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Gaddo
de Anna
Verso la sostenibilità
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La grande illusione che l’uomo potesse modificare illimitatamente
la natura a proprio comodo, ritenendo di poter disinquinare l’inquinamento, è finita.
La terra sta dimostrando come non sia più in grado di
sopportare ogni bisogno, ogni rifiuto, ogni tipo di manipolazione
umana.
Per quanti milioni di anni ha dovuto lavorare l’evoluzione
naturale per giungere a quel capitale di patrimonio genetico
che oggi si sta svanendo al ritmo di 80 specie al giorno?
In Italia, giunti come sempre in ritardo, tutti abbiamo creduto
all’industrializzazione sfrenata, per ottenere una produzione
sempre in espansione di beni e prodotti.
E allora forza con le raffinerie sulla laguna di Venezia, via
gli aranceti di Gioia Tauro, via a produrre qualsiasi cosa fosse.
Non importava se le condizioni di lavoro erano insalubri, la
sicurezza sul posto di lavoro vicina allo zero, i malati di cancro
quasi a volumi maggiori rispetto a quello produttivo.
Abbandonati a se stessi sindacati e lavoratori da una parte,
ambientalisti e popolazione dall’altra, senza mai abituarsi
a lottare assieme, non solo per il posto di lavoro, non solo
per un ambiente pulito, ma per un’attività sostenibile
(o possibile).
Fiat e Pirelli hanno condotto la crociata promuovendo il traffico
su strada, i petrolchimici hanno dato la loro mano, le cementificazioni
non hanno risparmiato nemmeno gli alvei dei fiumi, disboscamenti
folli; tutto sembra essere stato genialmente diretto alla distruzione
dell’ambiente.
La politica capitalista neoliberista, con la sua corsa sfrenata
all’accumulazione di capitale ed al perseguimento del profitto
immediato, una volta dissestato l’ambiente, l’aria,
il clima, le acque ha portato, nella sua globalizzazione, alla
fuga delle imprese verso luoghi dove la mano d’opera costa
meno e donne e bambini possono meglio venir sfruttati.
Lo stesso valga per il reperimento delle risorse energetiche:
hanno sconvolto società rurali, che per quanto fossero
povere ora lo sono ancora di più, preda di guerre fratricide
e con l’ambiente distrutto e depredato.
L’aumento poi della popolazione ha comportato un inurbamento
selvaggio con accumulo di scarti e rifiuti derivanti dalla produzione
ed una mobilità basata unicamente su mezzi privati inquinanti,
perché utilizzanti combustibili di origine fossile.
Se fino ad una decina di anni fa l’aumento della produzione
vedeva anche un aumento dell’occupazione ed un relativo
benessere, perché i sindacati erano riusciti a far ricadere
i maggiori utili sui salari, negli ultimi tempi questo
non è più vero.
L’informatica e la robotica hanno ottimizzato le procedure
diminuendo la necessità dell’intervento dell’uomo.
Molta della produzione si è finanziarizzata e anche questo
ha dato un ulteriore botta all’occupazione di massa, aprendo
invece la strada a miglior sfruttamento dei lavoratori e precarizzazioni
dei rapporti di lavoro e delle condizioni di vita.
È quella che è stata definita come “crescita
fredda” perché ad un aumento delle merci e ad un’espansione
del mercato, corrispondono un peggioramento delle condizioni
di vita della popolazione ed un sempre maggiore distruzione dell’ambiente.
Pertanto anche se di crescita si parla, non è certo possibile
valutarla in senso positivo.
Eccoci quindi giungere al concetto di “sviluppo sostenibile” per
il quale peraltro vi è ancora molta confusione di idee
e non solo a destra.
Il criterio sarebbe quello di un utilizzo energetico di risorse
rinnovabili, non oltre i limiti di una rigenerazione naturale
dei prodotti stessi.
Non si può comunque parlare di crescita economica e sviluppo
sostenibile assieme, essendo questo due modelli antitetici fra
loro.
Se indice della crescita economica è il famoso P.I.L.
cioè il prodotto interno lordo, cioè il valore
monetario di tutti i beni e servizi finali prodotti in un anno
e quindi anche gli inquinamenti e i relativi disinquinamenti,
le ricostruzioni a seguito di eventi distruttivi naturali o gli
incidenti stradali e la messa in sicurezza delle arterie stradali.
Tutto fa movimento monetario e quindi … P.I.L.
È quindi una falsa affermazione che l’aumento del
P.I.L. sia per forza un fatto positivo; può celare negatività enormi
che se calcolate sull’anno paiono positive ma se calcolate
su più anni (danni da inquinamento) certo positivi non
sono, nonostante il trucco contabile.
Sviluppo sostenibile, invece, significa come, dove, quando e
quanto produrre, consumare, costruire, recuperare, spostarsi
etc. tenendo conto che le risorse del pianeta non sono inesauribili.
Altri ancora i principi fondanti.
La ricerca deve essere finalizzata non al disinquinamento, ma
al non inquinamento.
Localizzare i concetti globali di sostenibilità (o possibilità)
alle esigenze storico, sociali e culturali delle singole zone,
prospettando singole Agende 21 locali.
Mantenere in mano pubblica il governo sia delle acque che delle
energie, perché unicamente di interesse pubblico.
Procedere sulla via della competitività commerciale, non
basandosi sul costo del lavoro, ma sulla qualità del prodotto.
Energia ed Ambiente
Sappiamo che per il nostro vivere
quotidiano, in ogni suo aspetto, nulla può prescindere
dal consumo energetico.
Questo è un dato talmente assodato, che sembra addirittura
troppo semplice e scontato nella sua ovvietà.
Ma altrettanto ovvie non sono certo le conseguenze e le alternative
a tutto questo.
Nel nostro paese, soprattutto dal dopoguerra, le fonti energetiche
sono progressivamente state sempre più quelle derivanti
dalle fonti fossili, con utilizzo vieppiù marginale di
quelle rinnovabili (idroelettrico).
C’era una volta la Conferenza di Rio de Janeiro.
Eravamo nel ’91 e quella fu l’occasione per rendersi
conto concretamente che qualcosa pareva mutare nel normale andamento
climatico.
Si cominciò a ragionare tanto sulla residua consistenza
dei giacimenti dei materiali energetici quanto sulla necessità di
quali tipi di intervento fossero possibili e necessari per limitare
l’emissione di CO2 e porre un freno all’effetto
serra.
Sembrava un discorso tra pazzi; o almeno per certi versi così venne,
anche se elegantemente, presentato all’opinione pubblica.
Ma l’aumento della popolazione (quadruplicata nell’ultimo
secolo), l’economia basata sulla catena “continui
consumi/produzione industriale/consumo energetico/ inquinamento
ambientale”, hanno reso la situazione sempre più pesante
sino a quando si è ritenuto di giungere al Protocollo
di Kyoto.
Qui gli Stati aderenti si sono impegnati a ridurre progressivamente
le emissioni.
Non era più un discorso tra pazzi, ma pazzo era, e purtroppo è,
colui il quale si ostina a non tener conto della situazione ambientale
e del suo continuo aggravamento, forse ormai irreversibile, perché ritiene
più importante il valore finanziario delle cose che non
la sopravvivenza dell’uomo.
Accanto a preoccupazioni di sopravvivenza si aggiungono infatti
anche quelle di carattere economico.
Per paesi come il nostro, privo di fonti energetiche classiche
e che quindi andrà a dipendere sempre di più da
quegli altri paesi che o possiedono materiale energetico o producono
energia in surplus, i problemi saranno ancora maggiori.
La corsa all’accaparramento delle fonti energetiche residue è già iniziata
e certo proseguirà.
Ma sarà solo una corsa indirizzata a tamponare una situazione
che o si intende effettivamente mutare, o ci porterà ad
una rovina sociale e politica, dove solo i più forti forse
sopravviveranno e domineranno, a scapito dei più deboli.
E la forza o la debolezza dipenderanno unicamente dal possesso
di energia.
Purtroppo, ancor oggi, i cambiamenti accettati dalla politica
internazionale sono solo residuali e risibili in quanto cinicamente
si ritiene maggiormente accettabile il rischio derivante dal
mutamento climatico, che non quello derivante dalla messa in
discussione dell’attuale sistema economico, basato sulla
crescita continua delle produzioni e dei consumi.
Il PIL deve sempre crescere, pena l’avvitamento dell’intero
sistema economico in una situazione di crisi.
Le conclusioni del Protocollo
di Kyoto sono quelle per cui per
mutare sistema energetico è necessario prima mutare quello
economico.
In buona sostanza diminuire progressivamente l’importanza
del PIL (Prodotto Interno Lordo) per concedere, altrettanto progressivamente
spazio al PIQ (Prodotto Interno di Qualità).
Di fronte a queste prospettive i governi, secondo quei criteri
che sottendono alla logica dei pazzi, hanno deciso di non
decidere.
Diminuire le emissioni di CO2 con una progressiva, ma troppo
marginale, sostituzione di fonti energetiche rinnovabili, non è sufficiente
per invertire la rotta del cambiamento climatico già oggi
in atto.
Dai dati emersi risulta che solo cessando del tutto l’immissione
in atmosfera di CO2 per i prossimi 70 anni, si potrebbe, forse,
tornare ad una situazione atmosferica simile a quella dell’era
preindustriale.
Ed il forse è dovuto al fatto che taluni elementi, tipo
il cloro, immessi nell’atmosfere innescano reazioni chimiche
ad effetto moltiplicativo.
I provvedimenti oggi in atto sono quindi solo dei palliativi
tendenti a tacitare talune coscienze, ma soprattutto a prendere
in giro le popolazioni.
Si mostrano sensibili ai problemi ambientali ed al futuro delle
prossime generazioni, pur senza far nulla di decisivo soprattutto
per i propri interessi economici.
Nessuno vuol fare la Cassandra, ma oggi è necessaria,
a livello quantomeno nazionale, una campagna di informazione
e di sensibilizzazione, tale da riuscire a far cultura ambientale,
oltre che porre misure di prevenzione e messa in sicurezza a
fronte di quelle che si prevede saranno le conseguenze già innescate
dei cambiamenti climatici.
Solo con il consenso della popolazione, infatti, sarà possibile
prendere quelle decisioni per cui i tempi della politica potranno
e dovranno adattarsi a quelli delle decisioni indispensabili;
e non viceversa.
Migrare insomma verso un diverso tipo di sviluppo della società,
dove le esigenze dell’umano essere prevalgono su quelle
selvagge del mercato.
Il rispetto reciproco di tutte le forze in campo come dei valori
ambientali, secondo i principi di compatibilità in uno
con il coinvolgimento delle popolazioni verso un cambiamento
degli stili di vita sinora dettati solo dalle esigenze economiche
ed espansionistiche delle multinazionali.
Tutela dell’Ambiente
marino
Per un paese che presenta oltre 8.000 Km di coste ed un territorio
immerso pari al 35% di quello emerso, non avere una normativa
organica sulla tutela marina può sembrare un assurdo;
ed in effetti lo è.
La conseguenza cheemerge?
Ogni cosa, dalla tutela delle biodiversità alla gestione
delle economie marittime sia di pesca che di turismo, dalla distruzione
massiccia delle coste ad una regolamentazione che ponga fine
a molte attività pirata, ambientalmente parlando, di chi
trasporta per mare, tutto è “in alto mare” e
dovrà, prima di altri, fare i conti con le conseguenze
del surriscaldamento atmosferico.
A questo punto, per fare un minimo di programmazione che abbia,
a sua volta, un minimo di senso compiuto, è necessario
guardare parecchio oltre il proprio naso, per non dover essere
sempre in corsa con gli eventi.
I motivi che hanno portato alla pesantissima situazione attuale
sono molti.
Scarichi urbani, agricoli ed industriali che, attraverso i fiumi,
ridotti a fogne a cielo aperto, o direttamente sulle coste, hanno
portato una devastazione biologica degli equilibri sottomarini,
che con molta difficoltà si potranno recuperare.
Per l’emerso abbiamo da una parte l’abusivismo edilizio,
consentito e tollerato, anche in modo delinquenziale, da chi
avrebbe dovuto impedirlo e “non ha voluto”, abusivismo
per il quale l’unico rimedio ad un ripristino morfologico
delle coste è l’abbattimento di ogni costruzione
abusiva.
Dall’altra l’erosione costiera, accelerata dalla
cementificazione sempre più massiccia dei letti dei fiumi
e dalla captazione di materiale inerte dai letti stessi.
Per il mantenimento delle coste è infatti fondamentale
l’apporto di detriti portati dai fiumi che vanno a “nutrire” le
coste.
Per non parlare di costruzioni di porticcioli vari ed altre amenità che
influiscono in modo incontrollato nell’andamento delle
correnti e quindi nella sedimentazione naturale delle coste in
argomento.
Altre problematiche quelle relative ai traffici marittimi di
materie pericolose.
Bastano solo alcuni numeri per comprendere il livello di pressione
cui sono sottoposti i nostri mari.
Il Mediterraneo è pari allo 0,7% dell’intera
parte acquatica del pianeta e sopporta il passaggio di oltre
il 25% del greggio prodotto a livello mondiale.
Oltre il 40% dell’intero traffico petrolifero del Mediterraneo
utilizza porti italiani ed ogni anno, solo per il lavaggio delle
cisterne, finiscono in mare dalle 6 alle 700.000 tonnellate
di petrolio.
In un mare come il Mediterraneo che, per un ricambio completo
delle proprie acque, impiega circa 100 anni.
Nell’alto adriatico, quello dove sono Venezia e Trieste,
ricchissimo di ambienti umidi e lagune di altissimo interesse
naturalistico, dove sfocia il Po con la sua vasta area naturalistica
del Delta del Po, si movimenta oltre il 5% di tutti gli idrocarburi
pordotti a livello mondiale!
Tutta tale area marittima andrebbe dichiarata Area Marina Particolarmente
Sensibile.
Le coste sono tormentate da un affollamento di porti e porticcioli,
il più delle volte sotto utilizzati e quindi in netta
perdita economica, che apportano una cementificazione ad impatto
ambientale pressoché irreversibile.
Un porto ogni 27 Km di costa per un totale di circa 300 porti
classificati, di cui 144 commerciali.
Il progetto business sarebbe quello di incrementare con un ulteriore
centinaio di porticcioli turistici, per altri complessivi 70.000
posti barca.
Sulle piccole isole pullulano i villaggi turistici e su quello
dovrebbe basarsi la salvaguardia ed il sostentamento dell’economia
isolana che però, d’inverno, non ha una scuola,
un ospedale, un ufficio postale.
Dovrebbero, invece, essere incrementate le Aree Marine Protette,
soprattutto sulle piccole isole ma non solo, con coinvolgimento
delle popolazioni interessate, così da mantenere le attività tipiche
dei luoghi, incremento dell’artigianato, tutela e protezione
dei mari e dei fondali per un turismo compatibile, ma anche una
miglior qualità della vita degli abitanti stessi.
Anche la pesca è terribilmente in crisi con un deficit
di bilancia commerciale pari a circa 2,5 miliardi di €,
perché le catture diminuiscono, la flotta è diminuita,
come anche le giornate di pesca e gli addetti al settore non
più remunerativo, nonostante il forte incremento dei prezzi
al consumo.
Se la flotta italiana è sostanzialmente artigianale, l’Unione
Europea ne deve tener conto, tanto da costringere tutti (compresi
Giappone e U.S.A.) a rispettare tutti allo stesso modo le regole.
Accanto un monitoraggio continuo delle specie ittiche da salvaguardare
con periodi di riposo biologico.
In buona sostanza, attuare un regime di pesca compatibile con
una situazione marina sottoposta a numerosi fattori di pressione
antropica.
Visto che tutto ha portato ad uno sconvolgimento di equilibri
difficilmente recuperabili, le prossime mosse, quelle di recupero,
dovranno essere effettuate sulla scorta di dati scientifici scaturenti
da una spinta fortissima alla ricerca scientifica dell’ambiente
biomarino, per attività, anche economiche, non solo sostenibili,
ma soprattutto compatibili con l’ambiente.
Parchi Naturali e Diritti degli Animali
Il capitalismo, o meglio il neoliberismo
imperante ed oggi dominante, dove conta essere primi, in nome
del profitto brucia enormi risorse, non rinnovabili nei tempi
brevi, soprattutto per la produzione di beni di non primaria
necessità.
L’uso dissennato delle risorse, l’abuso del suolo
e l’inondazione degli scarti sono il prezzo ambientale
che tutti paghiamo per il benessere dei paesi dominanti.
Ma sono anche l’immagine di quanto questa economia non
sia stata in grado di colmare il differenziale con i paesi che,
quasi a prenderli in giro, si definiscono “in via di sviluppo”.
È chiaro che un primo passo dovrà essere effettuato
nella direzione di riallineamento delle differenze fra paesi
più poveri e paesi ricchi, con un utilizzo compatibile
e parsimonioso delle risorse.
Se è vero infatti che la terra non è un contenitore
di risorse infinite, è anche vero che si dovranno educare
le nuove generazioni, non a divenire tutti più poveri,
ma ad un consumo più sobrio delle risorse, questo direi
di sì.
Una modifica esistenziale del modus vivendi, dove la
centralità non sia il prodotto, ma l’uomo, non l’avere
ma l’essere, per dirla con Marcuse.
È stato valutato che l’eliminazione dei beni superflui,
di cui si diceva sopra, significherebbe la diminuzione di un
uso delle materie prime pari circa al 30%.
Ma un cambiamento del genere potrà avvenire solo se si
comprenderà come sia impossibile un continuo ciclo di
crescita con l’attuale tasso di sfruttamento ambientale.
E se tutti i modelli comparati ci indicano che tutto ciò ci
porterà verso un prossimo futuro pregno di pesanti mutamenti
climatici, per rallentare questo trend, abbiamo necessità di
una drastica virata di gestione politica.
Questa dovrà apportare solidarietà alla popolazioni
più povere inducendole, fin dal loro inizio economico,
verso un rispetto di tempi e canoni del rinnovo delle risorse
invece che verso quelli dell’accumulazione delle ricchezze,
con un percorso di solidarietà per una miglior distribuzione
del benessere.
Benessere che non è solo possesso di beni, ma anche modalità di
vita, ma anche ambiente (in senso lato) in cui questa vita si
svolge.
Democrazia politica e libertà economica non possono prescindere
da un’etica basata sul rispetto della dignità umana,
dell’essere in quanto tale a prescindere dal suo colore,
dalla sua lingua, dal suo credo.
Mi si permetta, peraltro una nota di pessimismo: “Sarà capace
l’uomo, la creatura più intelligente dell’universo,
a superare con la ragione la propria istintualità animale
di sopraffazione?” Questa è la scommessa, questa
la nostra responsabilità.
Diceva fra l’altro Penrose: “Agli uomini di oggi
si richiede di salvare il futuro, senza aiuto da parte di alcuno.
Il futuro è completamente nelle loro mani; non sarà possibile
per gli uomini del futuro badare a se stessi; sono quelli di
oggi che devono badare a quelli di domani senza l’aiuto
né della provvidenza, né della storia. Nessuna
generazione si era mai prefissata un compito così erculeo”.
Significa prendere atto appieno della situazione odierna ed invertire
la strada dove l’interesse particolare prevale, a scapito
di quello generale, tipico dell’odierno neoliberismo imperante.
Ma poiché non siamo soli a questo mondo, a fare le spese
di queste concezioni economiche e comportamentali, sono con noi
anche molte specie animali e vegetali.
80 circa le specie che si estinguono quotidianamente, 25.000
l’anno.
Inquinamento, mancanza di nemici naturali per i predatori, carenza
di spazi vitali sono fra le cause principali, che vedono tutte
l’intervento della mano dell’uomo.
Non sono solo il Panda o la Tigre siberiana, animali appariscenti
e a noi ben noti, ma anche varietà di insetti che, cessando
di svolgere il loro ruolo di equilibratori ambientali, non si
sa bene a quali conseguenze porti la loro scomparsa.
Quando lo sapremo sarà troppo tardi.
E se questa è una constatazione di carattere pratico,
concettualmente possiamo tranquillamente affermare, che ogni
varietà che si perde è per noi una sconfitta culturale.
Cosa accadrebbe se scomparissero le Lontre? Forse nulla, ma è un
po’ come sparissero le 9 sinfonie di Behetoven.
Distruzione di foreste pluviali, boschi e foreste che scompaiono
per lasciare il posto a colture, pascoli, strade (troppo spesso
subito abbandonate), ledendo quei polmoni d’ossigeno essenziali
per la vita sulla terra, per le sue acque, per la sua aria.
Il rapporto del Massachussetts Institute of technology diceva
che “Qualora le tendenze che attualmente caratterizzano
i cinque settori fondamentali considerati, popolazione, industrializzazione,
inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali,
dovessero conservarsi anche nel prossimo futuro, l’umanità è destinata
a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi
cento anni. Il risultato più probabile sarà un’improvvisa
ed incontrollabile flessione della popolazione e del sistema
produttivo”.
Mentre Karl Popper: “A mio parere
il più grande scandalo della filosofia è che, mentre
intorno a noi il mondo della natura perisce - e non solo
il mondo della natura - i filosofi continuano a discutere,
a volte acutamente, a volte no, sulla questione se il mondo esiste.”
Non credo vi siano altre strade se non quella della messa al
bando delle sostanze inquinanti il patrimonio naturale, per avere
un rinascimento dell’esistenza, del vivere meglio, del
rispettare il mondo, visto la capacità globalizzatrice
anche dei nostri veleni.
Per l’intanto sarebbe utile, contrariamente a quanto ha
mostrato questa destra deleteria, riprendere l’istituzione
a parco di sempre maggiori zone, montane e non, così da
poterle sottoporre rapidamente a protezione.
Incentivi finanziari e fiscali per il recupero sia delle architetture
originarie dei luoghi, come delle attività, dei prodotti
che lì sono sempre stati e che l’industria ha scacciato
e schiacciato.
Un recupero delle tradizioni, dell’artigianato, del vivere
bene nelle zone a parco, aiuterebbe anche i giovani a non abbandonare
la montagna, la sua economia una volta spontanea, oggi magari
pilotata ma seguendo canoni antichi e naturali.
Non condoni edilizi, elusione dei criteri di impatto ambientale
ed altre nequizie del genere.
Turismo possibile, lavorazione di qualità, tutela dei
marchi di origine dei prodotti, consorzi che garantiscono il
consumatore sulla provenienza del prodotto ed il venditore ad
avere una rete di vendita.
Se noi crediamo di avere ogni diritto, perché ci riteniamo
superiori rispetto agli animali, non abbiamo capito proprio nulla.
Noi non siamo superiori, siamo solo differenti.
Potremmo essere, forse, superiori in senso relativo, perché in
possesso di quello che è stato il più grosso errore
della natura: la ragione.
Ma in senso assoluto non siamo affatto superiori, ma solo diversi,
come il capriolo é diverso dalla lince, come la pulce è diversa
dal lombrico.
Questo non ci dà quindi il diritto di comportarsi come
se fossimo noi i padroni del mondo; forse lo siamo diventati,
ma con la violenza.
Da un punto di vista etico non ne abbiamo diritto e dobbiamo
smetterla di comportarci come tali.
Trasporti e politiche
di mobilità
Fino ad oggi il nostro ineffabile
governo ha impostato la propria politica di intervento nei lavori
pubblici, direzionandola verso quelle che sono le grandi opere,
senza tener conto che se non vi sono prima le infrastrutture
di sostegno per l’attività economica
quotidiana, le grandi opere, se portate a compimento, rimangono
cattedrali nel deserto prive di significanza, prive di valore,
piene di rabbia.
La megalomania imperante acceca chi dovrebbe vedere innovazione
dei sistemi di mobilità di persone e merci, un adeguamento
alle linee di sviluppo possibile verso il quale debbono incamminarsi
l’industria e le altre attività economiche in genere,
sociali e culturali .
La tendenza è invece l’assurdità di incentivare
il continuo acquisto di auto e motorini che vanno poi ad intasare,
ad occupare ogni spazio, tanto da distruggere la fruizione qualitativa
del contesto urbano.
La mobilità è intesa, in senso assolutamente distorto,
come il possesso di un’auto o di un motorino ed ogni limitazione
al loro uso è intesa come intervento autoritario e liberticida.
Questo avviene perché ormai invalse certe abitudini conseguenti
alla mancanza di alternative valide, economiche ed efficienti.
Se intervento deve essere, prima andrà effettuata una
profonda operazione culturale, per preparare i cittadini ad un
utilizzo sempre più massiccio e sistemico dei mezzi pubblici
per poi presentare, però, alternative che confermino la
necessità di tralasciare il più possibile il mezzo
privato e siano in grado di non far rimpiangere il passato..
E se questo deve essere (e deve essere) si inserirà in
un contesto maggiore e necessariamente omogeneo, dove si afferma
la necessità di passare dalla produzione di un prodotto
a quella di un servizio e quindi, nel caso specifico, dall’auto
organizzazione della propria mobilità, a forme di servizio
gestite da imprese pubbliche e private.
Tali metodologie dovranno, calibrate su altre strutture, interessare
anche i trasporti marittimo e ferroviario, aereo o di automezzi
pesanti.
Un’ipotesi operativa potrebbe essere quella della creazione
di Agenzie per i trasporti a gestire, con competenze territoriali
diverse, i problemi attinenti ai singoli sistemi.
E se anche tutto ciò potrà avere dei costi e delle
difficoltà di non poco conto, soprattutto nel vincere
le pigrizie urbane dei cittadini, i ritorni saranno tali da non
consentire pentimento.
È semplicemente una catena.
Minor traffico automobilistico privato al mattino fa cominciare
bene la giornata, perché
consente un bel risparmio di tempo e di stress: dalla non ricerca
di un parcheggio, alla non difficoltà di guida nel traffico
del mattino, alla non ansia del rispetto degli orari.
Situazioni che si ripetono alla sera, dove il rispetto dell’orario è dovuto
al dover ritirare il pupo dall’asilo o dal riuscire ad
andare a fare le spesa, dal divincolarsi dall’alienante
traffico del rientro etc.
Statistiche hanno rilevato che risolvendo tali problematiche
vi sarebbe, oltre ad una miglior qualità della vita, un
abbattimento di circa il 20% della spesa sanitaria nazionale
per minori infarti, depressioni, patologie delle vie respiratorie
a seguito di minor inquinamento.
Ma vi sarebbe anche un abbattimento della spesa sociale per la
minor incidentistica e conseguente minor invalidamento di soggetti.
Vale proprio la pena di pensarci ad una miglior vita possibile.
Rifiuti Solidi Urbani
Enormi i numeri di aumento dei rifiuti.
Negli ultimi 10 anni vi è stato un aumento di 5 mil. di
tonnellate di aumento dovuto innanzi tutto ad imballaggi assurdi.
Negli ultimi 20 anni si è passati dai 100 gr. ai 500 gr.
Pro-capite di rifiuti da imballaggio e circa la metà di
ciò che si acquista diviene rifiuto entro 2 giorni con
una copertura di circa il 40% del peso ed il 60% come volume
complessivo dei rifiuti.
Altro fatto pesantissimo è il consumo di acqua minerale
che vede coinvolto il 70% della popolazione con 10 miliardi di
litri, di cui il 70% è contenuta in pet, oltre alla produzione
di altre 400.000 tonnellate di contenitori in plastica di detersivi
ed altro.
Numeri altissimi per problemi pesantissimi.
È evidente come il primo e più importante
intervento è,
come al solito, quello alla fonte, affinché l’inquinamento
non avvenga.
Ecco che il ciclo virtuoso potrà iniziare con la riduzione
degli imballaggi favorendo l’uso di materiali con migliori
performance in termini di costi energetici alla produzione, riuso,
riciclo e smaltimento, dando peraltro priorità a quelli
definiti come “vuoto a rendere” e penalizzando i
prodotti “usa e getta”.
Un ulteriore intervento è quello della separazione degli
scarti alimentari, primaria fonte di effettivi rischi sanitari,
sia per gas emanati, sia per emissione di liquidi di percolato
inquinanti per la falda acquifera.
Con una separazione a monte è invece ottenibile la produzione
di biogas (soprattutto metano), utilizzabile per autotrazione
(quindi da incentivare), che per riscaldamento.
La rimanenza in uscita e utilizzabile quale compost in agricoltura
soprattutto per quei terreni tendenti alla desertificazione per
perdita di suolo organico.
Non solo ma è stato provato che la fertilizzazione organica
provoca con il tempo un accumulo di carbonio al suolo, il che
potrebbe fungere da meccanismo per sottrazione, nel bilancio
complessivo, di anidride carbonica all’atmosfera; e a tal
proposito si è calcolato che un aumento dello 0,15% del
carbonio organico nei suoli arabili italiani potrebbe fissare
al suolo la stessa quantità di carbonio che ad oggi è rilasciata
in atmosfera per l’uso di combustibili fossili in un anno
in Italia.
Per quanto concerne la fiscalità del sistema, sia in linea
teorica che dall’esperienza pratica, si può apprezzare
come il passaggio da tassa a tariffa puntuale, dove effettuata,
abbia contribuito a ridurre la quantità di rifiuti da
smaltire ed abbia nel contempo determinato un incremento notevole
della raccolta differenziata di qualità.
L’importante è che il sistema tariffario non si
basi su concetti induttivi di quantificazione, ma preveda l’applicazione
di sconti della tassa sulla base della quantità di materiale
inviata al riciclo, così da configurare al proprio interno
una sorta di incentivazione alla razionalizzazione dello smaltimento
dei rifiuti da parte del fruitore. |
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