inizio rosso e giallo


Donato Carrisi

Per chi da tempo ama i gialli, sovente vi è una giustificata diffidenza verso gli autori italiani: troppe volte imitatori più o meno capaci degli scrittori stranieri, soprattutto di lingua inglese.
Ovviamente vi sono importanti eccezioni, da De Angelis a Scerbanenco, da Camilleri a Felisatti - Pittorru, da Olivieri a Carofiglio, da Lucarelli a Faletti, ecc., ma non vi è dubbio che il "genere" è stato per decenni, e fin dall'inizio, patrimonio di nordamericani, inglesi e francesi. E analogamente per quanto riguarda il cinema.
Il fatto è che la cultura italiana ha sempre avuto un che di snob, di refrattario rispetto alla cultura "popolare": la divulgazione storica, filosofica, scientifica, è stata pervicacemente evitata dai Signori Grandi Firme, quasi che semplicità e immediatezza fossero difetti un po' ignobili, bassezze impresentabili. E la storia del bel paese è stata scritta esclusivamente per i lettori già colti, e chi aveva solo la terza media, o neanche quella, si attaccasse al tram. Tant'è che il primo serio (ancorchè discutibilissimo sul piano politico) divulgatore fu il famigerato Indro Montanelli, nel 1959, con la sua godibile Storia di Roma narrata ai ragazzi dai nove ai novant'anni, e negli anni successivi con numerosi volumi dedicati ai vari periodi, dall'età comunale fino agli anni '60.

Così può capitare che all'improvviso nasca un ottimo giallista e venga più o meno ignorato dagli appassionati, anche perché vincere un premio famoso o venire venduto assai, addirittura anche all'estero, non è detto che sia un buon viatico.
Mea culpa, dunque, perché Carrisi - anche giornalista, autore teatrale, sceneggiatore - è davvero in gamba: trame costruite con perizia e intelligenza, riflessioni esistenziali rapide e acute, trucchi molto abili, colpi di scena quasi sempre spiazzanti, personaggi solidi e disegnati non senza raffinatezze. E in tempi di serial killer letterari sempre più fantasiosi e improbabili, Carrisi riesce a delineare questa figura con caratteri e pulsioni decisamente originali, e credibili.
Certo, talvolta le divagazioni "filosofiche" sono prolisse, talune descrizioni sono palesemente studiate per essere originali, non mancano volgari scivoloni stilistici (è imperdonabile usare frasi da proloco come "gustare piatti tipici locali"), ma l'insieme merita attenzione e rispetto.
Insomma, bravo.




 



  • Il suggeritore, Longanesi, 2009
  • Il tribunale delle anime, Longanesi, 2011
  • La donna dei fiori di carta, Longanesi, 2012
  • L'ipotesi del male, Longanesi, 2013
  • Il cacciatore del buio, Longanesi, 2014
  • La ragazza nella nebbia, Longanesi, 2015
  • Il maestro delle ombre, Longanesi, 2016
  • L'uomo del labirinto, Longanesi, 2017
  • Il gioco del suggeritore, Longanesi, 2018
  • La casa delle voci, Longanesi, 2019
  • Io sono l'abisso, Longanesi, 2020
  • La casa senza ricordi, Longanesi, 2021
  • La casa delle luci, Longanesi, 2022
  • Eva e la sedia vuota, Longanesi, 2022

Il primo film tratto dai suoi romanzi, e da lui stesso diretto, è La ragazza nella nebbia, 2017. Seguono, sempre con la regia di Carrisi, nel 2019 L'uomo del labirinto, e nel 2022 Io sono l'abisso.


Intervista a Donato Carrisi



Bambini rapiti. Serial killer boccheggianti. Braccia mozzate. Suore massacrate. Donato Carrisi, 42 anni, sforna un piccolo inferno dopo l’altro. È diventato celebre con il thriller pluritradotto Il suggeritore. Da allora non si è più fermato. Lo provoco:
I più maliziosi sostengono che Mila, la protagonista del tuo primo romanzo assomigli troppo a Lisbeth Salander, il personaggio leggendario di Stieg Larsson. Replica sorridendo:

Già. Mila però è nata nel 1999 molto prima che uscisse Uomini che odiano le donne di Larsson.

Carrisi è un pugliese itinerante: Parigi, Milano, Roma, Martina Franca. L’intervista si svolge via Skype.

Non sono uno scrittore. Sono un narratore.

E con questo lascia intendere che le sue produzioni non si manifestano solo su carta. Nasce sceneggiatore della tivvù e scrive sempre immaginando la resa cinematografica e/o televisiva delle sue opere. Quando gli chiedo se ogni tanto prende spunto da altri autori, prima cita il giallista Jeffrey Deaver, poi elenca le sue fiction culto (Lost e True detective) e infine conclude:

Lo scambio è continuo. La serie tv The Following sembra proprio ispirata al mio Il suggeritore.

Ora Carrisi sta lavorando a una fiction originale per Sky («Il titolo è
Sos, ma non posso dire altro»), è executive producer di una serie ispirata ai romanzi Il tribunale delle anime e Il cacciatore del buio ed è nelle librerie con La ragazza della nebbia (Longanesi) da cui trarrà un film di cui sarà regista.
La ragazza della nebbia: omicidi e star del tubo catodico. Una storia che stronca il mondo televisivo che si occupa di cronaca nera.

Lo stronca o cerca di salvarlo. Io ho fatto parte di quel circo, venivo utilizzato da Alessio Vinci a Matrix come cronista/criminologo, ruolo che inizialmente mi diede Ferruccio de Bortoli al Corriere. Ora in linea di massima evito di andare in certe trasmissioni.

Perché?

Perché non c’è più alcun pudore: ho visto cose…

Racconta. Racconta.

Ho visto padri di ragazzi trucidati preoccuparsi per l’inquadratura della propria consorte sudamericana. E la madre di una piccola vittima portare in gita a Roma parenti e congiunti ridanciani, pronti a far le facce afflitte appena si accendevano i riflettori.

Tutto qui?

Ricordi il delitto di Avetrana? Fabrizio Corona si infilò in casa della famiglia di Sarah Scazzi passando dalla finestra pur di ottenere un’esclusiva. Si dice che il padre e il fratello di Sarah siano stati sorpresi mentre contattavano Lele Mora per averlo come agente. È abbastanza?

Sono episodi riconducibili a qualche anno fa. C’è stata un episodio recente che ti ha spinto a scrivere del rapporto perverso tra la tv e il crimine?


Sì. Quando ho sentito quanto prendeva il comandante Francesco Schettino per andare in tivvù.

Troppo?

No comment. Il guaio è che decide il pubblico e la crescita di morbosità è travolgente.

Quando è cominciato questo circo?

Con la vicenda di Alfredino .Giugno 1981, Alfredino Rampi cadde in un pozzo artesiano, per diversi giorni si cercò di recuperarlo.
La prima diretta televisiva. Il primo drammatico reality. Con tanto di Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che si presenta sul luogo dell’incidente. Le mamme mandavano i figli per calarsi nel pozzo e salvare il piccolo. Ecco, da Alfredino a Barbara D’Urso il passo è stato breve.

Non esagerare.

Le tv si sono accorte che con un solo fatto di cronaca potevano riempire interi palinsesti. Ora ci sono i listini dei prezzi per pagare i parenti delle vittime. C’è il tariffario dei mostri. Alcuni assassini sono diventati ricchi. Ci sono criminologi che sparano certe cazzate… Andrebbero radiati. Roba circense, davvero.

È in corso il processo per l’uccisione di Yara Gambirasio: poche certezze sull’assassino e molti talk che ne parlano. Ti sei fatto un’idea?

Non mi piace che la prova che incastra l’accusato Massimo Bossetti sia irripetibile. E la Procura non può permettersi un colpevole alternativo. Hanno già speso troppo per costruire l’impianto che incastra il presunto colpevole Bossetti. Allo stesso tempo non penso che possa essere stata una donna.

Hai conosciuto molti killer?

La mia tesi di laurea era su Luigi Chiatti…

Il mostro di Foligno.

L’ho incontrato in carcere. Narcisismo criminale: ha capito di essere un mostro solo quando lo ha sentito dire in tv al Tg5.

Quando hai cominciato a raccontare storie?

Ho sempre avuto una propensione alle esibizioni: da bambino imitavo Enrico Beruschi del Drive In. La suora dell’oratorio ogni volta che mi sentiva parlare di aneddoti macabri diceva che avevo l’angelo custode cattivo.

Intendevo: quando hai cominciato a scriverle?

Nel ’99 inviai un soggetto a Simone De Rita, il responsabile delle fiction Mediaset. Erano le prime cinque pagine del Suggeritore. Mi disse che non lo avrebbe prodotto e mi consigliò di spedirlo ad alcune case di produzione. Entrai in contatto con Achille Manzotti che in quel momento stava lavorando a un sequel della serie tv Un prete tra noi con Massimo Dapporto. Volevano ambientarlo in una casa famiglia e avendo fatto io il servizio civile proprio in una struttura di quel tipo… Mi fecero capoprogetto. Avevo solo 26 anni. Così ho cominciato a fare lo sceneggiatore. Qualche anno dopo è stato lo stesso Manzotti a dirmi, prima di morire, che avrei dovuto scrivere un romanzo.

Scrivi tanto. Hai dei riti legati alla scrittura?

Scrivo solo dopo molti mesi di preparazione e all’ultimo momento possibile. Prendo appunti ovunque, su post it, su scontrini accartocciati… Poi a casa appendo tutti gli appunti su una parete. Spesso in cucina. Così mentre spadello ripasso.

Che rapporto hai con la critica?


Le critiche aiutano sempre, ma non amo quelli che scrivono “fa cagare”. Scrivo libri di 500 pagine, mi piacerebbe essere stroncato con almeno cinque righe. Quando ero sconosciuto e mi rigiravo nel letto perché mi sentivo uno scrittore incompreso avrei pagato oro per ricevere le mazzate che poi ho ricevuto dai critici.

Anche Giorgio Faletti ai suoi esordi è stato stroncato da alcuni critici.


E Faletti è lo scrittore che ha creato un pubblico italiano del thriller. Se non ci fosse stato Faletti io non esisterei come scrittore.

A cena col nemico?

Con una donna serial killer. Sarei più interessato al dopocena… Chissà come fa l’amore una assassina seriale?

Hai un clan di amici?

Tra quelli storici c’è Vito Lo Re che ha composto tutte le colonne sonore dei miei lavori.

Qual è l’errore più grande che hai fatto?

Probabilmente scrivere una sceneggiatura su Don Gelmini. Una marchetta colossale.

Che cosa guardi in tv?

Sono cresciuto nell’epoca di Maradona. Tifo Napoli. Guardo il calcio, i film, le serie…

La serie italiana preferita?

Sono impazzito per Gomorra.

Gomorra e Romanzo criminale sono serie accusate di raccontare il male in maniera troppo accattivante.

Perché Vespa e la D’Urso possono trattare con leggerezza i criminali e le fiction, no?

Il film preferito?

Una terna: Ritorno al futuro, che ha una struttura narrativa perfetta, Il silenzio degli innocenti e Seven.

La canzone?

Sympathy for the Devil dei Rolling Stones.

Il libro?

Il primo thriller della narrativa italiana: Il nome della rosa di Umberto Eco. Stanno realizzando una serie tv ispirata alle avventure del protagonista Guglielmo da Baskerville. Se non ci fosse stato Il nome della rosa, non credo che Dan Brown avrebbe scritto Il codice da Vinci.

Hai detto: «Il codice da Vinci è il thriller perfetto». Molti critici lo hanno catalogato come “fumettone commerciale”.

Considero commerciale decisamente un complimento.

I confini della Siria?

Giordania, Iraq, Libano...

Conosci l’articolo 11 della Costituzione?

No. In Diritto Costituzionale presi uno striminzito 26.

Dice che l’Italia ripudia la guerra.

È falso. Scrivendo la sceneggiatura del film su Nassiriya ho potuto constatare quanto sia fuorviante il termine “missione di pace”.

Sai quanto costa un pacco di pannolini?


Circa nove euro. Mio figlio Antonio ha nove mesi.

In Il suggeritore i bambini vengono rapiti mentre sono sulle giostre.

E per colpa mia molti genitori oggi rincorrono le giostre per non perdere mai di vista i loro figli.

Se venissi a sapere che un serial killer si ispira ai tuoi romanzi…

Sarebbe un’ottima pubblicità. Ma non credo che i criminali prendano spunto dai thriller.

(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera l’11 dicembre 2015)