inizio rosso e giallo


Bret Easton Ellis

 

Nato a Los Angeles nel 1964, esordisce nella narrativa con Meno di zero, nel 1985, ma ottiene una fama mondiale nel 1991 con la pubblicazione del violentissimo American Psycho: e la trasposizione cinematografica ha in qualche modo rafforzato l'idea di un Ellis compiaciuto per la propria capacità di rappresentare la violenza estrema. Che tuttavia è solo un aspetto di un vuoto mentale che pare avvolgere le coscienze, a partire da giovani (adolescenti e adulti) preoccupati unicamente di come sembrano.
Un Ellis, insomma, narratore lucido e sfibrante di un'America che pare uscita da un libro di Ellis, e che invece è desolatamente reale.


  • Meno di zero (Less Than Zero, 1985) Pironti, 1986; Einaudi, 1996, 2017
  • Le regole dell'attrazione (The Rules of Attraction, 1987) Pironti, 1988; Einaudi, 1997, 2016
  • American Psycho (1991) Bompiani, 1991, 2001; Einaudi, 2001, 2014
  • Acqua dal sole (The Informers, 1994) Bompiani, 1994; Einaudi, 2006 - racconti
  • Glamorama (1998) Einaudi, 1999, 2007
  • Lunar Park (2005) Einaudi, 2005
  • Imperial Bedrooms (2010) Einaudi, 2010

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    Film da Ellis:

  • Al di là di tutti i limiti (Less Than Zero) di Marek Kanievska, con Andrew McCarthy, Jami Gertz, Robert Downey Jr., James Spader (USA, 1987)
  • American Psycho, di Mary Harron, con Christian Bale, Chloë Sevigny, Reese Witherspoon, Willem Dafoe (USA, 2000)
  • Le regole dell'attrazione (The Rules of Attraction) di Roger Avary, con James Van Der Beek, Shannyn Sossamon, Jessica Biel (USA, 2002)
  • The Informers - Vite oltre il limite (The Informers) di Gregor Jordan, con Billy Bob Thornton, Winona Ryder (USA, 2008)
  • The Canyons, di Paul Schrader (USA, 2013)


 

Giuseppe Genna

Lunar Park



Mentre Stephen King, con Colorado Kid (ne riparleremo…), passa a stravolgere il genere hard boiled, puntando alla gola del lettore l’arma bianca dell’unica poetica che perforerà questo nostro tempo narrativo, Bret Easton Ellis fornisce la testimonianza decisiva che l’universo King è la narrativa totale di questi decenni. Questa poetica che avrà rappresentato il nostro tempo è una mitopoiesi. Essendo la mitopoiesi un’organizzazione in forma di epos di nuclei tragici, noi disponiamo di un parametro certo per comprendere quando un libro appartiene o meno a questo cerchio magico. Lunar Park di Bret Easton Ellis vi appartiene.

Bret Easton Ellis è disperato. È disperato da decenni e la sua disperazione viene declinata in forma di un disgusto che si percepisce come cinismo, come mimesi disincantata di un occidente che stravolge se stesso e marcia trionfale verso la sua fine. L’accoglienza che hanno avuto Less than zeroAmerican Psycho Glamorama costituisce un filtraggio che non ha permesso, secondo uno sguardo critico all’altezza della mitopoiesi di cui quest’autore era ed è formidabile cantore, di osservare fino a che punto covasse tragedia sotto la sua scrittura, ovvero sotto il suo “io”. L’affermazione proditoria - volontariamente proditoria - che Patrick Bateman, il serial killer di American Psycho, era una messa in scena della sagoma potente e magnetica di suo padre, ha permesso un’esternalizzazione del fenomeno Ellis almeno pari allo tsunami di glam da cui è stato investito. Questo ragazzo triturato dal sistema di un divismo editoriale che mima goffamente le modalità dello showbiz più stellare, non ha soltanto prodotto dei danni in personaggi come Ellis, ma ha esercitato un effetto salutare: quello di due unghie che fanno fuoriuscire il pus dal foruncolo. Perché Ellis è strapieno di pus psichico e American Psycho non era semplicemente un’analisi sociologica in forma narrativa o una profezia a brevissimo termine sulla decadenza dell’Impero: era il grido disperato di aiuto che veniva lanciato da un uomo che si stava stravolgendo nonostante il suo talento, nonostante la percezione della profondità di quanto fosse tragica la vita di tutti, la sua vita, la vita in sé.
Al culmine della disperazione, Bret Easton Ellis allestisce una strategia che soltanto cinque anni fa sarebbe risultata impensabile per un autore del suo calibro: copia Stephen King. O, almeno, così pare, leggendo Lunar Park. La verità è che Ellis elabora una sorta di risposta devastante al complesso di Edipo, lui che si ritrova Laio già bell’e che morto, senza possibilità di scopare a sua insaputa niente di materno, bensì solo modelline seriali durante le orgiastiche nottate del Bret Pack insieme all’amico di sempre, Jay McInerney. Ellis formula una strategia del piacere e dell’incanto, e sceglie Stephen King perché è King l’uomo che sta raccontando la tragedia con la grammatica dell’incanto, uno spettro tonale assoluto, che va da quell’irrefrenabile magia per cui non si può fare a meno di andare avanti nella lettura dei suoi romanzi fino all’horror più scontato e al lirismo più inedito.
Ellis è un grande scrittore e, se elabora una strategia di questo tipo, la elabora in grande stile. E dunque, ammesso che si ispiri a King, decide di copiare tutto King.  A partire dal King più pazzesco e stravolgente, quello delle pagine autobiografiche di On writing. Le prime quaranta pagine di Lunar Park sono esattamente questo sconvolgente realismo della deriva umana di un soggetto patologico che immagina e pensa e scrive, nel momento (un lungo momento storico) in cui si fa trascinare lontano dalla scrittura e cade nella trappola del Lete che separerebbe l’esistenza dalla letteratura. Sono pagine impressionanti, di un lirismo equipollente al naturalismo, laddove il naturalismo di Ellis (come quello di King in On writing) non ha nulla a che vedere con la rappresentazione speculare del mondo (interno ed esterno), bensì con la costruzione di una narrazione di sé nel mondo sotto specie di cosmogonia. Siamo nel nucleo a fusione fredda, in cui “io” ed epos si contorcono in un abbraccio laocoonteo. Il racconto delle notti folli, della china stupefacente presa da un soggetto capitato in un occidente che sembra marzianità pura, della struttura di business editoriale, del marketing e dei tour in stato catatonico, delle psicosomatosi devastanti usate come scusa per l’assenza alle presentazioni, fino al momento dell’agnizione (che in OW in King è rappresentato dalla foratura del timpano auricolare per fare uscire pus), la morte del padre così odiato, così negazionisticamente amato - la tragedia innesca una normalizzazione, Ellis esplode, non ce la fa più.
Inizia una vita normale. Inizia la fiction.
Lunar Park è due romanzi e il secondo, che sembra ancora autobiografico ed è invece allegoria, comincia a pagina 36. Il primo romanzo, un’accelerazione irresistibile, termina con una frase sibillina: “E ora è arrivato il momento di tornare nel passato”. Ellis si appresta così, evidentemente, a narrare una bolla temporale, che non è il presente in cui ha narrato un passato che viene prima del passato che sta per raccontare. È già nel futuro. Destruttura il racconto senza farlo percepire, adottando un uso laico dello stratagemma ucronico.
Troviamo infatti Bret Easton Ellis ripulito e - incredibile - sposato. L’attrice Jayne Dennis, dalla quale aveva avuto un figlio non riconosciuto nel periodo della starship tremenda narrato nella prima parte (“Gli Inizi”), lo ha preso per mano, lo ha portato via dalla città cattiva e tentatrice. Ora Bret vive in provincia, una villa che condivide con Jayne, con il figlio Robby, e con la seconda figlia di Jayne, la piccola Sarah, il cui padre è totalmente assente. È la buona provincia americana. La narrazione di Ellis fa sporadici riferimenti ad attacchi terroristici sul suolo americano che non coincidono perfettamente con l’11/9. La storia che il nuovo Bret sta per vivere è quella dell’ultimo uomo medio: un uomo medio miliardario sposato a un’attrice miliardaria. Questa discrasia, nemmeno sussurata, è indicativa dello stato di irrealtà psicotica in cui Bret scivola per la seconda volta, ma al tempo stesso non fa perdere un grammo del peso politico di un libro che mette il disfacimento di un Impero con le spalle al muro.
Non diremo una parola di più sulla trama, se non esprimendo suggestioni: accadono sparizioni di bambini, fenomeni paranormali. Accade che vada a puttane tutto. Va tutto a puttane come potrebbe andare a puttane non in King, ma in Ellis.
Il secondo romanzo, che costruisce questa dilogia compressa che è Lunar Park, esercita sul lettore la medesima magia di cui King è magistrale evocatore. Ellis gioca di atmosfera, di sarcasmo, di sociologia. I bambini sovradeterminati dall’assunzione psicofarmacologica, il sesso venuto male, l’ipocrisia della neoborghesia che, ormai, per essere tale, deve disporre di capitali elevatissimi - tutto ciò è secondario rispetto al flusso incantatorio che la scrittura di Ellis emana di pagina in pagina.
C’è però un elemento della trama che va rilevato. Nello stato di psicosi autentica e storica che la famiglia di Ellis si trova a vivere, è la letteratura di Bret Easton Ellis a ribaltarsi in forza demonica, sono i suoi libri a spalancare le porte di un inferno che era il passato, è il presente e forse sarà il futuro - a meno di redenzioni. L’odio che Ellis proclama (senza esclamarlo mai puntualmente) per la “voce della finzione”, per il “romanzo finto”, è l’agente del male che colpisce, stravolge e distrugge una seconda volta l’uomo e lo scrittore Ellis, che progressivamente vanno distanziandosi reciprocamente (lo scrittore suggerisce soluzioni in corsivo, tra parentesi, all’uomo Ellis), mentre il gorgo accelera la velocità centrifuga delle sue acque oscure e Bret Easton Ellis finisce per trovarsi nell’occhio immoto: luogo solitario, abbandonato dal padre, dove finalmente quel padre si può piangerlo, tentare la redenzione postuma di un affetto mai espresso o, più precisamente, mai detto o linguificato in scrittura, per quanto sinceramente Ellis ci avesse provato con i libri precedenti.
Forse Lunar Park è la fine di uno scrittore per come l’abbiamo conosciuto. Forse Bret Easton Ellis non sarà sommerso, con questa pubblicazione, dal successo planetario e dal glam stellare a cui lo avevano abituato tempi marci, marci non soltanto per lui. Certo lo scrittore di Lunar Park è un’acquisizione importante delle lettere non patrie, ma internazionale. È, a fianco di King, uno dei soldati nell’assalto all’arma bianca della mitopoiesi, per la conquista della rappresentazione in forma di leggenda del nostro tempo tutto.

23.11.2005


grazie a: carmillaonline




Nathalie Olah

Bret Easton Ellis dice che siamo una generazione di inetti

Bret Easton Ellis deve solo aprire bocca perché tutti i piagnoni del mondo striscino fuori e inizino a rimproverarlo dandogli del vizioso opportunista senza scrupoli. Negli anni Ottanta e Novanta, uno avrebbe potuto empatizzare con le persone offese dai suoi libri perché estranee alle vite di speculatori finanziari o personaggi del mondo della moda. Se ne avessero avuto una qualche esperienza, avrebbero capito che American Psycho e Glamorama sono in realtà un’opera giornalistica - vestita Valentino e macchiata di sangue, sì, ma nient'altro che pura e semplice documentazione di un determinato periodo storico. "I miei libri formano una sorta di autobiografia," spiega Bret Easton Ellis. "Quando li guardo penso, 'Ecco com'ero nel '91. Ecco com'ero nel 1988.'"

Ora si è dato al cinema, scrive sceneggiature per la TV e cura il suo podcast settimanale. Che, tra le varie cose, ha avuto come ospiti Kanye West e Marilyn Manson. Ma ancora oggi, ogni volta che lancia qualche critica su Twitter, deve affrontare grida di protesta e accuse di chi lo ritiene uno "stronzo."

La settimana scorsa, quando l’ho chiamato, dal suo appartamento di Los Angeles Bret mi ha raccontato con trasporto della sua frustrazione per quella che chiama “Generazione di inetti” - voi, io, e di base chiunque altro sia giovane, ipersensibile e cresciuto con Internet. Sono rimasta stupita dal grado di interesse che prova per le vite di persone cresciute leggendo i suoi libri, per le tecnologie che usano e per il modo in cui si rapportano alla cultura. Il suo fastidio sembrava derivare da una sincera preoccupazione, più che dalla misantropia.

VICE: Perché hai coniato il termine “Generazione di Inetti”?
Bret Easton Ellis: Devi capire che parlo di queste cose dal pulpito della generazione più pessimista e ironica mai esistita sulla terra. Quando sento i millennial che si dicono feriti dal cyberbullismo mi riesce davvero difficile capirli. Non posso dire lo stesso del mio ragazzo, che è un millennial, ma persino lui concorda con la sensibilità della "Generazione Inetti." Per loro è molto difficile accettare delle critiche, e per questo gran parte dei contenuti che producono è penosa. E quando qualcuno viene criticato è il delirio totale, e la persona che critica viene chiamata hater o troll.
In un certo senso è anche colpa della generazione che li ha cresciuti nella bambagia, mi spiego? Ma tutti in un modo o nell’altro devono imbattersi con il lato oscuro della vita; a qualcuno non piaci, a qualcuno non piace il tuo lavoro, qualcuno non ti ama... le persone muoiono. Quella di oggi è una generazione molto sicura di sé e super positiva, ma che quando le cose si mettono un po’ male si paralizza.

L’altro giorno mi sono resa conto che ho più o meno la stessa età di Patrick Bateman. La sua esistenza da 27enne a New York era alquanto ordinaria nel periodo in cui tu scrivesti American Psycho, ma non potrebbe essere più lontana dalla mia realtà.
Non è per citare continuamente il caso del 27enne [il ragazzo di Bret], ma lui concorderebbe con te. American Psycho parla di un mondo completamente alieno al suo.

Eppure penso fosse il mondo che ci avevano promesso.
C’è stato un momento in cui ci siamo resi conto che le promesse erano bugie e che saremmo finiti alla deriva economica. È stata colpa dei baby boomer che hanno cresciuto i loro figli all'apice dell’impero, in un mondo di fantasie. La mia generazione, la Generazione X, aveva capito che, come tutte le fantasie, anche quella era in qualche modo deludente, e ci siamo ribellati con ironia, negatività e un certo distacco, perché avevamo il lusso di potercelo permettere. La nostra non era una realtà di difficoltà economiche.

Giusto. Praticamente è la trama di The Wolf of Wall Street. È per questo che ti è piaciuto così tanto?
Non mi sono mai piaciuti i film per i loro soggetti. Mi è piaciuto perché non si preoccupava di una cosa di cui tutti i film si preoccupano al giorno d’oggi, ovvero la decenza: persone rispettabili sotto stress o in difficoltà.
Per me è la classica storia di un giovane uomo, come Barry Lyndon. Nove volte su dieci mandano tutto all’aria, si incasinano la vita, spendono tutto, si lasciano completamente andare, non si controllano, non pensano al futuro e poi... vanno a sbattere. E poi penso fosse davvero un film esilarante, Leonardo ci ha regalato un'interpretazione fenomenale. E il fatto che non vincerà un Academy Award è veramente un peccato.

Guardando Leonardo nel film, ti sarebbe piaciuto se avesse interpretato lui il ruolo di Patrick Bateman?
Non sono stato molto partecipe nella preparazione del film. Tutto quello che so è che dopo Christian Bale la parte è stata offerta anche a Leo. Sarebbe stato l’inizio della fine di qualcosa che lo imbarazzava abbastanza, ovvero essere noto al pubblico solo come Jack di Titanic. Non so esattamente cosa sia successo. Non so nemmeno a che punto fosse Christian nella preparazione di American Psycho, quindi se avessi sostenuto Leo forse sarei stato un insensibile. Ma sì - in risposta alla tua domanda, mi sarebbe piaciuto vederlo in quel ruolo. Ma è stato meglio così ai tempi, avere un attore relativamente sconosciuto distraeva meno.

Hai detto che Terrence Malick è stato una grande ispirazione.
Uno dei momenti principali della mia gioventù da spettatore è stato guardare I giorni del cielo e capire che quel film era una forma d’arte. Sono andato avanti ripensando a quell’epifania, crescendo a Los Angeles consapevole di cosa fosse l’industria del cinema. Ma era nel 1978, ecco quando è successo. Ed ecco perché sono così legato a quel film e lo riguardo ogni due anni. Mi porta indietro nel tempo.

È un tipo di stile che vuoi ricreare nei tuoi film?
Questo non lo so. Parte del problema che ho avuto con The Canyons è che l’avrei girato più in fretta. Non ho la mentalità asiatica di Paul Schrader, immersa in [Yasujiro] Ozu e nei grandi registi giapponesi degli anni Cinquanta e Sessanta. Quello è il suo modo e il suo ritmo di girare un film.

Sembra abbiate avuto una visione molto differente nei confronti del film.
Sembra più grande di quello che era in realtà. Abbiamo girato The Canyons in stile guerilla. Non lo stavamo facendo per soldi e volevamo metterlo su iTunes. Non pensavamo sarebbe diventato un evento culturale così seguito negli Stati Uniti.

Di sicuro sapevate che mettere nel cast Lindsay Lohan avrebbe avuto quell’effetto.
No, ma era un film da 150.000 dollari. Non stavamo cercando di girare un nuovo Il Padrino. Ho scritto il copione - penso fosse uno degli unici due copioni della carriera di Schrader che lui non ha toccato, l’altro era il copione di Harold Pinter per Cortesie per gli ospiti, un film che ha influenzato The Canyons - e Schrader voleva che lo girassimo a modo suo. E ho pensato, "Dai, sarà più veloce una volta editato." Ed è stato così, ma fino a un certo punto.
Cioè, al 20 percento delle persone che conosco è piaciuto il film; all’80 percento non è piaciuto. Ma il suo essere così indefinito, il suo aspetto così freddo e sordido... come posso dire? Mi trasmette qualcosa.

Il ritratto sinistro di Los Angeles che dipingi in Meno di zero - con i coyote che ululano e i cadaveri gettati tra la spazzatura nei vicoli - è una rappresentazione realistica della città? O il tuo punto di vista è cambiato ora che sei cresciuto?
Penso sia un po' entrambe le cose. Penso che la mia infanzia nel sud della California sia stata davvero idilliaca. Sì, c'era di mezzo il matrimonio dei miei allo sfascio e ho sofferto un po' di depressione, ma c'era la spiaggia, c'erano i centri commerciali e un sacco di miei amici giravano in decappottabile.
Ero molto popolare da ragazzo. Avevo un sacco di amici, davo feste, avevo una... ragazza. Ma il fatto che scrivessi tutto il tempo mi ha un po' allontanato dalla gente, e per questo motivo tendo a guardare il mondo con un occhio un po' più ostile.

È vero che stai scrivendo una serie TV sugli omicidi di Charles Manson?
Sì, anche se non direi che parla esattamente di quello. Parla di Los Angeles nei due anni che precedono e seguono gli omicidi di Charles Manson. La serie inizia circa un anno prima degli omicidi. Ho appena cominciato a lavorarci, è ancora nelle fasi iniziali.

E stai anche scrivendo un nuovo libro?
Sì, ma vorrei che alla gente non importasse così tanto. Ho avuto un piccolo esaurimento nervoso a gennaio del 2013. Nel 2012 ho scritto più di quanto abbia mai fatto nella mia vita: una serie di film, due dei quali sono stati realizzati, e un'infinità di episodi pilota per la televisione. Arrivato a gennaio ero esausto. Mi sono reso conto che avevo bisogno di scrivere prosa, così ho iniziato a lavorare a questo libro. Ogni tanto mi ricapita e ci lavoro finché non vengo distratto da qualcos'altro. È sulla mia scrivania, di fianco a una sceneggiatura che sto scrivendo.

E perché hai iniziato a fare il podcast?
Avevo pubblicato un articolo bello lungo, 4.000 parole, su Out Magazine. Ha avuto un sacco di attenzione qui negli Stati Uniti e, leggendo degli articoli di risposta, ho capito che la gente aveva smesso di leggere a metà del pezzo.

È Internet.
Be', c'è questo mito secondo cui Internet sarebbe perfetto per gli articoli molto lunghi, tanto che puoi pubblicare anche articoli da 11.000 battute. Ma sì, questo non significa per forza che la gente leggerà tutto. Così ho pensato, se avessi un podcast potrei sfruttarlo per esprimere le mie opinioni. Non avevo pensato a una sorta di talk show radiofonico all'inizio, ma è stato molto interessante. Non capisco quest'idea secondo cui lo scrittore debba stare rinchiuso nella sua torre d'avorio. Ho visto persone indignarsi per il fatto che io sia su Twitter e abbia opinioni sulla cultura pop. Mi piace. Sconvolge l'idea che la gente ha di me.

Questo è anche uno dei problemi che hai avuto con David Foster Wallace.
Penso che David Foster Wallace sia una truffa. Sono davvero sconvolto del fatto che la gente lo prenda sul serio. Ovviamente dicono la stessa cosa di me, e sono stato criticato per aver detto queste cose su Wallace a causa della narrativa che gli è stata costruita intorno da quando si è ucciso.
Ma tutto questo si lega al discorso sulla Generazione di Inetti e sulla sua influenza piagnucolosa sui social network; se hai un'opinione scomoda su qualcosa, sei uno stronzo. A me questa cosa causa problemi. Limita il dibattuto. Se ti piace tutto, di cosa parliamo? Di quanto tutto sia bello? Di quanto spesso ho cliccato “like” su Facebook?

Non sono stati quelli di BuzzFeed a dire che non pubblicheranno più recensioni negative? Ma ragazzi, davvero? Cosa succederà alla cultura allora? Cosa succederà alla discussione? Te lo dico io, moriranno.

Già. Ma suppongo che oggi invece che i soldi la vera valuta sia la popolarità, e il maggior guadagno risiede nel fatto che migliaia di persone ti mettano “mi piace” su Facebook. In questo clima, come fai a creare qualcosa di vivo?
Sono d'accordo con te, e mi preoccupa molto il fatto che l'unico modo per farsi un nome sia attraverso il tuo branding, il tuo profilo e la tua presenza sui social network. Penso di essere troppo vecchio per poter usare bene Instagram o Tumblr a mio vantaggio. Non uso nemmeno Twitter nel modo giusto. Ma vivendo con qualcuno che ha 27 anni penso che tu abbia descritto la situazione nel modo perfetto: la presenza online è la nuova valuta.

Anche se il mio ragazzo e i suoi amici possono essere davvero meschini e pungenti, in generale vogliono apparire gentili e piacevoli.

In ogni caso, io non direi che i tuoi lavori degli anni Ottanta e Novanta siano amorali. American Psycho aveva una sorta di messaggio. Forse non era esplicitato ma c'era.
Devi essere in grado di coglierlo, però. Sono stato insultato per American Psycho, c'era gente che diceva che era scritto apposta per offendere altra gente. Se fosse stato vero non ci avrei lavorato per tre o quattro anni, e avrei semplicemente riempito ogni pagina di descrizioni orrorifiche. Stavo scrivendo della mia vita. Stavo scrivendo di come fosse essere Patrick Bateman - essere giovane e vivere a New York in quel periodo - e di come fosse perdersi nella cultura yuppie, che in realtà non è altro che la cultura consumista. Di come fosse sentire l'obbligo di avere qualsiasi cosa, e odiare me stesso per non avercela, e odiare la società e non voler crescere. Questo è ciò di cui parla American Psycho. È un romanzo molto personale.
Inoltre, come molti uomini, avevo delle fantasie piuttosto oscene, e se un uomo vuole davvero ammettere questa cosa viene senza dubbio attaccato.

Quando la gente ti accusa di misoginia io penso sempre, "Già, perché gli uomini ne escono sempre così bene da questi libri."
Be', guarda. [Ride] Questo è proprio il genere di cosa che direbbe un misogino, ma io non mi sono mai sentito misogino. Comunque è stato interessante guardare indietro a quando mi hanno accusato di esserlo e cercare di capire perché. Ad esempio, non penso che American Psycho sia un testo misogino; penso che la misoginia faccia parte dell'ambiente che mostra. Ma, come ho detto nella puntata del podcast su The Wolf of Wall Street, mostrare qualcosa non vuol dire approvarla.

Sono stato criticato per aver parlato di Kathryn Bigelow su Twitter [Ellis ha detto che The Hurt Locker ha vinto degli Oscar solo perché la regista è “una bella donna”]. Innanzitutto, io pensavo fosse un commento su una questione estetica, su Hollywood e sul sessismo al contrario, ma è uscito fuori in un modo che ha irritato persone molto sensibili su queste cose. L'ho capito quando ho detto che anche Alice Munro era sopravvalutata, senza che la gente si rendesse conto che ho criticato un sacco di autori che non mi piacciono e ho lodato un sacco di scrittrici che amo. Ad esempio la mia amica Donna Tartt - il suo nuovo romanzo, The Goldfinch, è davvero bello e ho un timore quasi reverenziale per chi riesce a scrivere cose del genere.

E non è un segreto che ti piaccia molto Joan Didion.
Be', ogni tanto arriva qualcuno che cambia il modo in cui vedi il mondo. Prima di Didion, mi era capitato con Hemingway - è stato quando avevo 12 o 13 anni. Didion è arrivata dopo, quando ero al liceo, ed è stato più intimo perché scriveva della California del sud e nominava strade che avevo attraversato. Descriveva le donne e la loro sensibilità in un modo che collimava con quello che vedevo nelle amiche di mia madre. Ho riscritto Meno di zero un paio di volte prima di pubblicarlo, e Joan Didion ha avuto un grande ruolo nel processo che gli ha dato forma.

Non pensi che il femminismo stia scivolando lentamente nella cultura della colpa?
Anni fa trovavo Jezebel.com particolarmente cattivo e preoccupante. Voglio dire, non che mi importasse tanto, ma oggi il cerchio si è chiuso. Penso che tutta la storia del bullismo nei confronti di Lena Dunham - e con questo non voglio allinearmi al sentire comune e dire, “Oh, Jezebel ha fatto proprio una brutta cosa” - sia stata indicativa del punto a cui è arrivato oggi un certo tipo di femminismo.

Continuo a pensare che il femminismo stia arrivando a un buon punto, soprattutto perché le donne che conosco vogliono solo essere vere, essere sensuali, essere belle. Incontrando James Deen e calandomi nel suo mondo ho incontrato molte donne che lavorano nel porno; osservando quanto siano a loro agio mi ha fatto vedere le cose da un'altra prospettiva.

Non pensi che questo le abbia anche un po' rovinate?
No, non le ha rovinate. La ragazza di James Deen [Stoya, che ha una rubrica su VICE] è un'attrice famosa e, come James, non assomiglia alla classica pornostar. Ha anche un blog dove scrive di porno femminista e di come abbia il controllo su quello che fa.

Puoi parlarmi della collaborazione cinematografica con Kanye?
Sai una cosa? Purtroppo non posso. È territorio di Kanye e c'è tutto un altro fuso orario. È arrivato da me e mi ha chiesto di scrivere un film. All'inizio non volevo, poi ho ascoltato Yeezus. Era l'inizio della scorsa estate ed ero in auto, stavo guidando. Mi aveva dato una copia prima dell'uscita dell'album e ho pensato che non mi importava di essere o meno la persona giusta per quel progetto, volevo lavorare a tutti i costi con chi aveva scritto quel disco. Quindi che cazzo, ho detto di sì. Ecco com'è andata. È stato sette, otto mesi fa. Vedremo cosa ne verrà fuori.

Lui mi piace molto come persona. So che davanti alla stampa si mostra un po' così, come se fosse un'opera d'arte vivente, ma trovarti da solo in una stanza con lui e parlarci per tre ore è un'esperienza incredibile.

Penso che abbia infranto la regola d'oro del non ammettere di essere narcisista, e penso che sia questo ciò che la gente non tollera di lui.
E perché dovrebbe esistere questa regola?

Giusto, in effetti se lavori nei media o nell'industria dell'intrattenimento è quasi certo che tu sia un narcisista.
Esatto. Lo siamo tutti. E lui è una delle poche persone che lo ammette, e mi piace per questo e vorrei che più gente seguisse il suo esempio. Penso sia questo ciò che rende così affascinante Jennifer Lawrence. Lei è l'immagine del futuro volto di Hollywood. Non so se le “vecchie regole” dell'impero - tipo mostrare la tua parte migliore sul tappeto rosso - portino da qualche parte. Non mi sembra una società libera.

Puoi spiegarmi questa distinzione tra impero e post-impero? Perché la usi molto spesso.
L'Impero sono gli Stati Uniti, dalla seconda guerra mondiale a poco dopo l'11 settembre. Erano al culmine del loro potere, del loro prestigio e della loro potenza economica. Poi hanno perso un sacco di queste cose. Di fronte alla tecnologia e ai social network, la maschera dell'orgoglio è lentamente caduta. Quel credere di essere meglio di tutti gli altri - di essere semplicemente al di sopra di tutto - e cercare di dare al mondo l'impressione di non avere problemi. L'età post-imperiale è l'età in cui la cosa che conta è essere se stessi. È mostrare la realtà invece che nascondere le cose tra strati e strati di significati.

Ma è possibile mostrare una versione “vera” di se stessi online?
Be', trasformare te stesso in un avatar, già questo, è post-imperiale. È un nuovo tipo di maschera. È più scherzoso che nascondere i propri sentimenti, mostrare la tua parte migliore e mentire se è necessario. A meno che, ovviamente, non si tratti soltanto di una nuova forma di Impero

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