Giorgio PERLASCA, da “La banalità del bene” di Enrico Deaglio

«La notte scorsa è successo un fatto terribile. Hanno preso un gruppo di ebrei del ghetto e li hanno trucidati in piazza Ferenc Liszt e in via Eötvös. Abbiamo prima udito le grida e le suppliche di centinaia di persone, e poco dopo gli spari. All’alba mi sono recato sul posto e ho visto che i morti erano per la maggior parte donne e bambini. (…) Tutta la riva del fiume era ricoperta da neve, ma davanti ai caffè Hungaria e Negresco il colore era diventato rosso sangue. Nel fiume si vedevano i corpi nudi di centinaia di morti, che l’acqua non aveva potuto trascinare con sé a causa della presenza di blocchi di ghiaccio. Mi hanno raccontato che le vittime erano state costrette a camminare per circa due chilometri, in fila per due, con le mani legate, a piedi scalzi e completamente svestite. Le avevano poi fatte inginocchiare sulla riva del fiume e avevano sparato loro alla nuca».
Simon WIESENTHAL, cacciatore di nazisti, da “Gli assassini sono tra noi

«Non potevano fare a meno di vedere i vicini ebrei che venivano portati via dagli uomini con le uniformi nere delle SS. I loro figli, quando tornavano a casa da scuola, raccontavano che i loro compagni ebrei erano stati cacciati via. Vedevano le svastiche sulle vetrine infrante dei negozi ebrei saccheggiati. Non potevano ignorare le macerie delle sinagoghe incendiate nella notte del 9 novembre 1938. La gente sapeva quello che stava succedendo, sebbene molti avessero paura e preferissero guardare altrove per non vedere troppo».

Elie WIESEL, da “La notte

«Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli. I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento. Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono… Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo… Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare: “Dov’è Dio adesso?” E udii una voce dentro di me rispondergli: “Dov’è? Eccolo lì - appeso a quella forca… ».

Jean AMÉRY, filosofo austriaco deportato ad Auschwitz perché ebreo

«Chi è stato torturato rimane torturato [...] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più».

Jean Bruller VERCORS, da “Il silenzio del mare

«Hitler trionfa dappertutto, il mondo intero è contaminato. Senza rimorso si ricorre al delitto, alla menzogna, all’aggressione: ai mezzi che la morale riprova. Rammentare di continuo le ragioni di questa putredine è quanto di più utile possiamo fare per il bene dell’umanità».
Primo LEVI, da “I sommersi e i salvati

«Il sistema concentrazionario aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari. Su questo punto le SS avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico nella sostanza, che accompagnava l'ingresso; i calci e i pugni subito, spesso sul viso; l'orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci».

Primo LEVI, da “Se questo è un uomo

«Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo».

«Perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere, è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso».

 

Primo LEVI, da “La tregua

«Sentivamo che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di cosi buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia».

Anna FRANK, dal suo “Diario

«Nonostante tutto, continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l'avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità».

«Con nostro grande dolore e con grande indignazione abbiamo appreso che l’atteggiamento di molta gente di fronte a noialtri ebrei è molto cambiato. Abbiamo udito che l’antisemitismo è penetrato in ambienti dove prima non ci si pensava nemmeno. La causa di questo antisemitismo è comprensibile, talvolta è perfino umana, ma non è giusta. È triste, è molto triste che per l'ennesima volta si confermi il vecchio principio: “Se un cristiano compie una cattiva azione la responsabilità è soltanto sua; se un ebreo compie una cattiva azione, la colpa ricade su tutti gli ebrei”».

Nedo FIANO, deportato ad Auschwitz con il numero A5405

«Immagina che cosa vuol dire vivere in un campo dove si bruciavano 10 mila persone al giorno, col fetore di carne umana che ti perseguita giorno e notte. Immagina i prigionieri di Auschwitz, di Treblinka, di Mauthausen, uomini e donne che hanno assistito impotenti alla morte dei loro genitori, delle loro mogli, dei loro figli, dei loro parenti. Mi dirai: ma come si esce da quell’inferno? In quali condizioni? Semplice. Un uomo che è stato nel Lager non esce più dal campo. Un uomo è sempre là».
Lidia BECCARIA ROLFI, da “Le donne di Ravensbruck

«A Ravensbruck per vivere bisogna lavorare; è concessa la sopravvivenza solo a chi lavora e produce, e solo fino a quando può lavorare e produrre».
Binjamin WILKOMIRSKI, dal romanzo autobiografico “Frantumi

«A Majdanek non si poteva essere tristi: chi era triste anche solo per un momento si mostrava debole e chi era debole non poteva sopravvivere».
Calel PERECHDONIK, da ”Sono un assassino?“ sul ghetto di Varsavia

«Onore a te, genio tedesco, visto che soltanto tu sei riuscito a intontire gli uomini, a portarli a uno stato di stordimento collettivo taleche essi attendevano i loro carnefici: non si nascondevano nemmeno. Anzi si raggruppavano perché i boia non avessero troppo lavoro».
Jorge SEMPRUN, deportato a Buchenwald, da “La scrittura o la vita

«Quando quell'angoscia ricompare ci si ritrova al centro di un vortice di nulla, di una nebulosa di vuoto, grigia e torbida. Sotto la splendente superficie della vita quotidiana, questa certezza a portata di mano: niente è vero all'infuori del campo, il resto non è stato altro che un sogno. Di vero c'è soltanto il fumo del crematorio, la fame, gli appelli sotto la neve,le bastonate, la morte, il fetore fraterno delle latrine del campo».

Jona OBERSKI, dal libro autobiografico “Anni d’infanzia

«Allora vidi i morti. Erano fagotti fatti di lenzuola. Da alcuni sporgevano gambe e braccia. Certi corpi erano nudi. Altri avevano ancora i calzoni. Giacevano lì, gettati disordinatamente uno sopra l’altro, per verso e per traverso. Uno stava rovesciato all'indietro in cima la mucchio, la testa gli penzolava giù. Aveva grandi occhi scuri e braccia penzoloni, molto magro. Un altro giaceva con la testa posata su un braccio teso. L’altro braccio non c'era. Sparsi intorno c'erano anche pezzi staccati, braccia, gambe. Cercai di scoprire qual era mio padre. Piegai la testa in tutte le possibili direzioni, di lato, mi misi a testa in giù per poter guardare tutti quei volti che stavano sbiechi o rovesciati. Ma erano tutti terribilmente uguali. E c'era anche troppa poca luce. Proprio davanti a me c'era, in cima al mucchio, un fagotto di lenzuola. Dalla forma si vedeva benissimo che c'era dentro un corpo. Che fosse mio padre? Vicinissimo, davanti a me c'era un corpo sul pavimento, nudo, voltato a pancia in giù. La testa era voltata di lato. Che fosse quello mio padre? La testa rasata l'avevano tutti. No, mio padre non c'era. Doveva essere ancora nella baracca dell'infermeria. E poi lo avrebbero sepolto».
Aldo CARPI, dal libro autobiografico “Diario di Gusen

«Ricordo che a Mauthausen, mentre scendevamo lungo le scale che portavano al bagno, han fatto scendere con noi un gruppo di muselmann, come noi li avremmo chiamati dopo, che erano gli uomini mummia, i morti vivi; e li han fatti scendere insieme a noi solo per farceli vedere, perché ci facessimo subito un’idea del lager. come a dirci: diventerete così».

Giacomo DEBENEDETTI, da “16 ottobre 1943

«Facessero qualche cosa, sfondassero una porta, una saracinesca, una bottega, almeno si capirebbe il perché. Ma no, sparano, urlano, nient’altro. È come il mal di denti, che non si sa quanto può durare, quanto può peggiorare. Questo non capire è il peggiore degli incubi».

«Prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. Già sui visi e negli atteggiamenti di questi ebrei, più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione. Pare che quell’atroce, repentina sorpresa già non li stupisca più. Qualche cosa in loro si ricorda di avi mai conosciuti, che erano andati con lo stesso passo, cacciati da aguzzini come questi, verso le deportazioni, la schiavitù, i supplizi, i roghi. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare. D'altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo».


Mimma PAULESU QUERCIOLI, da “L’erba non cresceva ad Auschwitz

«La mamma le diceva: Arili, i bambini devono dormire. Hanno bisogno di sognare per crescere forti e tranquilli. lo non voglio sognare, se chiudo gli occhi vedo i tedeschi coi grandi stivali che vogliono farmi del I male. E poi ci sono gli urli e questi rumori terribili».

«Un’altra volta all’appello le tennero in piedi tutta una mattina perché mancavano due prigioniere e i conti non quadravano. Si trattava di due ebree triestine che erano andate al gabinetto; la madre era molto anziana e la figlia l’aveva accompagnata. Nonostante piovesse a dirotto, fecero mettere tutte in ginocchio con le braccia alzate e così le tennero per delle ore. Finalmente trovarono le due ebree. Le portarono sul piazzale e, davanti a tutte, iniziarono il pestaggio coi calci fino a che la vecchia mori. La figlia fu portata via con lei e certamente finì al camino».

«Un giorno che come sempre erano schierate per l'appello alcuni nazisti arrivarono con un sacco dentro il quale avevano chiuso un neonato, lo gettarono in alto e spararono come se facessero il tiro al piccione. Arianna restò impietrita, non osò parlare con i suoi compagni, ma pensò: questi non sono uomini, sono mostri».

Edith BRUCK, da “Il tatuaggio

«Sbucano dalle nebbie e le palandrane grigie come impazzite ci colpiscono alla cieca rompendo la fila guadagnata con pugni e calci e colpi di fucile. Le orecchie sono sorde, le parole le inghiotte il vento che dalle fabbriche di morte porta odore di carne bruciata e cenere sulle nostre teste calve di colpe non commesse».
Tatiana BUCCI, dal libro di Titti Marrone “Meglio non sapere

«Nel mio ricordo, a differenza che per Andra, Auschwitz è soprattutto il camino. Non so quando, ma a un certo punto sapevo di essere in quel posto chiamato Auschwitz e per me quel nome si legava alla ciminiera. Qualcuno, non ricordo chi, dovette dirmi qualche cosa. Sta di fatto che io sapevo che lì dentro si inceneriva la gente. Uscivano anche fiamme, non solo fumo grigio. Vampate di fiamme, da cui pioveva come una nebbiolina grigia che si posava dappertutto. E si sentiva sempre quell’odore, io non capivo che cosa fosse. Dopo ho saputo che era carne bruciata».

Vanna Vannuccini

"Io parlo agli assassini di domani"

Simon Wiesenthal [1908 - 2005] ha compiuto da poco gli ottant'anni, anche se, guardandolo, è difficile crederlo: occhi intensi e vivaci, che ricordano i rabbini degli Shetl polacco-galiziani della sua infanzia, gesti espressivi, toni appassionati. Racconta parabole e storie con candore e con malizia, con pietà per la condizione umana e indignazione per la barbarie cui gli uomini possono arrivare. Nel giudicare, cerca sempre di tener conto delle circostanze in cui un uomo ha agito: chi ha ucciso dieci ebrei perché si è trovato a far parte di un plotone di esecuzione è meno colpevole di colui che, di sua iniziativa, ha picchiato a sangue un prigioniero.
E appunto Recht, nicht Rache, Giustizia, non vendetta, è il titolo del suo libro di memorie che esce contemporaneamente in Germania e in Francia (in Italia lo pubblicherà a maggio la Mondadori).
For his remembering, when others forget
(perché lui ricorda quando gli altri dimenticano), così è scritto su uno dei diplomi ad honorem che tappezzano le pareti del suo Centro di documentazione ebraica, qui a Vienna. Ricordare quando gli altri hanno dimenticato è infatti l impegno cui Simon Wiesenthal tiene fede da quasi quarantacinque anni: dal giorno stesso il 5 maggio 1945 in cui gli americani liberarono il lager di Mauthausen.
Wiesenthal scrisse subito al comandante del campo profughi offrendosi di collaborare all'identificazione dei criminali nazisti: "... Io sono stato in tredici lager, situati nella zona ora occupata dai sovietici. Ma credo che i criminali nazisti che agivano in quei lager sono passati nella zona occidentale. Accludo un elenco di coloro che ho conosciuto personalmente e che posso identificare a prima vista." La lettera è stata ritrovata l'anno scorso nell' Archivio nazionale di Washington.
Con gli americani collaborò per un anno: smise quando il nuovo comandante del campo gli consigliò amichevolmente di emigrare negli Stati Uniti, accompagnando quel consiglio con una battuta: In America i semafori regolano il traffico, tutto il resto lo regolano gli ebrei.
Così Wiesenthal fondò a Linz il suo primo Centro di documentazione ebraica: lo aiutavano una trentina di superstiti come lui, per pagare la corrispondenza e le telefonate disponeva soltanto dei cinquanta dollari mensili che gli mandava un avvocato ginevrino. È riuscito a stanare e a consegnare alla giustizia millecento criminali nazisti.
Tra questi, oltre a Eichmann e al boia di Vilna Franz Murer, la SS austriaca Silberbauer, l'uomo che arrestò Anna Frank. Trovarlo era importante, perché dopo la guerra i nazisti sostenevano che il Diario di Anna Frank era un falso; una volta arrestato Silberbauer, per quindici anni si sono ben guardati dal ripetere una cosa del genere. Da qualche tempo, però, hanno ricominciato: e sa perché? Perché credono che oggi la gente abbia dimenticato tutto. Perfino i sopravvissuti dei lager hanno contribuito a questa rimozione.

Una volta mi trovavo a Montreal, dovevo parlare a un migliaio di ragazzi ebrei. Chiesi loro: a quanti di voi i genitori hanno parlato del periodo nazista? Alzarono la mano in pochi, e quasi nessuno di loro era figlio dei sopravvissuti all'Olocausto. Tre di quei ragazzi vennero a parlarmi; li invitai a mandare da me i loro padri. E a ciascuno di quei padri chiesi per quale motivo non avesse raccontato a suo figlio ciò che era accaduto. Risposero tutti che volevano, per i loro figli, una sorte migliore. In realtà, dissi loro, avevano taciuto perché non volevano sentirsi rivolgere una domanda: non già che cosa hai fatto durante il periodo nazista?, perché non era possibile far nulla, ma che cosa hai fatto dopo?. E loro non avrebbero saputo che cosa rispondere: nemmeno che avevano mandato un assegno al Centro di Wiesenthal.
Anche lui, una volta, serbò il silenzio con sua figlia. Era Natale, e Paulincka, tornando da scuola, gli chiese: Tutti i miei compagni hanno una nonna, un nonno, degli zii, dei cugini. Tu non hai avuto una mamma, un papà? Dove sono i miei nonni? La verità era che erano rimasti tutti vittime dello sterminio. Ma come si può spiegare una cosa simile a una bambina di dieci anni? Telefonai a un amico, a Vienna, e lo pregai di invitare Paulincka facendole credere di essere un nostro cugino. Ritrovo sua moglie, Cyla, in modo avventuroso, dopo la guerra; ciascuno dei due credeva che l'altro fosse morto. Quando venne a sapere che Cyla viveva in Polonia sotto falso nome, Simon mandò un contrabbandiere a cercarla. Costui mise un annuncio nella sinagoga e aspettò: si presentarono tre signore Wiesenthal. Al ritorno, il contrabbandiere gli disse: Simon, che dovevo fare? Ho scelto la più carina: se non è lei, me la prendo io. Per fortuna era lei.
Dieci anni fa, quando Wiesenthal compì settant'anni, la moglie gli disse: Simon, hai fatto abbastanza. Viviamo gli anni che ci restano senza dover ricevere ogni giorno lettere minatorie, intimidazioni contro nostra figlia, senza la polizia davanti alla porta. E lui: Se smettessi, sarei un traditore. Vorresti vivere con un traditore?

Le tre stanze del Centro, situate in una modesta palazzina della Salztorgasse, ricostruita dopo la guerra proprio nel luogo dove un tempo si trovava l'Hotel Metropole, sede del Quartier generale della Gestapo, è zeppa di dossier allineati su scaffali che arrivano al soffitto. Non ho mai accusato un innocente, dice con orgoglio Wiesenthal. Prima di accusare qualcuno, bisogna raccogliere le prove. I criminali per convinzione, quelli che agivano al servizio di una ideologia, erano i peggiori: peggiori finanche dei sadici. Ci sono tanti sadici nella nostra società; solitamente si trattengono per paura della punizione. Nei lager tutto era permesso, potevano dare liberamente sfogo ai propri impulsi. Ma dopo un po' si calmavano. Invece i criminali per convinzione non si calmavano mai.
Nonostante la fierezza per i casi risolti, il suo bilancio è amaro. I nazisti hanno perso la guerra, ma noi abbiamo perso il dopoguerra. Se ne rese conto già al tempo dei processi di Norimberga, quando un ufficiale americano gli spiegò le nuove regole del gioco: Se mettiamo in carcere i generali, come faremo a ricostruire l'esercito tedesco? E senza la Germania, l'Europa non si può difendere.
Così tanti criminali si misero in salvo, anche grazie all'appoggio del Vaticano. Il vescovo di Graz, Alois Hudal, se ne vantò addirittura; scrisse nelle sue memorie: Ringrazio Iddio che mi ha dato la possibilità di aiutare, fornendo loro documenti falsi, molte vittime del dopoguerra, che così hanno potuto emigrare verso luoghi più felici.
Tutti, aggiunge Wiesenthal, passavano per la via romana; il convento dei francescani in via Sicilia era gremito di nazisti. Walter Rauff, l'inventore del furgone a gas i cui passeggeri non giungevano mai a destinazione, operò in Italia dal ' 45 al ' 49: faceva passare i nazisti per profughi serbi, croati o ungheresi.

E Mengele? Il caso non è chiuso, risponde Wiesenthal. Ammette di essersi sbagliato su Bormann, cui diede la caccia per anni, mentre Bormann si era davvero ucciso la notte del 2 maggio 1945 a Berlino. Ma sulla morte di Mengele Wiesenthal ha molti dubbi: tre anni dopo quella presunta morte c'è stato uno strano incontro dei parenti con un ex camerata del medico nazista, il dottor Hans Muench. Perché? Perché, dissero i protagonisti dell'incontro, volevano discutere di quale reato sarebbe stato accusato Mengele se si fosse costituito. È plausibile? Ci sono più indizi di un Mengele vivo che di uno morto. Comunque, il lavoro che lo aspetta è enorme; e lui non intende tirarsi indietro, perché quel lavoro vuol essere un ammonimento agli assassini del futuro; chi prende parte a un genocidio deve sapere che non vivrà in pace. Altrimenti milioni di esseri umani saranno morti per nulla.
Adesso Wiesenthal aspetta l'estradizione dall'Italia in Germania di Anton Burger, un ex aiutante di Eichmann responsabile di massacri in Grecia e in Cecoslovacchia. Wiesenthal lo ha già fatto arrestare due volte, e due volte Burger è riuscito a fuggire. Chi invece difficilmente sarà consegnato alla giustizia è Alois Brunner, il vero braccio destro di Eichmann, che oggi vive a Damasco sotto la protezione dei servizi segreti siriani. Pochi mesi fa, ha dichiarato a un giornale austriaco: Sono fiero di quello che ho fatto.

grazie a: Repubblica, marzo 1989