore ma con sua sorpresa Emeljanov, primo consigliere sovietico presso il Ministero degli Interni gli disse “non fa niente”. “Ma come”, risponde l’autore, “è una disgrazia per l’umanità intera”. Questa considerazione era ancora condivisa nella popolazione. Non a caso Kopàcsi fa preparare con cura il servizio d’ordine per la folla che si attendeva sotto la statua di Stalin. Alla fine arrivarono trecentomila persone ad ascoltare Gerö che per fortuna fece un discorso che nessuno sentì, la folla ruppe i cordoni e andò ovunque, ma senza conseguenze. A Mosca il KGB nella stessa circostanza aveva usato i mitra e i tank, con centinaia di morti.

La sorpresa per il giovane questore della capitale per l’atteggiamento di Emeljanov divenne completo sbalordimento quando apprese che Stalin non era stato infallibile e che i suoi metodi erano sbagliati. Ràkosi venne destituito. Di tutti i dirigenti stalinisti dell’Europa centrale si era rivelato il più insensibile. Di fronte al Presidium del Soviet Supremo, i dirigenti del PCUS lo avevano distrutto, accusandolo di incapacità. I sovietici vedevano che le cose andavano male in Ungheria, che nei centri industriali la classe operaia era scontenta. Accusavano la direzione ungherese di avventurismo: “State costruendo una metropolitana modernissima e non avete di che sfamare la classe operaia”, anche la collettivizzazione era stata un disastro e Krusciov dice profeticamente al dirigente ungherese: “Se continua così il suo popolo lo caccerà con la forca”. I sovietici, dimostrando notevole fiuto, imposero la coabitazione con Nagy di cui dicevano che era un bolscevico sperimentato sin dal 1918. Ciò pose fine allo strapotere della cricca Ràkosi almeno per un po’.

L’autore intanto viene “eletto” deputato nella decima circoscrizione della capitale e il caso vuole che entri in Parlamento proprio nella seduta in cui Nagy legge il programma di riforme applaudito convintamente da tutta l’aula e non con “quell’applauso ritmico ereditato dal fascismo e obbligatorio nel regime comunista”; persino Ràkosi applaudiva. C’era entusiasmo tra i funzionari onesti del regime. Finalmente metteremo le cose a posto, pensavano. Il colonnello decide di fare un giro nella sua terra natale e trova una situazione disperata. Quadri veterani del movimento operaio, che avevano fatto la resistenza, comunisti o socialisti, che avevano lottato in montagna e nelle fabbriche, erano completamente demoralizzati. I proletari erano allo stremo. Un suo amico operaio, da sempre comunista, gli dice: “Se va avanti così sarà un massacro. La classe operaia prenderà le armi”.

Questo quadro, come visto non sfuggiva al Cremlino. Per questo nel ’54 Krusciov aveva umiliato Ràkosi di fronte agli stessi dirigenti ungheresi. Kopàcsi era combattuto, ammirava Nagy ma era stato forgiato a pensare a Ràkosi come a “nostro padre” e sperava potessero lavorare assieme. Alcune cose in effetti cambiarono. Vennero liberati alcuni socialdemocratici (di destra), rispuntò Kàdàr. I prigionieri liberati spiegarono come l’AVH non avesse nulla da invidiare agli sbirri di Horty. Gente a cui avevano rotto tutti i denti, coniugi pestati e mutilati uno in presenza dell’altro. Il “pugno d’acciaio della classe operaia” aveva comportamenti degni della Gestapo.

Nonostante la cricca Ràkosi-Gerö avesse dovuto fare concessioni sotto pressione di Mosca, nel ’55 la situazione rimaneva difficile. I cambiamenti erano pochi e di facciata. Quando, come risposta al riarmo occidentale l’URSS creò il Patto di Varsavia, gli stalinisti più duri videro l’occasione per rialzare la testa.

Il 7 gennaio del ’55 in una riunione a Mosca, Ràkosi riprende il controllo e isola Nagy che di lì a poco viene addirittura espulso dal CC. Colto da una crisi cardiaca, disoccupato, Nagy se ne stava nella sua villetta quando andò a trovarlo Suslov, eminente membro del Politburo sovietico che lo apostrofa così: “Compagno Nagy, noti che continuo a chiamarla compagno, faccia autocritica e sarà immediatamente restituito alle sue funzioni”. A questa provocazione rispose per le rime: “Compagno Suslov, la ringrazio di chiamarmi compagno dopo quarant’anni di lotte nel movimento operaio”, ma rifiuta l’autocritica e viene espulso dal partito. La rivincita dell’ala più stalinista però dura poco, giusto il tempo perché Krusciov legga il famoso “rapporto segreto”. Per molti dirigenti comunisti di tutto il mondo, e non tutti inveterati stalinisti, è letteralmente un mondo che crolla.

Alcuni trovano nella denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin il coraggio, la forza di capire e cambiare rotta. Dopo appena un mese dalla diffusione del rapporto, Kopàcsi arringa coraggiosamente centinaia di agenti riuniti nel cortile della questura, spiegando che Ràkosi ha fatto degli errori e che deve fare autocritica. Applausi scroscianti. Contro il vecchio dirigente stalinista si agita Tito, che come gesto distensivo da parte di Mosca ne esige la testa.

Nella società ungherese, anche per effetto del nuovo corso al Cremlino, comincia a muoversi qualcosa. Alle riunioni del circolo Petöfi iniziano a partecipare figure famose, dal filosofo Lukàcs allo scrittore Déry, e parlano male degli stalinisti. Il 17 luglio Ràkosi prova l’ultima prova di forza. Convoca l’ufficio politico del partito per leggere un rapporto contro i “revisionisti”, ma proprio mentre sta leggendo il rapporto, si apre la porta ed entra Mikoyan giunto da Mosca con il preciso intento di farlo fuori. Prima fa segno di continuare salvo poi alzare la mano e iniziare a criticarlo: “Compagno Ràkosi perché parla male delle riunioni del circolo Petöfi se mi dicono che alla fine il pubblico grida “viva il partito” e canta l’Internazionale? È la prima volta che sento dei controrivoluzionari che amano questo canto”. Krusciov costringe Ràkosi a dimettersi ma al suo posto va il suo fido cane da guardia Gerö, pure costretto a riabilitare Rajk e gli altri “traditori titoisti”. Le esequie di questi onesti comunisti, con cui il partito ammetteva i propri errori, vennero organizzate per il 6 ottobre. L’esasperazione crescente faceva presagire problemi. Invece non ci furono disordini. Sfilarono duecentomila persone senza dire nulla, senza un grido, come ultimo silenzioso e non recepito avvertimento al regime.

Il 23 ottobre del 1956 era una giornata radiosa. Era stata convocata per la sera una manifestazione studentesca in solidarietà con la Polonia di Gomulka. Al regime non era chiaro quanto le rivendicazioni degli universitari, per la verità ancora generiche, andassero prese sul serio. Il Ministro degli Interni decide di vietare la manifestazione anche se convocata dall’organizzazione giovanile del partito. Il punto è che cosa fare se la manifestazione si tiene lo stesso. Kopàcsi, responsabile dell’ordine pubblico nella capitale, spiega ai suoi superiori che per impedire un corteo bisogna averne i mezzi. Prima della guerra, nota, la polizia di Horty aveva le sciabole, con cui colpiva i manifestanti di piatto, e aveva i cavalli. Ma la polizia del ’56 non aveva né sciabole né cavalli e nemmeno manganelli, né i pompieri erano abituati a usare gli idranti contro la folla. Il ministro suggerì di usare il calcio dei fucili ma Kopàcsi si irritò: “Avete sbagliato a ridurre un caso politico a un problema di ordine pubblico”. Alla riunione al Ministero partecipava anche il consigliere sovietico. Sebbene i russi avessero più volte avvertito il partito ungherese dei suoi errori, di fronte alla crisi non possono che schierarsi con la frazione più rigida. Il consigliere parla di teppaglia fascista e lacchè dell’imperialismo. È il segnale dei giorni che verranno. Kopàcsi però non cede. Dopo tutto c’è stato il XX Congresso, lo stalinismo non va più di moda e così risponde: “Caro compagno sovietico, lei è qui da poco non ha avuto tempo di informarsi. Non sono fascisti ma il meglio del proletariato, la classe dirigente di domani”. Alla fine anche Gerö si convince: il divieto è tolto. Kopàcsi e il vice ministro vanno nella tana del leone a dare la buona notizia, nell’assemblea permanente degli studenti che appena li vedono iniziano a fischiare, ma quando i due annunciano al microfono che la manifestazione è autorizzata, l’applauso è fragoroso.

La scelta ragionevole del vertice però non risolve il problema. Il questore è inquieto e decide di seguire in macchina il corteo. Vede i cartelli degli studenti “Nagy al potere”, “democratizzare il partito” e anche “i russi in Russia”. La folla è enorme e cominciano ad arrivare anche gli “adulti”. Quando il corteo passa davanti a una caserma di allievi ufficiali, Kopàcsi nota non solo che da dentro la caserma cantano gli stessi slogan, ma che hanno tolto dal centro della bandiera nazionale l’effige del regime. Il corteo ne è entusiasta. Kopàcsi torna in questura e gli comunicano che la gente ha cominciato a “smontare Stalin”, ovvero la monumentale statua vicino a Piazza degli Eroi: “La gente sta smontando Stalin. Chiedonsi ordini immediati. Tenente Kiss, n. 3”. Vi erano almeno centomila persone attorno alla statua che in realtà il consiglio comunale aveva già deciso di spostare, anche se con comodo. Kopàcsi chiama il suo ufficiale Kiss, ex metalmeccanico ora tenente di polizia: “Quanti siete?”, “Venticinque, compagno colonnello”, Sspero che in venticinque non abbiate alcuna intenzione di disperdere centomila persone”, Kiss fa passare qualche secondo e poi risponde “Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello”. Kopàcsi rimase stupito. Sarebbe bastato un ordine e avrebbero fatto fuoco. Ovviamente il questore non dà quell’ordine. Dopo aver smontato Stalin, la folla si raduna attorno al parlamento in attesa di Nagy. Secondo la polizia, spiega l’autore, c’erano almeno 500.000 persone, cioè un terzo e oltre della popolazione della capitale.

Nagy non sapeva che fare, e Kopàcsi spiega molto bene perché: si trattava pur sempre di un dirigente abituato da una vita a seguire la linea. Aspettava il via libera della direzione, non voleva mettersi contro il partito e contro i sovietici. Mentre Kopàcsi rimuginava su questo, i suoi uomini nella piazza del parlamento gli comunicano che l’AVH ha riempito i tetti di uomini armati fino ai denti. Alla fine Nagy parla alla folla, senza nemmeno microfono, ma nessuno lo ascolta. È un discorso abbastanza spento. Quella stessa sera arriva in ufficio dal questore una sua vecchia conoscenza, un consigliere sovietico di grande saggezza che chiamavano Petöfi. Si sapeva che Gerö doveva parlare alla radio quella sera e il consigliere, come tutti, si aspettava toni pacati e di riconciliazione. Dice al questore: “È un uomo saggio e un vecchio compagno”. E invece…

Gerö fa un discorso tagliente accusando i manifestanti di essere nemici del popolo. Mano a mano che parla, in questura gli sguardi si fanno bui. Petöfi ascolta con la testa tra le mani. I dirigenti dell’AVH, consci di cosa ciò avrebbe comportato per loro, sono disperati. Kopàcsi racconta che a un certo punto uno degli ufficiali superiori, impugnata la pistola, decide di salire da Gerö e farlo fuori. Viene fermato a forza dagli altri. Allora l’ufficiale getta l’arma per terra e calpestandola urla: “Per colpa di quella carogna di Gerö creperemo tutti." Aveva ragione.

Un commissario di Kopàcsi, di una caserma vicino al Teatro Nazionale, gli annuncia l’inizio della rivoluzione: “Sparano dai tetti”. Il questore chiede se ci sono feriti. Per fortuna la gente si era riparata. Kopàcsi si tranquillizza anche se maledice l’AVH. Poco dopo il suo ufficiale lo richiama: i passanti sono armati. Infatti, proprio durante la sparatoria era passata una squadra motorizzata dell’esercito. Le reclute, contadini inesperti, avevano dato tutte le armi ai passanti. Decine di fucili, mitra e casse di munizioni erano state consegnate alla popolazione. Dopo poche ore le unità dell’esercito non solo distribuivano ovunque armi alla popolazione, ma scomparivano in massa per unirsi alla folla e andare a caccia dei cecchini dell’AVH. Anche il “commando speciale” specializzato in guerriglia urbana passa coi rivoltosi in un’oretta. D’altra parte l’AVH li aveva accolti sparando. Erano impazziti, dalla paura.

Kopàcsi racconta di un vicecommissario di periferia che gli spiega al telefono come dei rivoltosi avessero occupato la caserma senza fargli del male. “Dimmi Lajos - chiede il questore - gli insorti ti hanno malmenato?” “Perché lo dovevano fare? Sono entrati e mi hanno chiesto educatamente di dargli la pistola. Figurati! Allora gli ho risposto che quella pistola non gliela potevo dare perché ne sono personalmente responsabile e che il suo numero è segnato nell’inventario e che ci ho messo la mia firma. Ci sono rimasti di stucco e se ne sono andati senza chiedermi più niente”. Questo rende l’idea di come, nonostante il crepitio delle mitragliatrici dell’AVH, i rivoluzionari sapessero ancora mantenere la calma.

Kopàcsi e i suoi uomini circondano la barricata vicino alla questura e arrestano i ragazzini che la animano, tutti proletari, spesso con la tessera del partito in tasca. Il questore li mette in cella con un caffè e un panino. Volevano una “Ungheria libera”. Kopàcsi si chiedeva che volesse dire. Intanto si sparge la voce che Nagy è stato riammesso nel Politburo. Ma era tardi. Anche se l’AVH era armata in modo pesante, ormai lo era anche la popolazione. Dopo poche ore, Gerö si convince che la situazione è sfuggita di mano e chiama i russi. Iniziano così ad affluire dal lago Balaton le riserve blindate dell’esercito sovietico. La tattica dei russi, sotto il profilo militare, era affrettata, al limite della follia. Utilizzavano tank e pezzi di artiglieria senza appoggio aereo né fanteria, rendendo i carri e i cannoni facili prede degli insorti. Speravano di intimidire la popolazione facendo avanzare colonne di T-34 a tutta velocità e sparando all’impazzata, ma riuscivano solo a esasperare gli animi. A Csepel gran parte degli abitanti del quartiere erano stati armati dai lavoratori della fabbrica di armi Lampart, la più grande del paese. Anche l’arsenale della scuola ufficiali era stato svuotato. In questura la situazione era difficile, circondata com’era dalle mitragliatrici dagli insorti. Era inutile sperare nei rinforzi, tanto più che le unità blindate ungheresi si erano volatilizzate.

Nagy, divenuto capo del governo, interviene alla radio con un discorso ondivago. Promette di ricominciare con il suo programma di riforme senza far menzione delle brutalità di Gerö. Intanto in questura espongono su richiesta degli insorti la bandiera con il buco in mezzo e la battaglia è finita. Bastava quello. Poco dopo, i capi degli insorti vogliono conoscere il questore: “ieri ancora sconosciuti, questi nomi erano oggi quelli più famosi di Budapest. I fratelli Pongràcz, giovani operai della periferia di Budapest, e Sàndor Angyal, anch’egli giovane operaio dell’isola di Csepel, comandavano in pieno accordo i due principali gruppi di insorti. I fratelli avevano la loro sede nel cinema Corvin, Angyal invece aveva stabilito il suo QG alcune strade più in là, in pieno centro del quartiere proletario di Ferencvaros”. Vogliono conoscere Kopàcsi per convincerlo a passare con loro. Si trattava di una figura prestigiosa con una forte autorità nel proletariato, ma il questore risponde che non serve più combattere, ora c’è Nagy al potere. Ai capi degli insorti non basta: finché i sovietici occupano il paese non deporremo le armi, gli rispondono. Dal canto suo, il governo Nagy chiede a Kopàcsi di intavolare trattative con i combattenti: l’amnistia in cambio della rinuncia alle armi.

Discutendo con loro, il questore trova molti punti in comune: i capi degli insorti volevano un governo “ampio” guidato da Nagy e un paese neutrale. Kopàcsi gli chiede perché avevano mitragliato carristi russi indifesi. Questi negano. Ma allora chi era stato? L’AVH? Spiega il questore che “la maggior parte degli uomini erano giovani operai, studenti e c’erano parecchi militari, tra cui tutti gli allievi ufficiali”.

Il 25 ottobre gli studenti di lingue orientali distribuivano volantini scritti in russo che iniziavano con la famosa citazione di Marx “un popolo che ne opprime un altro non può essere libero”. Li ficcavano nei carri e spesso i carristi russi uscivano dalle torrette ed erano acclamati dalla folla: “viva l’esercito sovietico”, come nel ’45. Unità corazzate russe giravano per la città con le bandiere ungheresi. La prima ondata si stava dunque concludendo in modo pericoloso, con la fraternizzazione di buona parte dei soldati occupanti con gli insorti. L’AVH ritiene giunto il momento di intervenire nuovamente e solo l’intervento dell’esercito sovietico, ironicamente, pone fine al massacro: “sulla piazza la folla, completamente allo scoperto, subiva il fuoco continuo delle mitragliatrici pesanti, nascoste sui tetti. La carneficina sarebbe finita solo grazie all’intervento dei blindati sovietici - una ventina di carri che circondavano il parlamento. Per fortuna, il loro comandate, giudicando che i limiti erano stati oltrepassati, fece dirigere il fuoco dei suoi cannoni contro i servizi di sicurezza ungheresi, imboscati sui tetti”.

La strage ha come conseguenza immediata che Kàdàr prende il posto di Gerö a capo del partito. Intanto, la popolazione inferocita cerca i responsabili. In diecimila armati circondano la questura imponendo di rimuovere la stella rossa in cima all’edificio. I poliziotti la tolgono ma la folla rimane nervosa. Kopàcsi prende una sedia si fa largo tra la folla armata, sale sulla sedia e dice: “Mi chiamo Sàndor Kopàcsi. Sono il questore di Budapest. Soddisferò le vostre richieste. Suppongo che siate come me, per l’ordine rivoluzionario. Nominerete una delegazione di cinque persone che potranno entrare in questura…suppongo che il vostro senso della democrazia rivoluzionaria vi dica, come a me: i criminali comuni non devono essere liberati”. La gente entusiasta chiede nuovamente al questore di passare con loro. Kopàcsi risponde che la polizia è con la popolazione ma deve assicurare l’ordine pubblico: “Non vorrete che affrontiamo i criminali a mani nude”. Qualcuno ride, altri dicono: ma sì lasciategli le armi. I prigionieri, una cinquantina di ragazzi, spiegano alla folla di essere stati trattati bene, curati e di aver mangiato. La folla grida “viva Kopàcsi, sei un uomo di parola”. In quella circostanza Kopàcsi ritrova il suo vecchio amico Szilagy, che gli parla entusiasta dell’etica rivoluzionaria di quei giovani. Racconta di gioiellerie con vetrine infrante sorvegliate perché nulla sia portato via. Nelle fabbriche e nei quartieri operai si eleggono comitati rivoluzionari, organi di contropotere: “Si stanno formando i soviet, Sàndor, i veri soviet, come quelli che nella Russia del 1917 non sono riusciti a sopravvivere! La nostra nazione sanguina…ma da questo bagno di sangue uscirà il primo e unico stato socialista democratico del mondo”.

Se i poliziotti e i soldati sono benvoluti dalla folla, i funzionari dell’AVH, spaventati, sparano su qualunque cosa si muova. Più di cento ufficiali e soldati dell’AVH si rifugiano in questura per sfuggire alla sorte rivoluzionaria.

Il 30 ottobre è forse il momento più alto della rivoluzione. L’AVH viene sciolta, ci sono soviet ovunque, “pareva che anche i russi stessero per cambiare posizione”. Nagy sembra avere la forza per ripulire il partito. La creazione di strutture rivoluzionarie fornisce un senso ai combattimenti, prima anarchici. Gli elementi più politicizzati prendono il controllo delle formazioni armate.

Kopàcsi racconta dell’incontro tra Nagy e Mikoyan, che finisce con il dirigente sovietico che dice ai presenti: “Cercate di aiutare Nagy” e a Nagy “salvate il salvabile”, lo abbraccia e se ne va in lacrime. Persino Nagy, uomo molto prudente e grande conoscitore dei sovietici, è di umore eccellente. Pensava fosse fatta? Comunque al suo stato maggiore provvisorio spiega la sua prospettiva: i tank si ritirano, costruiremo un paese socialista e democratico. Il partito viene rinominato Partito socialista ungherese dei lavoratori; il Politburo provvisorio è composto da Losonczy, Lukacs, Donàth, Szànthò e Kàdàr. Il questore aiuta l’ordine rivoluzionario creando due divisioni rivoluzionarie con cui ripulire Budapest dagli elementi sospetti e dai criminali.

Può rendere l’idea della forza che la rivoluzione aveva e del terrore di contagio che incuteva nei dirigenti stalinisti il fatto che i soldati e gli ufficiali ma anche i consiglieri sovietici che rientravano dall’Ungheria subivano un trattamento speciale. Erano considerati infettati e dunque venivano isolati e interrogati per settimane con durezza. A volte fucilati.

Il centro dell’insurrezione, dove si riunisce lo stato maggiore rivoluzionario, è la caserma Kiliàn. Lì Maléter, nuovo capo delle forze armate, riunisce i rappresentanti degli insorti e delle forze rivoluzionarie e spiega: “Abbiamo combattuto, e molti dei nostri sono morti per un Ungheria indipendente e socialista. Mi pare che ci siamo. I russi se ne vanno. Siamo riuniti per gettare le basi di una forza dell’ordine nata dall’insurrezione. Bisogna evitare che in questa forza s’introducano elementi reazionari, che vogliono ristabilire il vecchio regime, precedente alla guerra. Quel regime è morto, completamente morto, da noi non potranno più esistere capitalisti e proprietari terrieri. Sono stato chiaro? Siete tutti d’accordo?” Ovazione. Ovviamente il povero Maléter si illudeva, ma per qualche giorno sembrava davvero così.

L’esercito rivoluzionario si pone il compito di ristabilire l’ordine, impedendo anche infiltrazioni da occidente per evitare pretesti ai russi. Non senza difficoltà il questore convince la folla che stava saccheggiando il Ministero degli Interni ad andarsene, e i rivoluzionari vanno verso i sobborghi ricchi della capitale a cercare i peggiori stalinisti casa per casa. Come sempre durante le rivoluzioni, si paga un duro prezzo per la disorganizzazione. Alle provocazioni dell’AVH si risponde scompostamente, vengono massacrate reclute dell’esercito senza responsabilità ma con la divisa sbagliata. Tuttavia, come spiega Kopàcsi, la sete di vendetta si calmava in fretta.

Il questore in quelle ore lavora fianco a fianco a Bèla Kiràly “vero militare e patriota socialista” che stava facendo di tutto per preparare una forza in grado di riportare l’ordine rivoluzionario, con qualche successo. Le strade sono piene di cadaveri, detriti, mezzi militari distrutti, ma anche di contadini che distribuiscono cibo gratis: “I coltivatori del paese erano visibilmente riconoscenti alla classe operaia di Budapest per aver messo fine al regime dei kolchoz che ora per lo meno non erano più obbligatori”. Ovunque si eleggono soviet, persino al Ministero delle Finanze. Gli operai, preso il controllo delle fabbriche, si apprestano a ricominciare a produrre. Per un breve periodo, la transizione a un regime genuinamente operaio e socialista sembra cosa fatta.

L’entusiasmo di Kopàcsi e di tutti gli altri dura però lo spazio di poche ore. Il questore viene gelato dal suo amico Szilagyi che lo avverte per telefono: dalle frontiere con l’URSS le guardie segnalano il ritorno di truppe e mezzi. Si parla di 200.000 uomini, 8 divisioni corazzate. A quel punto Kopàcsi e gli altri decidono di andare avanti come nulla fosse. Intanto, i ministri ungheresi, tra cui Kàdàr, consegnano ad Andropov ambasciatore russo, la dichiarazione di neutralità dell’Ungheria. Delegazioni di operai, contadini, cittadini, formano una enorme processione in Parlamento per vedere e parlare con Nagy. Tutti sono all’oscuro di quello che si prepara e poco dopo Kàdàr si rende irreperibile.

Maléter parte per le trattative coi russi a Tokol, Nagy abbozza un sorriso, ma da decenni di esperienza con i sovietici, sa che potrà aspettarsi poco. Intanto, 5 colonne corazzate stanno convergendo verso la capitale. La notte è lunga e alla mattina gli abitanti di Budapest vengono svegliati dal rumore di colonne di T-34 che corrono a tutta velocità tra i viali della capitale. È la seconda invasione.

Nagy decise che non ha senso resistere - sarebbe un inutile massacro - e dà l’ordine di non rispondere al tiro dell’artiglieria sovietica, ma vi sono comunque scambi rabbiosi di colpi. Dietro ai blindati viene l’appena formato governo operaio e contadino con a capo Kàdàr. Kopàcsi, che assieme allo stato maggiore della rivoluzione si trova in Parlamento quando la capitale viene invasa nuovamente, è incaricato di trattare la resa. Con una bandiera bianca si dirige verso le colonne blindate sovietiche in mezzo ai soldati ungheresi piangenti. I russi li trattano con durezza: devono buttare le armi e arrendersi senza condizioni. Molti sono caricati sui treni e deportati in URSS, mentre Kopàcsi riesce a scappare con un amico e la moglie. Mentre si allontana dal Parlamento, vicino a piazza Szabadsàg riconosce il cardinale Mindszenty che sta correndo a rifugiarsi nell’ambasciata americana dove resterà sette anni. I russi si accaniscono particolarmente con la caserma Kiliàn. Spiega l’ex questore: “Erano i membri della Guardia nazionale, attaccati dalle unità blindate sovietiche. I grossi carri bombardavano a distanza ravvicinata le fragili mura della vecchia caserma. Le scale dell’ingresso erano ricoperte di cadaveri di giovani combattenti”, chiedono istruzioni a Kopàcsi e il questore risponde: “Ragazzi non c’è più un governo in piedi. Ognuno combatte per l’onore e per la propria vita. Se è troppo dura, bisogna mollare”. Ma non mollarono: “dopo gli assalti fuori dei blindati, l’ex roccaforte di Maléter avrebbe subito un bombardamento aereo in piena regola. Eppure resisterà fino all’alba del 7 novembre. I russi non avrebbero trovato praticamente che morti e feriti gravi”, stessa sorte toccò ai quartieri operai. Gli operai di Csepel riescono a infliggere gravi danni alle colonne blindate russe, ma vengono puniti duramente con la devastazione dell’isola.

Le unità corazzate non prendono i rischi della prima invasione. Radono al suolo i palazzi da cui parte anche un solo colpo. Centinaia di isolati, soprattutto nei quartieri operai, vengono distrutti con dentro i loro abitanti. Kopàcsi riceve telefonate degli ufficiali dell’AVH tornati assieme ai tank russi che minacciano vendette, “erano rimasti ignoranti, brutali, esattamente come prima dell’insurrezione”. Il ruolo di Kàdàr risulta incomprensibile a Kopàcsi: “non potevo immaginare Kàdàr - ex vittima di Ràkosi e dello stalinismo/ungheria_1956/, che aveva combattuto con noi contro le illegalità dei servizi di sicurezza - capace di cambiare bandiera e di mettersi al servizio della più bieca delle polizie segrete: quella russa”. Comunque spazzerà i residui dell’epoca Ràkosi, pensava Kopàcsi, e tutto sommato andò così, ma non prima di una spaventosa repressione.



L’autore e la moglie vengono catturati vicino all’ambasciata iugoslava circondata dai tank. Vengono portati in un cingolato per le strade della capitale mentre infuria una battaglia spaventosa, con decine di pezzi dalle due parti che sparano senza sosta. Portato al cospetto dei generali russi, viene affrontato dal nuovo consigliere capo per l’Ungheria Serov, generale del KGB: “Fetente, sono il generale dell’esercito Ivan Aleksandrovic Serov, membro del Comitato centrale del partito bolscevico, presidente del Comitato della sicurezza dello Stato presso il Consiglio dei ministri dell’URSS [cioè capo del KGB]. Durante la riunione del 23 ottobre mi hai trattato duramente. Ti farò impiccare sull’albero più alto di Budapest”. Kopàcsi viene portato via pensando che ormai gli rimanga ben poco da vivere. Sente in continuazione fucilazioni nel cortile della caserma. Ogni tanto vengono fucilati anche dei russi, “per mantenere alto il morale tra le truppe”. Ma i russi cambiano tattica e cercano di coinvolgerlo: ci aiuti a sedare la rivolta gli dicono, e gli sottopongono un comunicato che farnetica di golpe fascista. L’ex questore ne prepara un altro in cui dice ai giovani e agli operai di non resistere perché è inutile, ma non verrà mai letto. Si va invece avanti con la repressione, i cannoni, le fucilazioni. In un cingolato sovietico Kopàcsi ritrova il suo amico Maléter che gli racconta come era finita a Tokol: mentre stavano discutendo con i generali russi, in un’atmosfera quasi cordiale, l’accordo sembrava vicino, arrivano ufficiali del KGB che circondano il tavolo delle trattative, compresa la parte russa e arrestano la delegazione. Subito dopo, con un trucco degno di un film di spionaggio, sono separati e i russi sparano in aria così da far credere a ognuno di essere rimasto l’unico superstite.

Arrivati all’Ambasciata sovietica, Kopàcsi e gli altri vengono divisi e interrogati con modi abbastanza brutali. Vengono accusati di essere al soldo dell’imperialismo, controrivoluzionari, niente di molto originale. Il giorno dopo sentono Maléter che nonostante tutto non ha perso l’ironia. Urla all’ufficiale del KGB che lo spinge dentro la cella: “Si metta sull’attenti. Non sa forse che ha l’onore di spingere in questa cella il ministro della guerra di un paese socialista”, ma era difficile mantenere il senso dell’umorismo mentre i mitra falciavano la migliore gioventù ungherese nel cortile delle caserme. La loro destinazione finale è Fo Utca, la ex prigione dell’AVH, ora gestita dal KGB. Lì l’ex questore apprende di essere una spia iugoslava e un confidente della polizia di Horty. Kopàcsi commisera simili sciocchezze: ma come, dopo il XX congresso, ancora si ripetevano questi luoghi comuni anti-iugoslavi? Come sempre, la controrivoluzione ha un’immaginazione assai misera.

Intanto la deportazione in massa verso est fallisce per il boicottaggio dei ferrovieri, l’appello all’Onu e persino la passività dell’esercito russo, mentre duecentomila ungheresi fuggono in occidente. I primi tempi in carcere sono abbastanza duri per l’ex questore, ma le guardie semplici lo trattano bene. Gli raccontano che la moglie si guadagna da vivere vendendo bretzel allo zoo.

Intanto fuori i consigli operai riescono a resistere qualche settimana. Il 9 dicembre i soviet ungheresi vengono messi fuorilegge dall’esercito della Repubblica dei Soviet. È l’inizio del terrore. Ne fanno le spese anche centinaia di ufficiali e soldati sovietici. I pochi ufficiali dell’AVH che mostrano comprensione e senso del ridicolo per le accuse mosse a vecchi compagni con decenni di militanza nel movimento operaio, eroi della clandestinità e della resistenza, vengono cacciati in malo modo.

Dei capi politici della rivoluzione il primo a morire è Losonczy, che non fa in tempo nemmeno ad arrivare al processo e viene strangolato urlando “assassini, fascisti, assassini”. Il sicario, il barbiere della prigione, è ucciso poco dopo. Intanto “nel cortile di Fo Utca continuavano a sterminare alla maniera sovietica, cioè accendendo il motore dei camion per soffocare il grido di addio delle vittime”.

La mattina del 6 febbraio del ’58 le celle si aprono e i prigionieri più famosi del Paese ne escono per il processo. Non si vedevano da oltre un anno. Nagy è il solito, il viso preoccupato e profondo. Fa un cenno amichevole passando in rassegna gli altri prigionieri. Di fronte al tribunale, chiedono agli accusati la professione. Nagy risponde: “Presidente del consiglio della repubblica ungherese”.

Jòska Szilagy risponde agli accusatori così: “Nella nostra patria, l’unico colpevole è un traditore che si chiama Jànos Kàdàr. Appoggiato dalle baionette degli imperialisti sovietici, ha soffocato nel sangue la rivoluzione del suo popolo”. La cosa curiosa è che era stato Tito a consigliare Krusciov di usare Kàdàr, di cui i sovietici non si fidavano del tutto.

Ancora l’impulsivo Jòska Szilagy: “Sbarazzatevi dei russi e dei loro metodi. È il primo passo che dovete fare per riabilitare un movimento infangato che avrebbe tutto per diventare un modello per l’umanità intera”. Dopo pochi giorni viene impiccato gridando “Viva l’Ungheria indipendente e socialista”.

In carcere Nagy compone un saggio Morale ed etica in cui prova a fare i conti con la degenerazione dello stalinismo, l’alterazione di quel potere, dice Kopàcsi, che fece insorgere i detenuti nei campi di Vorkuta (cioè i trotskisti); “socialismo e dittatura non possono coesistere”, avverte il premier, non bisogna usare le baionette ma la democrazia.

I sovietici dal canto loro, alternano blandizie e minacce cercando di convincere qualcuno del gruppo a defezionare, ma tutti, a partire da Nagy, resistono stoicamente. A Kopàcsi lanciano questa scialuppa: sei un operaio, gente onesta, magari un po’ tonta, ritratta. Ma l’ex questore è rassegnato a morire e già immagina cosa avrebbe detto sul patibolo: “Viva l’Ungheria, viva la classe operaia!”. Il grido si mostra appropriato anche se non necessario: la classe operaia del nord del paese salva il suo eroico figlio. I suoi ex compagni partigiani, che controllano diverse fabbriche e sono in posti di responsabilità, inviano petizioni e anche moniti di avvertimento per chiederne la grazia.

Passano ancora dei mesi e di nuovo i superstiti si ritrovano per la lettura della sentenza. Nagy e Maléter sanno di dover morire. Tornano in aula per conoscere la loro sorte, vestiti e rifocillati, per una volta, dato che il processo è filmato. I nuovi capi, Kàdàr in testa, seguono il processo preoccupati. In fondo erano “eurocomunisti ante litteram”, dice l’autore, spinti dalla circostanze a tradire Nagy con cui erano stati al governo. Il difensore di Nagy, un settantenne con cinquant’anni di militanza politica nel movimento operaio, ricorda che il 23 ottobre del ’56 erano stati i sovietici a imporre a Nagy di prendere il potere e ora glielo rinfacciavano. Nagy dal canto suo riassume così la sua storia:

“Ho cercato, in due riprese, di salvare l’onore della parola socialismo nella pianura del Danubio: nel 1953 e nel 1956. La prima volta fui ostacolato da Ràkosi, la seconda da tutto l’esercito sovietico. In questo processo, tessuto da odio e passioni, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri, dopo quello che ne avete fatto non vale più niente. Sono sicuro che la Storia condannerà i miei assassini. Una cosa sola mi ripugnerebbe: essere riabilitato proprio da coloro che mi avranno assassinato.”

Nagy, Maléter e Gimes sono condannati a morte, per Kopàcsi è l’ergastolo. La condanna è senza appello. Il 16 giugno del ’58 le condanne sono eseguite. I russi costringono Kàdàr ad assistere all’impiccagione. Le ultime parole di Nagy e Maléter sono “Viva l’Ungheria indipendente e socialista”.

All’autore tocca la prigione a vita, ma in realtà ne esce dopo sette anni. In carcere, Kopàcsi trova la solidarietà dei detenuti, persino di alcuni che aveva fatto arrestare. Lottano contro gli aguzzini con scioperi della fame, proteste e vengono repressi selvaggiamente: “perfino i guardiani si beccavano calci e botte da quelli della sicurezza”, racconta.

Il 25 marzo del ’63, grazie all’amnistia generale decretata da Krusciov in occasione della sua politica di distensione con Kennedy, l’ex questore è liberato. Rientrato nelle file del proletariato, vieni spedito come tornitore in un’impresa al centro di Budapest. Ma nell’Ungheria “socialista” si era pagati a cottimo e l’ormai non più giovane Kopàcsi non è molto rapido. Entra in moto la solidarietà di classe: gli altri operai della squadra gli danno di nascosto i pezzi da presentare al controllo. Intanto i servizi di sicurezza inondano casa Kopàcsi di informatori. Sàndor e Ibolya, cui nonostante tutto, non era venuto meno il senso dell’umorismo, decidono di tenere il più simpatico e gli raccontano di fantasiose aderenze filo-cinesi o filo-albanesi dell’autore, divertendosi come pazzi; meno divertiti si mostrano i servizi di sicurezza che devono cambiare spesso gli informatori, senza risultati.

Nel frattempo la figlia della coppia, Judit, era riuscita a emigrare in Canada, come buona parte dei 200.000 ungheresi fuggiti dopo il ’56. La ragazza aveva subito ogni sorta di persecuzione da parte del regime. Il preside della scuola l’aveva dichiarata “socialmente estranea allo Stato operaio”, al che la madre aveva ribattuto “mia figlia ha, da quattro generazioni, solo antenati operai, sia da parte di madre che di padre” e il direttore della scuola aveva risposto “d’accordo, ma suo padre ha tradito la classe operaia”.

Alla fine, al “traditore” e alla moglie è permesso di raggiungere la figlia in Canada, da dove Sàndor Kopàcsi potrà dire al mondo la verità sulla rivoluzione del ’56, scrivendo in nome della classe operaia.



* tratto da Xepel: il sito contiene numerosi materiali sull'Ungheria e, pur esprimendo sul PCI giudizi inaccettabili, fornisce un contributo prezioso alla riflessione su quei terribili avvenimenti