Anna Bravo

Donne, guerra, memoria

3. Prove di dialogo

Quasi 5 anni fa, scrivendo questa introduzione alla vigilia del cinquantennale del 25 aprile, abbozzavamo un bilancio sia interno alla storia delle donne sia esterno. Mentre il censimento delle ricerche indicava che il rapporto donne/guerra/resistenza stava entrando a pieno titolo nell’agenda delle storiche, i programmi culturali e celebrativi mostravano un disegno in chiaroscuro. I limiti di militarismo insiti nei criteri per l’assegnazione delle qualifiche partigiane venivano ormai riconosciuti (46), e nel dibattito almeno due punti sembravano acquisiti: che la resistenza é un oggetto plurale e differenziato su cui era necessario lavorare ancora a livello di ricerca e di concettualizzazione; che lo studio delle lotte inermi poteva essere una tappa importante di questa nuova fase (47). Anche la presenza femminile era in genere ricordata più di frequente; sarebbe ormai stato difficile giustificare un vuoto totale proprio in un momento di massima visibilità dell’evento.

Ma si persisteva a usare un concetto come "solidarietà femminile", che mette l’accento sull’aiuto offerto ad altri e sull’aspetto umanitario, si esitava di fronte a quello di resistenza civile, che sottolinea invece il rapporto fra comportamenti delle donne e forze occupanti e il suo significato politico e di lotta. Nonostante alcune sollecitazioni a "complicare" anche in Italia i contenuti del termine resistenza (48), la tendenza era ancora a trattare l’esperienza di genere come una enclave all’interno di convegni, libri e mostre, per di più limitandosi a vicende e immagini del femminile senza affrontare né quelle del maschile né i concreti rapporti donne/uomini: un’area su cui c’é stato, e in parte c’é ancora, un vasto non detto e un più vasto non pensato.

Nel frattempo l’espressione "resistenza civile" continuava ad apparire vagamente abusiva, concorrenziale alla lotta armata, comunque inessenziale alla comprensione sia delle tante iniziative di donne (e non solo di donne), sia degli scioperi operai - che, se si accetta la categoria di guerra civile, inaugurano nel marzo ’43 la resistenza al fascismo.

Oggi la nostra impressione é che il momento delle rigidezze sia superato. Nella ricerca e nel dibattito la resistenza civile e le lotte delle donne compaiono in modo meno episodico, il termine "resistenza passiva" ha perso credito e la gerarchia armati/inermi non é più intoccabile, mentre voci autorevoli hanno invitato a ridefinire le caratteristiche e i confini della minoranza attiva tenendo conto delle lotte non armate (49). È un processo lento, non lineare, con varie componenti: la crescita quantitativa e qualitativa degli studi delle donne e dei gruppi della nonviolenza, le posizioni di studiosi/e che anche sull’onda del crollo dei regimi comunisti, invitavano da tempo a considerare nuove categorie e nuovi oggetti di ricerca; l’incrinarsi di alcuni tabù storiografici (50); infine ma non da ultimo il ruolo di quelle partigiane, deportate "razziali" e politiche, militanti antifasciste, che hanno pubblicamente guardato con simpatia alla resistenza civile e spesso hanno offerto notizie preziose in merito. Fra il concetto di resistenza civile e quello di resistenza tout court, fra i criteri e i referenti sociali che sono alla base dell’uno e dell’altro, si é inaugurato un dialogo.

Lo stesso concetto di resistenza civile si é aperto al confronto con gli studi delle donne. Inizialmente, quel concetto privilegiava le mobilitazioni istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e politicamente organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto più debole di disubbidienza o dissenso; oggi si ammette che quell’accezione lasciava in ombra molti soggetti a pieno titolo attivi, e si tende a ricomprendere anche le azioni individuali e di microgruppi, l’area a maggiore presenza femminile.

Ma il legame fra donne e resistenza civile ci sembra più un punto di partenza che di arrivo (51). Quella categoria ha aperto una strada, riunendo sotto un titolo forte iniziative senza nome, azioni ritenute sussidiarie e grandi lotte; ha mostrato che quell’area di comportamenti non é il braccio disarmato del movimento partigiano né un sottoprodotto dei partiti, e neppure un limbo inorganizzato e impolitico. Ha spostato alcune storie importanti dalla memoria privata a quella pubblica. È moltissimo, e non avrebbe senso pretendere di più, a maggior ragione perché il concetto ha una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere.

Il punto é che, sgombrato il campo dalla gerarchia armati/inermi, diventano ancora più evidenti altri fattori di esclusione. Anche nella resistenza civile ha corso lo stereotipo secondo cui le donne sarebbero incompatibili con la sfera politica, e sono all’opera meccanismi che possono tenerle ai margini.

Non é soltanto antifemminismo. Vincolata agli imperativi della clandestinità, organizzata a maglie larghe, spesso poco omogenea, la resistenza civile nelle sue forme più strutturate si regge su una struttura autoritaria che non prevede né criteri di avvicendamento della dirigenza, né regolari meccanismi di controllo e di confronto. Come fa notare Semelin, non potrebbe essere altrimenti. Ma a essere penalizzate sono in primo luogo le donne, presenti soprattutto nelle realtà di base, per lo più ancora prive di uno stile politico autorevole, comunque raramente cooptate nelle leadership. È un paradosso della resistenza civile antinazista usare pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli organizzativi tipicamente maschili (52).

Persino nelle azioni più informali e di base agiscono strutture in cui le donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell’Europa occupata é un bersaglio delle politiche di sfruttamento e terrore, e nello stesso tempo un luogo primario di radicamento e concertazione. Non per caso si é parlato di politicizzazione dei ruoli familiari e di pubblicizzazione della sfera privata (53). Spinte e legittimate ad agire in nome e per tramite della famiglia, le donne restano spesso impigliate nella sua immagine di unità organica, che tende ad assumere il ruolo di protagonista in loro vece, o a assegnarlo al marito, padre, fratello. Come mostrano anche alcune storie raccontate in questo libro, la figura di moglie e madre può sovrastare quella della resistente, la sua iniziativa tornare ad essere classificata come contributo.

È dunque utile proseguire nella "contrattazione" con la categoria di resistenza civile - il che equivale a mettersi in cerca dei modi in cui si esprime l’azione delle donne, a distinguerla dallo sfondo che potrebbe annettersela e a farla pesare nella concettualizzazione.

In questa prospettiva ci limitiamo a sottolineare il legame privilegiato con la mutevole zona di separazione/sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata che la guerra movimenta fino a scardinarla (54). Le donne - una minoranza di donne - non solo operano per lo più in aree a confini incerti come la tutela della comunità, l’assistenza ai più vulnerabili, la protezione dei perseguitati, ma quei confini manipolano sistematicamente in ogni loro attività. Scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza. Frequentano mercati e botteghe facendo insieme spesa e propaganda politica. Trasformano gli incontri amichevoli in riunioni, uno sconosciuto in figlio, marito, amante, un libro in contenitore per una rivoltella, il proprio corpo in nascondiglio di documenti; coinvolgono parenti e vicine, tessono relazioni personali negli spazi pubblici, usano gli spazi privati per stabilire contatti politicamente utili.

Se il gioco riesce, é perché l’associazione tra femminilità e privato regge ancora sul piano simbolico, anzi viene rafforzata dalla guerra. E perché di questo stereotipo le donne fanno un uso sapiente, spostando nell’universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione, appello agli affetti, fragilità esibita, impudenza calcolata, a volte la tattica del piccolo dono offerto al nemico in segno di pace, spesso l’esibizione dei simboli del materno. È dislocata in un ambito del tutto nuovo, la tradizionale pratica di chi si trova in condizioni di dipendenza e per questo deve attrezzarsi a interpretare l’altro.

La capacità di recitare più ruoli e di mischiare i confini varrebbe infatti a poco, se non si sposasse all’ingrediente principe delle tattiche di divisione psicologica del nemico, l’attitudine a guardarlo come alterità composita e decifrabile anziché come massa indifferenziata; e se non si fondasse sulla consapevolezza che un punto debole degli occupanti sta nel bisogno di sospendere momentaneamente il clima di muro contro muro per godere di un simulacro di rapporti "normali": fame di privato, si potrebbe chiamare. C’é questo raffinato gioco delle apparenze e delle probabilità alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano (o si illudono di superare) i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della routine domestica o della femminilità inoffensiva.

La "contrattazione" potrebbe partire proprio da qui, dalla ricerca di concetti e intrecci narrativi capaci di far risaltare, insieme alle nuove idee e competenze, le tradizioni di saperi femminili attivate nel faccia a faccia con la guerra.

Resta il fatto che per i suoi strumenti e i suoi contenuti la resistenza civile si addice alle donne, e viceversa: tanto che si va facendo strada fra gli storici italiani la tendenza a ritenerla un comportamento e un oggetto storico quasi esclusivo delle donne. Noi stesse corriamo il rischio di creare una nuova enclave e di incidere troppo poco nella discussione in atto.

Sarebbe un peccato. Già oggi, grazie all’attenzione di alcune studiose si sono scoperti o riscoperti fenomeni e soggetti: per esempio quegli impiegati/e comunali romani che, ancora prima di essere coordinati dal Comitato di liberazione, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una "regolare" falsa identità, scegliendo come domicilio edifici bombardati e come luogo di provenienza irraggiungibili comuni a sud del fronte; o gli sterratori del Verano, che disseppelliscono le bare dei fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, per consentirne l’identificazione in futuro (55).

Ma casi come questi sono ancora felici eccezioni. La polarità armati/inermi risulta davvero incrinata soltanto quando l’inerme coincide con le donne; se si tratta di comparare uomini a uomini, quella gerarchia regge, almeno a giudicare dal quasi vuoto di ricerca e di discussione. Degli attori della resistenza civile ci si occupa di rado e si sa poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel ’98 con la storia dell’agente di custodia del carcere milanese di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossenburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini... soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (56).

Forse é il momento di chiedere le "pari opportunità" per gli uomini. Certo é il momento di riattraversare pazientemente guerra e resistenza, misurando la seconda in modo diverso sia sul piano della partecipazione numerica (che senso ha ormai limitarsi a fare il conto dei combattenti in armi?) sia su quello dei significati. Perché sono molti, all’interno stesso della lotta armata, i comportamenti che sfuggono alla contrapposizione fra chi prende e chi rifiuta le armi. Pensiamo al tema poco studiato delle tregue stipulate fra resistenti e nazisti/fascisti: sotto il termine tregua convivono situazioni di crisi militare e manovre contro formazioni partigiane concorrenti, ma anche il proposito di contenere la distruttività, di dare un pò di respiro alla popolazione e all’economia locale. Un discorso simile può valere per l’elasticità dell’esercito partigiano: se la resistenza civile é per eccellenza una realtà a confini mobili, anche dalla resistenza armata si entra e si esce. Dove le formazioni sono stanziali, ci sono partigiani che al momento della vendemmia e della mietitura tornano a casa, per poi rientrare in banda a lavoro finito: rispetto agli eserciti regolari é un modello opposto, ed é proprio quel che contribuisce a assimilare il partigiano al combattente popolare.

Pensiamo ai tentativi di contrapporre alla bellicosità come valore il criterio del caso per caso, di resistere alla logica di una guerra "dove non si fanno prigionieri", di pesare minuziosamente il rapporto danni/benefici di una data azione; al dibattito aspro e accorato tra le forze partigiane sui limiti da autoimporsi; ai molti sforzi di mettere fine al più presto allo spirito della guerra civile, come fa una giovane partigiana torinese che nei giorni della liberazione viene incaricata di scortare un prigioniero e che gli consente di dileguarsi: "abbiamo vinto, lascio perdere" (57). Forse, sottolineando la vicinanza di pratiche di questo tipo alle strategie di contenimento della distruttività (58), si potrebbero chiamare comportamenti di pace in tempo di guerra e a dispetto della guerra.

Pensiamo all’importanza di ampliare la discussione sulle spinte complesse che muovono i piccoli e grandi salvatori, dalle ragioni politiche a quella sorta di rivolta morale che si coglie per esempio nelle memorie di Giorgio Perlasca, il commerciante fascista che nella Budapest del ’44 si fa passare per console di Spagna e riesce a salvare circa 3.000 ebrei ungheresi fornendo loro documenti e salvacondotti (59).

Forse da questo ventaglio di esperienze uscirebbe un racconto di guerra e resistenza più vicino alla sensibilità del presente. E guardando al presente, ricerca e divulgazione potrebbero avere un significato aggiuntivo. La guerra del Kosovo é nata anche dalla sconfitta della resistenza civile della popolazione kosovara albanese, una sconfitta in cui ha pesato innanzitutto l’ostinazione serba, ma cui non é stata estranea l’indifferenza della comunità internazionale di fronte a anni di pratiche nonviolente e poi di fronte alla loro crisi. Rendere onore alle lotte di ieri é anche un omaggio a quelle di oggi, fatto nella speranza - precaria, ce ne rendiamo conto - di guadagnare qualche consenso in più all’idea che la scelta non armata é spesso la più meritevole di riconoscimento e di appoggio.

Un lavoro di memoria

Gran parte delle esperienze presenti in questo libro sono state raccontate dalle protagoniste fra il ’90 e il ’93. Sono gli anni in cui l’illusione di pace generale nata con il crollo del muro di Berlino cede di fronte al moltiplicarsi dei focolai di scontro, all’incrudelirsi delle guerre in atto e allo scoppio di nuove, nel caso della ex Jugoslavia proprio ai confini italiani.

Spettacolarizzata nei suoi aspetti sia tecnologici sia arcaici, la guerra entra ogni giorno nelle case, riattivando paure, sensibilità, idiosincrasie - il passo pesante dei tedeschi in stivali di cuoio, la sirena dei bombardamenti -, segnando le forme del ricordo, in particolare in tema di valutazioni e bilanci.

Succede così che la tensione fra presente e passato, tipica ricchezza delle fonti di memoria, si caratterizzi per la forza con cui il primo polo agisce sul secondo. La guerra che si é vissuta può appiattirsi su quelle del presente in una sola sequenza di sofferenze inutili, o all’apposto stagliarsi come catastrofe unica e irripetibile. Si desidera raccontare, si teme di raccontare, ci si interroga sulla sua utilità. Gli appelli alla pace e le dichiarazioni di pacifismo si fanno quasi obbligati, in un intreccio di ritualità e determinazione: chi ha conosciuto la guerra teme troppo un suo ripetersi per farsi spaventare dalla ripetitività del linguaggio.

Dimenticare che si tratta di storie di guerra raccontate in tempi di guerre ci priverebbe di un contesto importante per comprenderle. Sono, anche, storie narrate su sollecitazione di altre donne personalmente interessate alla ricerca/costruzione di un’ascendenza femminile, e all’interno di un progetto che punta in modo dichiarato a dar valore all’esperienza delle donne. L’interazione fra chi racconta e chi interroga, grazie alla quale la fonte orale si costruisce come prodotto a due, é intessuta qui non solo dalle somiglianze e differenze fra donna e donna, ma dal diverso modo in cui quel progetto é percepito e valutato.

Molte narratrici parlavano per la prima volta pubblicamente di sé; pochissime si sono stupite del nostro invito a raccontare. Che la propria esperienza debba entrare a pieno titolo in una storia rinnovata, attenta al quotidiano, alle "piccole cose", al privato, sembra una convinzione diffusa; molto meno diffusa é la consapevolezza che vari comportamenti attengono invece alla sfera della politica, e che tocca al concetto di resistenza ridefinirsi per abbracciarli. Effetto combinato di conquiste e limiti del femminismo, dei messaggi dei media, di diversi gradi di credibilità del nostro progetto, della tenuta degli stereotipi anche in chi li subisce? Questo e altro sicuramente; ma in certi larvati scetticismi, in certi impliciti ridimensionamenti, si avverte in primo luogo il peso del senso comune, storiografico e non, creato dalle interpretazioni dominanti su guerra e resistenza. Come si vedrà, la memoria ne porta molte tracce. Sebbene alle protagoniste la ricerca sembrasse doverosa non meno che a noi, lo scarto fra aspettative diverse é rimasto tendenzialmente netto (60). Una sola narratrice usa per descrivere la propria vicenda la bella espressione "piccola resistenza", dove il primo termine allude a una modalità minore, ma la seconda ne rivendica l’appartenenza alla sfera del politicamente significativo. Ne nasce un racconto di grande presa emotiva e teorica, che tende a fare dell’intervistatrice una "testimone mentale" capace di trasmettere a un pubblico più vasto i significati cari alla protagonista. È il desiderio di molte.

Anche per questo ci sembra discutibile l’ipotesi di un rifiuto femminile alla narrazione legato a riserbo, diffidenze, sottovalutazione della propria esperienza, rimozioni - che pure possono avere un peso. Crediamo, più semplicemente, che molte donne non abbiano parlato perché ben poche e pochi si sono preoccupati di sollecitare la loro memoria (61). Nel dopoguerra e per tre decenni ancora, le rare pubblicazioni sono orientate da criteri di rilevanza politico-culturale ancora più selettivi di quelli applicati ai testi maschili.

Che l’esperienza resti muta sul piano pubblico é dunque il frutto di una scelta da parte di singoli e di istituzioni, che adottano il silenzio e ne trasferiscono la responsabilità da se stessi alle protagoniste e dalla storia alla memoria. Un esempio ancora più evidente riguarda la deportazione, dove basta una scorsa alle bibliografie per smentire il luogo comune secondo il quale i sopravvissuti non avrebbero scritto o raccontato (62).

L’insistenza sull’importanza interpretativa del contesto non implica però una concezione della memoria come materiale infinitamente flessibile alle suggestioni dell’interlocutore e dell’oggi. Se il racconto non é mai pura duplicazione del passato, non é neppure l’eco del presente. Piuttosto nasce da una contrattazione ininterrotta fra norme e immagini di tempi diversi, si costruisce attraverso una pluralità di repertori narrativi in cui quello d’epoca fa da caposaldo, denso com’é di tradizioni familiari e di gruppo, di simboli popolari e religiosi, di modelli culturali, messaggi politici, discorsi di propaganda. E a qualsiasi repertorio fa a sua volta da caposaldo la concretezza dell’esperienza. Tra le risorse conoscitive offerte dalla memoria biografica, la più preziosa é forse la sua capacità di ricordare che la realtà deborda dai linguaggi disponibili per raccontarla (63), che le idee non nascono per germinazione da altre idee, ma nella loro tensione con il vissuto corporeo, affettivo, mentale. Convinzioni e valutazioni delle narratrici sono molto più resistenti di quanto spesso ritiene chi le interroga.

Non per questo diventa automaticamente agevole narrare. Il racconto del reduce é un genere letterario, quello femminile manca ancora di un modello, anche se una guerra come la seconda, per gran parte di retrovia e di occupazione, tende a minare lo stereotipo che assegna al discorso maschile il sangue, a quello femminile il lutto. Di questa polarità si trova traccia in vari racconti, in particolare quando la memoria femminile sembra incorporare ampi squarci dell’esperienza maschile - é così per la deportazione, la prigionia militare, la campagna di Russia, dove si ha l’impressione che gli uomini parlino per interposta persona, e le donne facciano da voce narrante. Sottrarsi alla celebrazione del lutto non é impresa facile, come non lo é soffrire prima per se stesse che per gli altri.

Non nasce però solo da qui, ci sembra, la riluttanza così diffusa a presentarsi come pedine schiacciate dall’oppressione, una strategia tanto più interessante se si pensa all’enorme successo editoriale e televisivo della Storia di Elsa Morante, con quel prototipo di vittima assoluta che é il personaggio di Ida Ramundo. Certo gioca in questo rifiuto una tradizione di vita e di racconto, locale e non solo, imperniata sulla donna anello forte della famiglia e della comunità.

Ma nelle narrazioni c’é materia per un’altra ipotesi, tanto più se le si confronta con quelle raccolte in alcune città della Germania. Qui l’insistenza sulla condizione di vittima é un dato generale, interpretato credibilmente come strumento per autoassolversi dalle responsabilità del nazismo (64): sull’onda di un simbolismo popolare e religioso che separa nettamente vittime e colpevoli, chi é vittima di un evento non potrebbe esserne considerato responsabile. Risponde allo stesso scopo l’assimilazione della guerra a una catastrofe naturale o a un meccanismo che si autoscatena. Che in gran parte delle nostre interviste siano assenti strategie di questo tipo, suggerisce che in Italia si continua a non fare i conti con la parte avuta dal paese nei crimini della guerra: quanto più ci si ritiene innocenti tanto meno si ha bisogno di atteggiarsi a vittime. Non é solo l’effetto di rigenerazione prodotto dalla resistenza; pesa anche lo stereotipo del fascismo come altro da sé, espresso qui nella prontezza con cui ci si dissocia a posteriori senza rimettere in discussione né se stessi né il proprio rapporto con l’autorità.

Si potrebbero fare, e faremo, altri esempi della ricchezza di questi racconti per lo studio delle soggettività, del modo in cui da un irrigidimento, un aggiustamento, una deriva della memoria si può risalire a una cultura o a un’ideologia - e naturalmente ai sogni, ai desideri, alle frustrazioni personali e collettive. Quante volte la storia che la memoria tramanda é la vita che poteva essere e non é stata, la vita che ancora si spera per sé e per gli altri.

Non vorremmo però che sottolineare questo aspetto mettesse in ombra il contenuto di verità che il racconto rivendica anche quando si sposta all’altro polo del continuum che separa e unisce elementi "soggettivi" ed elementi "oggettivi"; a condizione di farla interagire con altre fonti, come è d’uso per qualsiasi documento, la memoria ha pieno diritto di parola sul piano della conoscenza fattuale.

Dai nostri racconti esce uno spaccato credibile delle esperienze di guerra in uno spazio che non coincide più con la Torino industriale e operaia, ma con un territorio a confini mobili, in cui città e campagna si sovrappongono modificandosi a vicenda.

Non solo: fra le nostre narratrici, alcune, torinesi di origine, vivono la guerra lontano da casa; altre vengono da città diverse o dalla campagna piemontese; altre ancora sono emigrate, per lo più dal Veneto, ma qualcuna anche dal Sud. Se il quadro resta ben caratterizzato dal punto di vista locale, offre però possibilità di comparazione già al proprio interno (65).

In nessun modo abbiamo puntato a un campione rappresentativo, del resto manifestamente inattingibile, ma alla raccolta del maggior numero possibile di esperienze, soprattutto di quelle dimenticate o tenute ai margini. La rappresentatività che speriamo di aver colto riguarda i molti modi in cui donne e uomini sono stati - o non sono stati - soggetti della propria vita e dei propri pensieri; le molte forme in cui nella stessa persona si é agita la tensione fra norme e comportamenti, passività e libertà, vecchio e nuovo, sia o no quest’ultimo definibile come moderno. La memoria ha aperto molti spiragli sulla guerra che intorno a questi nodi si combatte all’esterno come all’interno delle persone.

Note

46. C. Dellavalle, Partigianato piemontese e società civile, "Il Ponte", 1, 1995, cit.

47. Così per esempio al seminario Resistance, Widerstand, Resistenza, Goethe Institut, Torino 6-8 aprile 1995.

48. Cfr. la relazione di L. Paggi al convegno "In Memory: Revisiting Nazi Atrocities in Post-Cold War Europe", Arezzo, giugno 1994, che sottolinea la difficoltà "della narrativa fondata sui valori dell’antifascismo e della resistenza a ricomprendere la memoria delle popolazioni coinvolte".

49. Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza, cit.

50. Tra i primi esempi vedi G. Crainz, Il conflitto e la memoria, e Id, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, ambedue sulle uccisioni di fascisti nell’immediato dopoguerra, in "Meridiana" nn. 13, 1992 e 22-23, 1995. Vedi anche P. Pezzino, Anatomia di un massacro, Il Mulino , Bologna 1997, e G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997, entrambi sulla memoria conflittuale verso la resistenza di comunità vittime di rappreseglie naziste.

51. Per una diversa considerazione del rapporto donne/resistenza civile, cfr. M. de Keizer, La "Resistenza civile", in "Italia contemporanea", 200, 1995.

52. A. Bravo, La resistenza civile, in L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1966.

53. P.Schwartz, Redefining Resistance:Women’s Activism in Wartime France, in Higonnet et al. (eds), Behind the Lines cit; A. Rossi-Doria, Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994: M. Nash, Women’s Experience, Civil Resistance and Everyday Life in War and Revolution: Spain 1936-1939, relazione presentata al convegno "Donne, guerra, resistenza nell’Europa occupata" (Milano 14-15 gennaio 1995).

54. Cfr. anche le relazioni di M. G. Camilletti, L. Capobianco, M. Fraser, L. Mariani, al convegno citato sopra.

55. S. Lunadei (a cura di), Donne a Roma 1943-1944, Cooperativa Libera Stampa, Roma 1996.

56. S. Laudi, Un giusto, in "Ha Keillah", 3, 1998.

57. La protagonista é Marisa Sacco, che narra l’episodio in "Guerra alla guerra", video a cura di Anna Gasco, Torino 1995.

58. Tzvetan Todorov, Une tragedie francaise, Seuil, Parigi 1994.

59. E. Deaglio, La banalità del bene, Feltrinelli, Milano 1991.

60. Sulla necessità di lavorare con la memoria anziché sulla memoria, vedi L. Lanzardo, Torino, guerra, donne. Un esempio di ricerca qualitativa: le fonti orali, in "Qualestoria", 1990, n. 1.

61. Vedi l’analisi di R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettività rammemorante, in "L’impegno", 1993, n. 1.

62. Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia. 1944-1993, Franco Angeli, Milano 1994.

63. Sul rapporto critica femminista / decostruzionismo, vedi E. Alessandrone Perona, Sincronie e diacronie nelle scritture femminili sulla seconda guerra mondiale, in "Passato e presente", 1993, n. 30, pp. 118 sg.

64. A. M. Troeger, German Women’s Memories of World War II, in Higonnet et al., Behind the Lines cit.

65. Delle 125 donne intervistate, sono nate in Piemonte 95 (di cui 60 a Torino e nella cintura): 87 di loro sono di famiglia piemontese. Fra le altre, sono nate al Sud 11, nel centro Italia 4, 15 nel Nord Italia. Nel 1940, avevano meno di 19 anni 51 di loro; 43 erano fra 19 e 29 anni; 25 erano fra 29 e 39 anni; 6 fra 39 e 50. Delle loro famiglie (considerando la condizione del capofamiglia) 39 erano di classe operaia, 20 contadine, 24 di piccola borghesia impiegatizia, 22 di borghesia delle professioni, 5 artigiane, 10 commercianti. 5 erano famiglie di ufficiali e sottufficiali. Le donne di religione cattolica sono 115, di cui alcune non praticanti; 8 di religione ebraica; due valdesi. La loro scolarità va dalla licenza elementare (50), alla licenza di scuole tecnico-professionali e di avviamento (38), alla licenza liceale o al diploma (14), alla laurea (23). Solo 13 sono definibili come casalinghe; 20 erano ancora studentesse o scolare; 23 erano operaie, 21 impiegate, 2 contadine, 6 commesse, 7 insegnanti, 5 sarte, 2 modiste, 6 occupate in professioni artistiche, 2 commercianti, 2 ostetriche, 1 medico, 1 infermiera, 1 avvocata, 3 domestiche, 1 traduttrice. Le rimanenti svolgevano attività varie. Le donne ricoverate in ospedale psichiatrico erano 4, 1 é suora, 1 é stata crocerossina per tutta la durata della guerra. All’epoca 52 erano sposate, 38 con figli; 73 erano nubili, 2 con figli; 69 hanno vissuto lo sfollamento, 35 hanno avuto prigionieri, feriti, deportati, dispersi, morti fra i parenti stretti, 2 sono state gravemente ferite nei bombardamenti. Le partigiane riconosciute sono 4; 27 hanno fatto attività politica, molto spesso senza legami con partiti e organizzazioni. 26 donne si sono autocandidate all’intervista rispondendo a un "Invito a raccontare" diffuso in un convegno; 26 sono state raggiunte attraverso istituzioni e circoli; 73 attraverso reti di rapporti personali e canali politici. Alcune hanno scelto di comparire attraverso uno pseudonimo. Da altre ricerche da noi condotte abbiamo tratto i racconti delle deportate sia "razziali" sia politiche e di altre partigiane. A tutte le donne che ci hanno narrato la loro esperienza, sia quelle che compaiono in questo libro sia quelle che non abbiamo potuto citare, siamo profondamente grate.