LA RIVOLUZIONE RUSSA

  

1905

All'ondata di scioperi spontanei che dal gennaio 1905 investì la Russia corrispose la formazione di comitati operai, che in genere restavano in vita il tempo necessario per dirigere le singole azioni di lotta, limitate nel tempo. Talvolta, però, fra i vari comitati si stabilivano rapporti di cooperazione (organizzativa ma anche politica) e veniva a formarsi un organismo stabile, rappresentativo di molte fabbriche, che assumeva obiettivi e competenze più generali, coordinava le lotte, fissava programmi d'iniziativa per il futuro: erano i primi consigli dei deputati degli operai, i Soviet.

A Pietroburgo, nell'ottobre del 1905, attivisti menscevichi (che avevano posizioni più di sinistra rispetto a quelli emigrati) cominciarono a svolgere fra gli operai propaganda per l'elezione di un comitato operaio generale.

A questo piano abbastanza confuso, e certamente ottimistico nella sua ingenuità, i bolscevichi pietroburghesi contrapponevano la proposta di creare dappertutto dei comitati rivoluzionari, che avrebbero dovuto essere gli organi dell'insurrezione e poi del governo provvisorio. Come si vede questa linea non era molto più realistica di quella dei menscevichi: certo coglieva più chiaramente i compiti pratici della rivoluzione, ma tagliava completamente fuori quello che già stava accadendo, la formazione del soviet.

Il grande sciopero dell'ottobre 1905 e l'insurrezione del dicembre furono il momento culminante della rivoluzione: facevano seguito a un insieme di sommosse contadine a largo raggio, di scioperi operai, di ammutinamenti nelle forze armate (nel luglio il celebre episodio della corazzata Potëmkin); nell'estate dell'anno successivo esplosero nuovamente rivolte nelle campagne, ma il movimento contadino era palesemente privo di obiettivi politici, così come quello operaio non era riuscito - in mancanza di una direzione generale - a unificare le spinte diverse che lo animavano e sulle quali finì per prevalere una linea economista perdente.         
Il Soviet di Pietroburgo fu costituito a metà ottobre del 1905 e nella sua brevissima esistenza (poche settimane) arrivò a contare circa 550 delegati in rappresentanza di oltre 250.000 lavoratori: una forza imponente, ma che, al pari degli altri soviet sparsi nella Russia, rappresentava in realtà un'esigua minoranza urbana e dimostrava quanto fosse esile la pretesa di farne la guida di una rivoluzione generale; soprattutto se si tiene conto che la reale presenza dei bolscevichi nei soviet fu all'inizio assai limitata.

Il mancato coordinamento delle varie lotte, l'assenza di un nesso organico fra rivendicazioni di tipo economico (anche fondamentali, come quella della giornata lavorativa di 8 ore) e politico, l'incapacità di qualsivoglia forza di prendere in mano con vigore e lucidità la direzione del movimento, in una parola, "l'incompiutezza" della rivoluzione - come la definì Lenin - diedero all'autocrazia la possibilità di evitare la catastrofe.           
la domenica di sangue
Ormai, però, nulla poteva essere più come prima, e il potere si trovò costretto a seguire una strada diversa, che tenesse conto dei notevoli elementi di novità che andavano emergendo in quei mesi.

Le forme politiche che queste tendenze andarono ad assumere furono svariate e mutevoli, comunque i due partiti principali erano a sinistra quello Costituzionale-democratico (dalle sue iniziali i membri erano chiamati "cadetti") e al centro l'Unione del 17 ottobre.

A quest'ultimi e agli ottobristi (monarchici riformisti), si rivolse il governo Vitte per formare un gabinetto di apertura costituzionale, ma il tentativo non andò in porto a causa dei contrasti sulla legge elettorale: gli ottobristi ponevano la pregiudiziale del suffragio universale, ma non ebbero la meglio sulla linea dura del ministro degli Interni, Durnovo, che nel dicembre 1905 - nel pieno dell'insurrezione - varò la nuova legge elettorale, in base alla quale operai e contadini potevano sì eleggere i propri rappresentanti ma in organismi ad hoc, staccati dalla Duma.

Questa venne eletta nel marzo 1906 (i menscevichi e, soprattutto, i bolscevichi, fiduciosi sulla ripresa del movimento insurrezionale, attuarono il boicottaggio), e i Cadetti vi ebbero la maggioranza relativa. Nei tre mesi seguenti l'esperimento costituzionale si trascinò fra interminabili discussioni parlamentari e complicate trattative per la formazione di un nuovo governo, e finì per consumarsi a causa della sostanziale irresolutezza dei cadetti, incapaci di scegliere tra una linea apertamente filogovernativa (divenendo così degli ostaggi in mano alla reazione e ciò probabilmente sarebbe stato il loro suicidio politico) e una conseguentemente democratica (il che, ugualmente, li avrebbe portati alla rovina, rendendoli subalterni ai settori rivoluzionari).

Infatti, la minaccia del governo di sciogliere la Duma, dato che essa continuava ad occuparsi della questione agraria (al cui centro restava il punto, tanto decisivo quanto controverso, relativo all'esproprio dei latifondi), provocò scandalo e costernazione fra i deputati, e li spinse persino a un grottesco appello al popolo, ma ottenne soprattutto l'effetto di rendere esplicita e definitiva l'incapacità della borghesia russa di svolgere una funzione politica organica.

La Duma fu quindi sciolta agli inizi di luglio e furono convocate nuove elezioni: il nuovo primo ministro, Stolypin, diede immediatamente un'impronta reazionaria al proprio gabinetto, prima scatenando una violentissima repressione (tristemente famosa la "cravatta di Stolypin", cioè la pratica di impiccare senza processo qualunque sospetto rivoluzionario), poi sciogliendo anche la seconda Duma, attuando di fatto un colpo di stato, e imbrigliando la terza.

Ma il regime di Stolypin non fu semplice reazione. Era chiaro che dopo il 1905 la Russia era cambiata, tanto più radicalmente quanto più il mutamento aveva coinvolto la grande e apparentemente informe massa contadina: e Stolypin colse perfettamente il dato che la rivoluzione era stata stroncata ma non distrutta per sempre. Lo scioglimento della seconda Duma in buona misura si deve all'eco che in essa risuonava della sotterranea ma diffusa protesta.
L'obiettivo non poteva certo essere quello di rimuovere alla radice le cause della protesta contadina, perché ciò poteva avvenire solo con quell'alienazione coercitiva della grande proprietà, che era per l'appunto quanto bisognava evitare: la soluzione, avviata con l'emanazione di un ukaz nel novembre 1906, stava nella distruzione dell'obscina (la forma di proprietà collettiva della terra così come si era definita dopo il 1861), dando così da un parte la possibilità a ogni capofamiglia di esigere il passaggio in proprietà privata della sua parte di terra, e dall'altra togliendo ogni possibilità di sopravvivenza alla restante massa contadina che non fosse quella di alimentare l'esercito di riserva dei salariati della grande azienda.

Malgrado che i menscevichi (e in particolare la loro ala dei liquidatori) dessero poi sulla rivoluzione un giudizio diametralmente opposto a quello dei bolscevichi, inscrivendo sulla loro bandiera il motto di un Plekhanov ormai su posizioni conservatrici, "Non bisognava prendere le armi", tra il 1905 e il 1906, e già prima della caduta del Soviet di Pietroburgo, le due fazioni sotterrarono l'ascia di guerra: in realtà le scissioni e le divergenze dell'emigrazione non avevano avuto molta risonanza nella base del partito in Russia, e nel 1905 i socialdemocratici affrontarono del tutto uniti gli eventi della rivoluzione. Questo, oltre all'esigenza di ridare anche credibilità interna a una socialdemocrazia che voleva guidare la rivoluzione, spinse i due gruppi (e Trotsky, che però si mantenne fuori dalle cordate) a cercare concretamente di ricomporre il partito. Nell'aprile 1906 si tenne a Stoccolma il Congresso dell'unità, e l'anno dopo, a Londra, vi fu un altro Congresso unitario, nel momento in cui maggiore era l'entusiasmo suscitato dalla Costituzione d'ottobre e dalla convocazione della prima Duma. Fino al 1912 il partito rimase formalmente unito, ma quanto più si precisavano le valutazioni della sconfitta in Russia tanto più era evidente che esse riproponevano divergenze di fondo insanabili: paradossalmente l'unità fu mantenuta perché i contrasti non erano più riconducibili ai due gruppi in quanto tali, ma investivano trasversalmente tutto il partito e creavano una confusione tale che non era più riconoscibile un fronte sul quale le due frazioni si potevano schierare.

Ma questa evoluzione interna va vista anche alla luce di un dibattito più generale che coinvolse la socialdemocrazia, e in particolare quella tedesca, su due temi, fra loro strettamente intrecciati, che in qualche modo riproponevano alcune delle questioni lasciate aperte dalla controversia, a cavallo del secolo, sul revisionismo: il tema dello sciopero di massa (Massenstreik) e quello sulle "differenze" fra Oriente e Occidente.

In realtà questo importantissimo dibattito coinvolse solo indirettamente il partito russo, impegnato com'era a ricomporre le fila di un movimento disperso dalla reazione, a ricercare una via per mantenere la fragile unità interna, e soprattutto ad analizzare le ragioni della sconfitta: ne riferiamo (molto schematicamente, perché fu particolarmente complesso e ricco di spunti) per il significato generale che ebbe per la vicenda di tutto il movimento operaio, e perché alcuni suoi aspetti li ritroveremo nell'ambito specifico russo.



In sintesi la questione che si poneva era questa: le forme di lotta del proletariato russo dovevano essere recepite oppure no dal movimento operaio occidentale?

In Germania, dove si concentrò il dibattito, i sostenitori della risposta affermativa (l'ala sinistra: Luxemburg, Mehring, Liebknecht, Zetkin, Parvus, e in parte anche Kautsky) vennero sconfitti dalla destra che faceva capo al sindacato, cui si affiancarono Bebel e Bernstein, che avevano preso una posizione più articolata

Rosa Luxemburg sostenne che lo sciopero di massa russo era la massima espressione del conflitto universale tra capitale e lavoro, e in quanto tale dava un segno di omogeneità della lotta di classe internazionale: essa, sia pur con specifiche articolazioni nazionali, doveva assimilare dalla Russia il nesso profondo che si era andato instaurando fra la dimensione economica e quella politica, e, a un livello più alto, fra rivendicazioni democratiche e sbocco rivoluzionario di tipo socialista. Questo perché la borghesia russa era troppo arretrata per condurre una lotta vittoriosa contro l'autocrazia, mentre la forza del proletariato, impostosi come classe dirigente, avrebbe portato il processo di rivoluzione sociale oltre lo stadio borghese. L'autonoma capacità di autorganizzazione delle masse era il prodotto inevitabile dell'inasprirsi del conflitto di classe, e ciò poneva al partito un solo scopo: dirigere coscientemente un processo oggettivo che artificialmente non poteva né essere creato né essere soffocato. In Russia si realizzava finalmente il ripristino del marxismo del Manifesto: il fulcro della "leva rivoluzionaria" di cui parlava Lenin si era spostato da Occidente a Oriente.

Oriente e Occidente - così potremmo riassumere le varie tesi della sinistra socialdemocratica - non solo non si contrapponevano, ma erano tali da dover essere ricomposti in una tendenziale unità, ritmata dai tempi delle lotte rivoluzionarie proprie di ciascun paese, ma anche da linee comuni: era lo sciopero politico di massa a costituire questa base unitaria.

Kautsky, da un'analisi delle forze motrici della rivoluzione russa, cercò di stabilire gli eventuali nessi fra la situazione russa e quella tedesca: l'affinità risiedeva nell'autoritarismo molto accentuato dei rispettivi governi, ma vi era un abisso dal punto di vista delle due economie; qui Kautsky introduceva un elemento di notevole originalità dell'analisi, disegnando una sorta di triangolo fra Russia, Stati Uniti d'America e Germania: quest'ultima era legata a entrambi gli altri due paesi ma su versanti opposti, con la Russia per quanto già detto e con gli Stati Uniti sul piano di un analogo dinamismo economico e finanziario. Ma, secondo Kautsky, il processo apertosi in Russia se da una parte era legato a quelle specifiche condizioni di arretratezza, dall'altra s'innestava comunque in una fase di sviluppo capitalistico, e in ciò rivelava la propria natura internazionale: là come altrove il proletariato industriale affermava prepotentemente, e in maniera irreversibile, il suo primato fra le forze motrici del cambiamento, e la rivoluzione borghese russa non era che l'inizio di una fase mondiale di rivoluzioni proletarie:
"La rivoluzione in permanenza è dunque proprio ciò di cui ha bisogno il proletariato in Russia."
Lo sciopero politico di massa, che avrebbe portato alla vittoria della rivoluzione in Russia e che quindi avrebbe sconvolto gli equilibri internazionali, diventava l'arma decisiva di tutti i conflitti di classe, creava le condizioni per lotte non più parziali, ma risolutive rispetto alla costruzione del potere socialista. Ma la sconfitta di quest'ipotesi, nel 1905-6, fece tornare Kautsky sui suoi passi, concludendo che se lo sciopero di massa non era riuscito ad abbattere un regime indebolito da una guerra fallimentare e appesantito dall'elefantiasi burocratica, tantomeno aveva speranze di successo nei confronti di una Stato efficiente e sicuro di sé come quello tedesco.

Se Kautsky, il teorico, era approdato alle medesime conclusioni moderate di Bebel, il capo del partito, ma partendo da un'iniziale favore verso le forme di lotta sperimentate in Russia, l'ala revisionista rigettava in blocco la tesi dei radicali: pur differenziandosi al proprio interno fra chi rifiutava totalmente l'idea di sciopero politico generale (i capi sindacali) e chi non respingeva a priori questa forma di lotta ma la riconduceva comunque, con varie accentuazioni, a un quadro legalitario, i revisionisti erano concordi su tre punti essenziali:

1. la rivoluzione russa non era l'inizio delle rivoluzioni europee;
2. il socialismo non era all'ordine del giorno;
3. enormi erano le differenze fra Oriente e Occidente in campo economico e politico- sociale. Proprio su questo terreno delle "differenze" Bernstein si oppose frontalmente a Luxemburg e a alla sinistra: il successo degli scioperi russi non è l'indice della maturazione internazionale del processo rivoluzionario, "non è la prova della forza propria della classe operaia, bensì un segno della temporanea impotenza o mancanza di energia delle altre classi e del potere pubblico."
La sconfitta bellica, continua Bernstein, ha accentuato il tipico "caos" che già pervadeva la Russia, paese senza un moderno tessuto politico, ancorato a un sistema feudale, assente dai dinamici mercati finanziari internazionali: da questo "caos", dall'impotenza di uno Stato privo del retroterra fondamentale costituito dalla società civile, scaturiva "spontaneamente" il tumulto delle masse; tutt'altra situazione, quindi, rispetto a una Germania in cui se non vi è certo la democrazia politica la società è purtuttavia articolata in forme complesse, lo Stato è efficiente, il capitale ha idee chiare sul futuro, e dove, in ultima analisi, l'unico orizzonte possibile per la socialdemocrazia era quello parlamentare.

Personaggio quasi sconosciuto ma di grandissima levatura teorica, Izrail' Lazareviç Gel'fand, detto Parvus, (1867-1924) ebreo nato in Russia, viveva in Germania: come Luxemburg e Mehring apparteneva all'estrema sinistra della socialdemocrazia tedesca. Partendo dall'esame della guerra russo-giapponese, Parvus introduceva nel dibattito una visione decisamente più ampia, anticipando, fra l'altro, alcuni dei principali temi dell'Imperialismo (1916) di Lenin. Il destino della rivoluzione è intimamente legato alle nuove dinamiche internazionali: le guerre cino-giapponese, anglo-boera, ispano-americana, russo-giapponese, sono i prodromi di un imminente conflitto mondiale; la Germania va affermandosi come potenza marittima; gli Stati Uniti si prospettano come la punta avanzata del capitalismo imperialistico; s'inasprisce il dissidio contro il dominio commerciale della Gran Bretagna. Il conflitto primordiale tra capitale e lavoro si è trasformato, a un livello superiore, in scontro fra imperialismo e rivoluzione.
Rispetto a questa analisi a tutto campo, Parvus indica al proletariato rivoluzionario alcune linee originali:

1. fare dello sciopero politico generale l'arma principale, soprattutto per la sua capacità di "disorganizzare lo Stato mediante la paralisi delle branche più importanti della produzione e dei mezzi di comunicazione (...): in questo senso lo sciopero generale non è altro che la rivoluzione senza il ricorso alle armi."
2. cercare d'impedire a tutti i costi la guerra, ovvero, nel caso questa scoppiasse, scatenare la rivoluzione;
3. realizzare la propria unità ed affermare al contempo la propria autonomia politica nei confronti degli altri settori della società;
4. mettere al primo posto il concetto che "la democrazia operaia contiene tutte le richieste più radicali della democrazia borghese, però conferisce ad alcune di queste un carattere particolare e ne aggiunge di nuove, puramente proletarie."

Di qui, ben oltre la prudenza di Lenin e di Trotsky, Parvus riesce immediatamente a cogliere la centralità del soviet, il quale, introducendo una solida mediazione organizzata fra partito e masse e mutando radicalmente il rapporto fra questi due elementi, s'imponeva come l'agente principale dello sciopero e, più ancora, come l'organo di direzione politica del proletariato sui contadini e sui soldati, cioè "per la prima volta una organizzazione che agiva non soltanto in senso distruttivo ma anche in senso costruttivo (...) in grado di intraprendere la costruzione dello Stato." "Rovesciare il vecchio potere è una cosa. Prendere in mano il potere un'altra."

v. anche Leon Trotsky, The history of the Russian Revolution