inizio rosso e giallo


 

quattro illeggibili




 

 

 

Peter Cheyney



Scatenato e volgare, Lemmy Caution cita un Confucio improvvisato. Il giallo hard boiled tocca già la parodia. Cosa c'è di male?
Così Plac ne Il giardino degli assassini. Dissentiamo, e aggiungiamo che più che di parodia ci pare si tratti di furbata: libri scritti decisamente male, ma con una verve volgare e fantasiosa che a tratti potrebbe anche risultare divertente, se non fosse palesemente una trovata da pochi dollari; che tuttavia di dollari ne portò parecchi all'autore, anche per i diritti - post mortem, per sua sfortuna - rispetto a due film che nei primi anni '60 ebbero un certo successo, con l'interpretazione assai aderente di Eddie Constantine nella parte del detective sanguigno e rissoso.
Dopo i primi due film, abbastanza dozzinali, sarà addirittura Jean Luc Godard a impossessarsi di questo personaggio per palati poco esigenti e farne il protagonista di una storia tra lo spionaggio e la fantascienza, tra il grottesco e l'ironico: Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, 1965: "Godard ne fa una ricerca sugli elementi di base del cinema: la luce e il suono. Alphaville è Parigi, capitale del dolore." (Morandini)


 

Mickey Spillane


Si vantava (millantando) di essere l'autore più tradotto al mondo dopo Lenin, Tolstoj, Gorkij e Verne (con la differenza "che loro erano morti"), e di "non avere ammiratori ma solo clienti."
Una persona a modino, insomma.

Così scrive di lui Giorgio Placereani in Il giardino degli assassini - Bibliografia minima della letteratura poliziesca: "Perso papà Zdanov i democratico - moralisti si sono abituati a inghiottire di tutto; solo Spillane, se lo leggi vieni ancora scomunicato. È già un buon motivo per leggerlo. Si aggiunga che è un autore discreto, anche se non trascendentale. "
Niet. Lasciamo perdere Zdanov e andiamo al sodo, all'hard boiled: hanno detto che Spillane è il vero continuatore di Hammett e Chandler, avendo portato quasi a perfezione il vecchio detto della scuola dei duri, secondo cui quando la storia langue non c'è niente di meglio che far tirar fuori una pistola.
Il fatto è che Hammett, Chandler, e gli altri usavano sì spesso e volentieri la pistola, ma non nel vuoto assoluto: c'era l'America bigotta e violenta, affascinante e desolata, corrotta e rabbiosa; c'erano gli americani disillusi e ambiziosi, onesti e perdenti, fragili e testardi.

In Spillane e nel suo alter ego Mike Hammer (nomen omen: martello), invece, c'è solo violenza allo stato puro, di cui non si capisce né l'origine né il fine, violenza che riempie le pagine fino a divenire stucchevole, violenza in cui è buono solo chi spara per primo, violenza senza rimpianti verso chi è debole, le donne, ad esempio.

Fascismo maschilista? Sì, senza retorica. Quindi, fate un po' voi.

 

Edgar Wallace


Fra i più prolifici, e sopravvalutati, autori di polizieschi, Richard Horatio Edgar Wallace (1875 - 1932) era una "macchina per fare quattrini", come egli stesso si definì: quando, dopo aver fatto i lavori più svariati, scrisse senza molta convinzione un racconto del mistero e si accorse che lo poteva fare con grande facilità, a fronte di un adeguato compenso, continuò senza fermarsi più.
Quando le richieste degli editori si facevano pressanti quanto quelle dei creditori, Wallace mise in cantiere una tipologia produttiva molto capitalistica: non scriveva nemmeno, si limitava a dettare a una segretaria le proprie storie, che poi rivedeva sommariamente.
La sua abilità era tale che in genere il sistema funzionava alla perfezione: l'editore non voleva sottigliezze psicologiche, ambientazioni credibili, innovazioni originali, ma trame robuste, sangue e azione. E Wallace lo accontentava.


Una prolificità - come notava Alberto Del Monte (Il racconto poliziesco, Nuova Italia, 1975) - «inversamente proporzionale alla qualità dei suoi romanzi, caratterizzati dalla trasandatezza formale, dall'improbabilità degli intrecci, dalla gratuità delle soluzioni. Il Wallace rivela l'influsso del romanzo "feuilleton" e del "thriller" e adotta uno schema che si ripete monotonamente in quasi tutte le sue storie; c'è un antefatto che viene rivelato a poco a poco ma che viene spiegato solo alla fine; c'è un personaggio misterioso che però risulta essere un detective; v'è una ragazza che, o è inconsapevolmente una pedina del piano del criminale o provoca in lui una morbosa passione, che è rapita e la cui liberazione segna anche la soluzione della vicenda. Questo schema è variato di volta in volta con tutto il repertorio tematico delle "crime" e delle "mystery stories", ma rimane pressoché fondamentale e denuncia, nell'apparente varietà, l'uniformità dell'inventiva dello scrittore». Insomma, un furbacchione che - come avrebbe fatto più tardi Spillane, con analoghi esiti - dava al pubblico roba forte e senza sostanza. Per lui scrivere equivaleva semplicemente a realizzare un prodotto da vendere, tant'è che tutti i suoi veri interessi erano altrove: le corse dei cavalli, l'industria cinematografica, l'editoria "popolare".
Che poi dentro un libro vi dovesse essere vita, era per lui del tutto trascurabile. Forse l'unica eccezione sono le storie de I Quattro Giusti (The Four Just Men): un gruppo di giustizieri, appunto, che non vanno troppo per il sottile nella lotta contro il crimine ma che perlomeno hanno una qualche motivazione etica per il proprio agire sbrigativo, e nelle loro vicende c'è sempre un quid di morale: di grande semplicità, si capisce, ma sempre meglio di niente. «Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto»: queste sagge parole di Gadda lo avrebbero visto sorridere con sufficienza: si sarebbe versato l'ennesima tazza di thè dicendo "Dunque, signorina, scriva..."

Ma almeno un merito gli va riconosciuto: Wallace è stato lo sceneggiatore di quel capolavoro che fu King Kong (regia di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933), con vari rifacimenti (1976, 1995), seguiti e imitazioni.

 

 

 


 

Petros Markaris

 

Come non parlare di chi, insieme a Izzo (e al creatore di Montalbano) Camilleri considera la vera novità del giallo?

E ben venga, accidenti, un'ulteriore calda iniezione mediterranea in un panorama ancora dominato dalle tante sfumature di nero che vanno da Parigi al Bronx, dai sobborghi londinesi ad altri ambienti squallidi e pieni di umidità.
E in effetti più di un'aspettativa si delinea rispetto ad uno scrittore che ha collaborato con un grande regista come Angelopulos.

E invece la lettura de La lunga estate calda del Commissario Charitos si è rivelata faticosissima: ritmo soporifero, un'Atene credibile ma infarcita di troppe facili ironie su "eh, noi greci siamo fatti così", personaggi di contorno che vorrebbero essere coloriti e risultano solo fastidiosi, e il protagonista, il commissario della polizia criminale Kostas Charitos, che vorrebbe essere acuto e sornione e invece ha l'aria di essere un po' mona.
Vabbè, magari ulteriori letture spingeranno verso un parere meno ingeneroso.

 

  • Ultime della notte, Bompiani, 2000
  • Difesa a zona, Bompiani, 2002
  • Si è suicidato il Che, Bompiani, 2004
  • La lunga estate calda del Commissario Charitos, Bompiani, 2007
  • I labirinti di Atene, Bompiani, 2008 - racconti
  • La balia, Bompiani, 2009
  • Io e Kostas Charitos, Bompiani, 2010
  • Prestiti scaduti, Bompiani, 2011
  • L'esattore, Bompiani, 201
  • Resa dei conti, Bompiani, 2013

Valeria Merola

Intervista a Petros Markaris


26/10/2011. Petros Markaris è uno degli scrittori greci di maggior successo. Autore di numerose sceneggiature cinematografiche, tra cui quelle scritte con Theo Angelopoulos, da Giorni del ’36 a Megalexandros, a Lo sguardo di Ulisse, fino a L’eternità e un giorno, Palma d’oro al Festival di Cannes del 1998, Markaris è anche drammaturgo (Storia di Alì Retzos, Gli ospiti, Come i cavalli).
I suoi primi due romanzi, Ultime della notte (Bompiani, 2000) e Difesa a zona (Bompiani, 2001), tradotti in molti paesi europei, hanno imposto all’attenzione del pubblico le avventure del commissario Kostas Charìtos, che ora ritorna con un nuovo caso.
Come nei primi due romanzi, Markaris si distingue per una spiccata vena umoristica e una particolare sensibilità per l’attualità politica e culturale. Abbiamo incontrato lo scrittore Petros Markaris l’8 maggio scorso, durante la Fiera del Libro di Torino.

Un nuovo caso per il commissario Kostas Charìtos. Ci può presentare questo personaggio e le sue avventure?

Il commissario Kostas Charìtos è un personaggio che è nato improvvisamente, tra il 1992 e il 1993. Charìtos è venuto da me con la sua famiglia: un uomo con sua moglie e sua figlia. È un personaggio molto insistente, che mi ha ossessionato per parecchio tempo, obbligandomi ad occuparmi di lui. Il suo modo di visitarmi con insistenza mi ha fatto decidere di disegnarlo come un poliziotto. Charìtos è un piccolo borghese – anche se inizialmente non pensavo di parlare della piccola borghesia, ma, l’ho detto, è un personaggio che impone il suo carattere con ostinazione e costanza -, che ama molto la sua famiglia. Il rapporto con la moglie emerge con tutti i problemi di una vita comune di vent’anni. Nei primi due romanzi i due si torturano a vicenda. Nel terzo, Si è suicidato il Che, è la donna a tormentare il marito, che è malato, in una fase di convalescenza, e come tutti gli uomini malati, è perduto.

Ci vuole raccontare in poche parole il nuovo romanzo?

Al centro di Si è suicidato il Che ci sono tre suicidi. Tre personaggi molto conosciuti, un imprenditore, un membro del Parlamento e un giornalista, che si suicidano in pubblico: i primi due davanti alle telecamere durante un programma televisivo e il terzo nel bel mezzo di una festa. Per Charìtos si tratta della prima inchiesta che conduce in privato, perché, trovandosi lontano dal lavoro per via della convalescenza, non ha il diritto di svolgere un’indagine ufficiale. Charìtos concentra le proprie energie per cercare di scoprire perché questi uomini famosi decidono di suicidarsi davanti alle telecamere. Attraverso questo intrigo, il romanzo ricostruisce gli ultimi trent’anni della vita pubblica e della storia recente della Grecia, dalla caduta del regime dei Colonelli fino ad oggi. Ho cercato di osservare come sia cambiata la realtà per coloro che durante il regime avevano opposto resistenza e ora sono diventati i più riconosciuti rappresentanti dello status quo della Grecia.

Il passato nel suo romanzo sembra essere una forza alla quale non ci si può sottrarre, una necessità che decide il destino dei personaggi. Perché?

Bisogna innanzitutto fare alcune considerazioni sulla storia della Grecia dopo la seconda guerra mondiale. Una generazione di rivoluzionari di sinistra, che hanno perduto la battaglia contro le forze conservatrici del paese, si è spesso rifugiata in Francia. La generazione degli studenti rivoluzionari del 1974 è la prima generazione della sinistra resistente a prendere il potere in Grecia. Questa generazione ha mantenuto il governo per vent’anni, occupando tutte le più alte cariche dello Stato greco. Questa storia politica recente resta molto viva ancora oggi in Grecia, anche nell’attualità politica dei nostri giorni.

Lei è autore, oltre che di molti romanzi, anche di sceneggiature per il cinema. In quale modo la scrittura per il cinema può influenzare quella narrativa? E qual è la dimensione in cui si sente più a suo agio?

Se si segue la struttura del romanzo si può constatare che si tratta quasi di una sceneggiatura. Questo perché sono molto influenzato dall’immaginario cinematografico e dai suoi moduli espressivi. Un’altra cosa è poi per me molto importante. Non posso assolutamente iniziare a scrivere un romanzo se non ho un’immagine davanti agli occhi. L’ispirazione della mia scrittura è sempre un’immagine. Nel primo romanzo mi sono concentrato sull’immagine di due uomini che si guardano; nel secondo su quella di un’isola durante un terremoto. In questo terzo romanzo l’immagine iniziale è quella del poliziotto che guarda il gatto. Quando ho davanti agli occhi uno scenario così definito, mi sento chiamare dentro l’immagine e inizio a scrivere. Per questo la mia scrittura è sempre molto legata alla dimensione cinematografica.

da: http://www.letteratura.rai.it/

Petros Markaris

Atene ha spento le luci

da Die Zeit

Negozi chiusi. Strade buie. File interminabili di taxi in attesa di clienti. La Grecia è in ginocchio. E se la colpa è di una classe dirigente corrotta, a pagare sono soprattutto i poveri.

Accanto al sistema politico istituzionale, composto da sette partiti, in Grecia c’è un sistema parallelo, slegato dal parlamento e articolato in quattro partiti. Sono i partiti in cui si è spaccata la società dopo diciotto mesi di crisi economica. Invece di avvicinarsi e collaborare, con l’aggravarsi dei problemi e l’inasprirsi della lotta per la sopravvivenza quotidiana questi quattro gruppi sono sempre più distanti tra loro. A volte si alleano per raggiungere un obiettivo, ma spesso sono impegnati in una guerra di trincea.

Per cominciare c’è il “partito dei profittatori”. Ne fanno parte tutte le imprese che negli ultimi trent’anni hanno approfittato del sistema clientelare. Innanzitutto le imprese edilizie, che hanno fatto fortuna grazie alle Olimpiadi del 2004, aggiudicandosi appalti pubblici a cifre astronomiche. Al partito dei profittatori appartengono anche le imprese che riforniscono gli enti pubblici: per esempio le ditte che vendono farmaci e apparecchiature mediche agli ospedali. Di recente il ministero della salute ha creato un ufficio incaricato di comprare medicinali attraverso aste su internet, e per i primi acquisti gli ha messo a disposizione 9 milioni 937mila 480 euro, un cifra calcolata in base a quanto era stato speso fino ad allora. Comprando i farmaci online il ministero ha speso solo 616.505 euro, il 6,2 per cento della somma stanziata. In questo modo i greci hanno finalmente scoperto quanti soldi inghiottiva il vecchio sistema.

Senza le nuove misure di austerità tutto sarebbe rimasto com’era. Il partito dei profittatori – imprese edilizie e fornitori di ospedali – aveva stretto legami con il partito al governo e i suoi ministri. Negli apparati dello stato tutti erano a conoscenza di questi accordi e del loro costo per la collettività, ma nessuno ne parlava. E non solo perché i partiti intascavano contributi colossali, ma anche perché le imprese corrotte finanziavano le campagne elettorali dei deputati e assicuravano ai loro familiari posti di lavoro ben retribuiti. Il partito dei profittatori è anche quello degli evasori fiscali, soprattutto professionisti con redditi alti come medici e avvocati. “La visita costa 80 euro. Se vuole la fattura sono 110”, è la frase che si sente ripetere ogni greco quando entra in uno studio medico. Alla fine la maggior parte dei pazienti rinuncia alla fattura pur di risparmiare 30 euro. Le autorità tollerano e si voltano dall’altra parte per non vedere. È la conseguenza dell’alleanza che hanno stretto con i professionisti e le imprese.

Truffe e clientelismo

Intanto il numero dei cittadini in difficoltà cresce senza sosta. Molti non riescono più a mettere insieme neanche i soldi per pagare il ticket sui medicinali. E c’è anche chi, per curarsi, si rivolge a Médecins du monde. Le due cliniche ateniesi dell’organizzazione umanitaria francese sono state aperte per gli immigrati arrivati dall’Africa, ma ormai offrono assistenza anche ai greci più poveri. Spesso davanti ai loro ambulatori ci sono centinaia di persone in fila. Molti sono diabetici che non possono più permettersi l’insulina. La miseria sta contagiando anche i greci. Fino a sei mesi fa, quando la mattina presto aprivo la finestra del mio balcone e guardavo giù in strada, vedevo profughi che frugavano nei cassonetti alla ricerca di qualcosa da mangiare. In queste ultime settimane mi capita spesso di vedere dei greci. Per non farsi notare scelgono le prime ore del mattino, quando le strade sono deserte.

Ovviamente i profittatori e gli evasori fiscali non hanno questi problemi. La crisi quasi non l’avvertono, perché prima che scoppiasse avevano già trasferito i soldi all’estero. Negli ultimi diciotto mesi le banche greche hanno perso sei miliardi di euro, mentre quelle estere, soprattutto svizzere, hanno fatto affari d’oro.

Ci sono anche dei profittatori che, sposando le tesi della sinistra radicale, hanno invocato il ritorno alla dracma. In questo modo il loro patrimonio in euro aumenterebbe di valore e gli permetterebbe di acquistare importanti proprietà pubbliche a prezzi stracciati. In caso di uscita dall’euro, infatti, lo stato sarebbe costretto a privatizzare gran parte dei suoi beni per fare cassa.

Un altro sodalizio molto pericoloso è quello tra il governo e gli agricoltori, che fanno parte anche loro del partito dei profittatori. Fin dall’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, nel 1981, tutti i governi hanno compatito i “poveri contadini greci”, che avrebbero meritato una sorte migliore. In realtà, grazie ai sussidi europei, già da tempo gli agricoltori greci non se la passano male. Le sovvenzioni sono state distribuite in modo arbitrario e incontrollato, senza le verifiche necessarie. I contadini sotterravano i loro prodotti, fornivano cifre false e incassavano il denaro. Come se non bastasse, la Banca dell’agricoltura greca gli ha concesso generosi crediti, che a tutt’oggi non sono stati rimborsati. I partiti al governo hanno evitato che fossero fatte pressioni sui coltivatori: avevano bisogno dei loro voti e di quelli delle loro famiglie. Il risultato è che l’agricoltura greca è alla bancarotta e in campagna si vedono contadini che vanno in giro a bordo di jeep Cherokee.

La seconda fazione si potrebbe chiamare “partito degli onesti”, ma preferisco “partito dei martiri”. Ne fanno parte i proprietari delle piccole e medie imprese, i loro dipendenti e i lavoratori autonomi, come i tassisti o gli artigiani. Questi cittadini, che lavorano sodo e pagano regolarmente le tasse, dimostrano che la tesi diffusa in Europa secondo cui i greci sono pigri e scansafatiche è completamente falsa. Il partito dei martiri è il più numeroso. Eppure non è abbastanza forte da stringere alleanze vantaggiose, e alla fine viene sfruttato da tutti. I martiri sono i greci più colpiti dalla crisi.

Per i piccoli imprenditori il colpo più duro è stato la recessione. Ovunque ad Atene ci si imbatte nello spettacolo desolante di negozi vuoti e abbandonati, anche nelle zone più eleganti, come via Patission, la più antica delle tre principali vie del centro di Atene, luogo di passeggiate per la buona borghesia cittadina. È una zona che conosco bene, perché abito lì vicino. Un tempo la strada era illuminata a giorno dalle vetrine dei negozi. Oggi di sera Patission è buia come la pece. Un negozio su due ha chiuso, e quei pochi ancora aperti sopravvivono vendendo merce scontata.

Nessuna prospettiva

In via Aiolou (Eolo), una strada commerciale del centro storico con negozi poco costosi, lo spettacolo è ancora più triste. I negozi sono chiusi o vuoti. Clienti non se ne vedono. La via è ridotta a un’area pedonale senza pedoni. “Quanto posso resistere?”, mi aveva chiesto la titolare di un piccolo negozio di abbigliamento dove ho comprato un paio di calzini. “Passano giorni interi senza che entri un cliente”. Alla fine anche lei si è arresa: l’ultima volta che sono passato in via Aiolou il suo negozio era chiuso.

Un’amica di mia sorella lavora in una piccola impresa edilizia. Il titolare ha licenziato tutto il personale tranne lei. Ormai non si costruiscono più case. L’amica di mia sorella non prende lo stipendio da sette mesi, ma almeno ha la fortuna di avere ancora un posto di lavoro.

Quelli del partito dei martiri sono scoraggiati. Hanno perso ogni speranza. La crisi gli ha tolto la speranza di un futuro migliore. A parlarci, si ha la sensazione che stiano solo aspettando la fine. Quando un’ampia fetta della popolazione non ha più fiducia, la vita diventa opprimente. In molti condomini non si accende più nemmeno il riscaldamento: le famiglie non hanno i soldi per il gasolio o preferiscono risparmiarli.

Il partito dei martiri

Non ho la patente, e quando vado o torno dall’aeroporto mi rivolgo a un tassista di fiducia. Si chiama Thodoros, è scapolo e vive da solo. “Che ne pensa di Lucas Papademos?”, mi ha chiesto alla fine di novembre mentre mi riportava a casa. Gli ho risposto che il nuovo primo ministro è una persona capace e onesta, che gode di grande considerazione in Grecia e in Europa. “Certo, ma la sua nomina non mi ha mica portato nuovi clienti”, ha risposto rassegnato il tassista. “Be’, sarebbe pretendere un po’ troppo”, ho obiettato io. “Ma lei capisce?”, è sbottato Thodoros. “La licenza di questo taxi mi costa 350 euro a settimana. Lavoro sette giorni su sette, ma spesso quello che guadagno mi basta solo per coprire le spese. E alla fine ci rimetto di tasca mia. Che il primo ministro sia Papademos o un altro poco importa: la mia attività è andata a rotoli”.

I greci usano spesso il taxi perché costa poco. Con 3 euro e 20 arrivi quasi ovunque nel centro di Atene, e una corsa più lunga non costa mai più di 6 euro. Fino a sei mesi fa trovare un’auto libera a mezzogiorno era un’impresa. Oggi ci sono dappertutto file di taxi in attesa di clienti. E non solo a mezzogiorno: anche di sera e nel fine settimana.

Ma non basta. La recessione non è l’unica preoccupazione dei martiri. Non hanno più lavoro, eppure devono continuare a pagare: l’imposta sui redditi, le altre tasse e il contributo di solidarietà, che l’anno prossimo dovranno versare addirittura due volte. Quanto all’iva, negli ultimi dodici mesi è stata aumentata due volte. Gli evasori, in compenso, non sanno nulla di addizionali e contributi di solidarietà. Molti di loro non compilano neppure la dichiarazione dei redditi, oppure nascondono al fisco il grosso delle loro entrate. I cittadini onesti, invece, sono costretti a pagare perfino per l’aria che respirano.

Al partito dei martiri appartengono anche i lavoratori e i disoccupati del settore privato. Oggi in Grecia sono pochissimi i lavoratori a cui viene pagato regolarmente lo stipendio. Molti lo incassano a rate e con mesi di ritardo. Tutti vivono in condizioni difficili e tra grandi preoccupazioni, perché temono che le imprese per cui lavorano chiudano i battenti dall’oggi al domani. Inoltre, con la crescita bloccata e senza la possibilità di ottenere un prestito, molte piccole imprese spariscono lasciandosi alle spalle i debiti da pagare. Mio suocero, fornitore di negozi di abbigliamento per bambini, mi ha raccontato che solo nell’ultima settimana gli è capitato di dover affrontare situazioni simili per ben tre volte.

Davanti agli uffici di collocamento si vedono lunghe file di disoccupati che ogni mese aspettano pazientemente il mandato di pagamento per incassare il sussidio in banca. Ma non hanno nessuna certezza che i soldi arrivino ai primi del mese. A volte per avere i loro 416 euro e 50 devono aspettare settimane. Il numero dei disoccupati cresce giorno dopo giorno, e gli uffici esauriscono presto il denaro.

Considerato che l’apparato dello stato e le sue finanze sono al collasso, al ministero delle finanze qualcuno si è fatto venire la brillante idea di far pagare le tasse attraverso le bollette dell’elettricità: a chi non paga viene tagliata la luce. Alla tv greca ho visto immagini di anziani che facevano la fila alla cassa dell’azienda elettrica per pagare le imposte. “Devo pagare subito 250 euro”, ha detto un signore sulla sessantina davanti alle telecamere. “Per l’affitto spendo 400 euro al mese. Come faccio a campare con i 150 euro che mi restano?”.

Vedendo queste scene mi sono improvvisamente tornati in mente gli anni sessanta, quando venni a vivere in Grecia. Allora mi trovai di fronte a uno spettacolo curioso e insolito: case a un piano, costruite in quartieri operai e piccolo borghesi, dai cui tetti spuntavano ancora le sbarre di ferro del cemento armato. Quelle sbarre avevano un aspetto orrendo, ma erano una promessa: il sogno di un secondo piano. Il sogno di un appartamento per i figli. Era l’obiettivo per cui questa gente aveva risparmiato tutta la vita. Oggi, invece, sono tutti al verde. Con il suo brutale clientelismo questo fallimentare sistema politico ha distrutto, insieme alle illusioni di ricchezza, anche la dignità della povera gente.

L’occupazione dello stato

C’è poi il terzo gruppo, che chiamerò il “partito del Moloch”. Questo partito recluta i suoi militanti nell’apparato dello stato e nelle imprese pubbliche, ed è diviso in due correnti: da una parte ci sono gli impiegati e i funzionari pubblici, dall’altra i sindacalisti. Il partito del Moloch è la componente esterna al parlamento su cui fa affidamento il partito che si trova di volta in volta al governo. Ed è anche il garante del sistema clientelare, perché è composto in gran parte da quadri e funzionari di partito.

Questo sistema ha una lunga storia che risale all’epoca successiva alla guerra civile, gli anni cinquanta. A quel tempo i nazionalisti, che avevano sconfitto i partigiani comunisti, occuparono l’intero apparato statale, mettendo ovunque persone di loro fiducia: una sorta di ricompensa per la fedeltà agli ideali nazionalistici e monarchici. Poi, nel 1981, subito dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, andò al governo per la prima volta il partito socialista, il Pasok. Furono i socialisti a trasformare questo sistema in una consuetudine politica. Inizialmente la prassi fu giustificata con argomenti abbastanza ragionevoli, condivisi dagli elettori.

Secondo il Pasok, dopo il lungo dominio dei partiti di destra, l’apparato statale era diventato pregiudizialmente ostile alle forze di sinistra. Per poter governare, quindi, i socialisti dovevano mettere uomini di fiducia nei posti chiave dell’amministrazione. Ma la cosa non finì lì. Ben presto tutto l’apparato statale fu occupato dagli uomini del Pasok. Quasi la metà degli iscritti al partito fu ricompensata con un posto nella pubblica amministrazione.

Da allora tutti i governi greci si sono legati a una di queste due fazioni interne all’apparato statale: una situazione che è durata fino ai primi mesi dell’ultima crisi. Grazie ai sussidi europei i soldi non erano un problema. Quando poi non sono bastati più, se ne sono presi a prestito per tappare i buchi. La maggioranza degli uomini di partito sistemati nell’apparato pubblico non faceva nulla o si limitava al minimo indispensabile. Ecco cosa è capitato a un’amica che lavora come ingegnere in un’azienda pubblica. Un anno fa nel suo ufficio è arrivato un nuovo collega. Il primo giorno ha subito dichiarato: “Care colleghe e cari colleghi, mi dispiace molto ma ho dimenticato tutto quello che ho imparato all’università”. Non ha mai lavorato. E nessuno dei superiori ha mai detto nulla.

I dipendenti pubblici che fanno parte del partito del Moloch, tuttavia, non sono tutti uguali. Una parte dei suoi militanti starebbe meglio nel partito dei martiri: per esempio quei funzionari che si sono guadagnati il posto di lavoro con un concorso e non grazie a raccomandazioni politiche. Sono gli unici dipendenti pubblici che lavorano (a volte per due o per tre, perché devono fare anche il lavoro degli altri) e sono quindi loro stessi vittime del sistema. Gli altri, invece, hanno stretto un’alleanza non solo con i partiti al governo, ma anche con il partito dei profittatori. Questa grande coalizione domina il partito del Moloch da trent’anni.

La piaga dell’evasione fiscale, che ha portato lo stato alla rovina, non sarebbe mai stata possibile senza l’aiuto dei funzionari del fisco corrotti, generosamente ricompensati dagli evasori per la loro disponibilità a collaborare.

Oggi i dipendenti pubblici greci si lamentano perché i loro stipendi sono stati tagliati del 30 per cento. Ma il taglio non ha colpito tutti alla stessa maniera. Le vittime del sistema in effetti ci hanno rimesso un terzo del reddito in termini reali. Ma quelli che si sono coalizzati con i profittatori percepiscono, oltre allo stipendio, anche un reddito al nero, e quindi compensano le perdite con entrate non dichiarate.

L’arma dello sciopero

La seconda componente del partito del Moloch è rappresentata dai sindacalisti. Sui giornali tedeschi leggo spesso notizie sugli scioperi e sulle manifestazioni in Grecia. E quando vado in Germania per presentare i miei libri, tutti mi chiedono perché i greci scioperano così spesso. In realtà l’unico sciopero generale indetto in Grecia negli ultimi anni è stato quello organizzato poche settimane fa, quando il parlamento ha varato un nuovo pacchetto di misure di austerità. Per la manifestazione (in Grecia nessuno sciopero, neanche il più piccolo, si conclude senza un corteo) si sono riunite a piazza Syntagma, di fronte al parlamento, circa 140mila persone. È stata la mobilitazione più grande degli ultimi anni. Perfino i commercianti hanno abbassato le saracinesche, non perché temessero scontri (cosa che peraltro succede spesso), ma perché volevano scioperare anche loro.

Nonostante le affermazioni dei sindacati, di tutti gli scioperi precedenti neanche uno è stato davvero generale. Hanno aderito solo i lavoratori privilegiati del settore pubblico, mentre quelli del settore privato andavano a lavorare come tutti gli altri giorni. La verità è che in Grecia i sindacati non hanno nessun potere sui lavoratori del settore privato, mentre hanno un potere pressoché illimitato nel settore pubblico, e questo gli permette di proclamare uno sciopero in qualsiasi momento. In media riescono a mobilitare una decina di migliaia di manifestanti, tutti dipendenti pubblici.

Anche questo potere dei sindacati ha una sua storia. Il fondatore del Pasok, Andreas Papandreou, che è stato anche il primo presidente del consiglio socialista, dal 1981 al 1989 governò il paese come un monarca. Ma come ogni monarca, per mantenere il potere dovette affidarsi a un’aristocrazia. Così nacque una sorta di nobiltà di corte, formata dai ministri del governo e dai dirigenti di partito. Al suo fianco c’era un’aristocrazia cittadina, formata dai funzionari del sindacato e del partito sistemati nell’apparato dello stato e nelle sue aziende, affiancata a sua volta da un’aristocrazia nazionale, composta dai funzionari che riversavano sugli agricoltori i sussidi erogati dall’Unione europea. In questa situazione le istituzioni democratiche in un modo o nell’altro funzionavano, ma bastava una parola del sovrano perché un notabile cadesse in disgrazia e perdesse il posto. La benevolenza del re, però, poteva anche concedere poteri illimitati.

L’accordo con il partito al governo ha enormemente accresciuto il potere dei sindacati della funzione pubblica. Questo potere è legato a molti privilegi. Nel settore pubblico non si muove nulla senza l’assenso dei sindacalisti. Le aziende non osano opporsi ai sindacati. Temono la collera dei ministri e dei partiti al governo. Spesso, quando scoppia un conflitto tra sindacato e impresa interviene un ministro e l’azienda finisce per avere la peggio.

Gli scioperi nelle aziende di pubblica utilità e nei servizi pubblici, che a volte hanno cadenza settimanale, non sono che l’ultimo, disperato tentativo del partito del Moloch di salvaguardare i propri privilegi. O almeno di salvare il salvabile.

Le conseguenze di questa situazione ricadono come sempre sul partito dei martiri. Quando c’è una manifestazione, spesso il centro di Atene rimane chiuso al traffico e i negozi abbassano le saracinesche per paura degli scontri. Quando scioperano gli autisti dei mezzi pubblici, cosa che succede di continuo, il centro della città diventa un deserto. I commercianti perdono i pochi clienti che potrebbero ancora comprare qualcosa, e i cittadini devono andare a lavorare a piedi o in bicicletta. Può costargli anche un’ora o due ma, temendo per il posto di lavoro, non possono certo permettersi di restare a casa. Ecco perché sono dei martiri.

In Grecia alcuni gruppi fanno il proprio interesse a spese degli altri, e la solidarietà è sconosciuta. Sono i più deboli che pagano il prezzo della lotta dei sindacati contro il governo e contro le sue misure di austerità. E così diventano ostaggi dei sindacati stessi.

La quarta e ultima fazione della società greca è quella che mi preoccupa di più. È il “partito dei senza futuro”, tutti quei ragazzi greci che passano la giornata seduti davanti al computer cercando disperatamente su internet un lavoro in qualsiasi parte del mondo. Non diventeranno Gastarbeiter (lavoratori immigrati) come i loro nonni, che negli anni sessanta partirono dalla Macedonia e dalla Tracia per andare a cercare un lavoro in Germania. Questi ragazzi hanno una laurea e a volte perfino un dottorato. Ma dopo gli studi li aspetta la disoccupazione.

Io sono nato e cresciuto a Istanbul e ormai da molti anni vivo ad Atene. Mia figlia ha fatto il percorso inverso: è nata ad Atene e oggi vive a Istanbul. Una specie di “ritorno in patria della seconda generazione”. Quello di mia figlia non è certo un caso isolato: nell’ultimo anno un fiume di giovani è emigrato a Istanbul. Una volta in Turchia, questi ragazzi e ragazze si rivolgono al patriarcato ecumenico della chiesa greco-ortodossa per chiedere un lavoro o almeno un aiuto fino a quando non trovano un appartamento in affitto. La Grecia ha accantonato la sua antica diffidenza verso la Turchia grazie alla disoccupazione giovanile.

Vuoi per la recessione e per le misure di austerità, vuoi per la riduzione del debito e per le riforme, noi greci saremo vittime della crisi: nel migliore dei casi per due generazioni e nel peggiore per tre. I veri perdenti di oggi sono i giovani. Ma domani sarà tutto il paese a crollare, perché nel giro di pochi anni mancheranno forze nuove.

Gli unici che oggi decidono di venire in Grecia sono quelli che se la passano ancora peggio di noi. Ogni giorno compro i quotidiani alla stessa edicola, all’angolo della strada in cui abito. Il proprietario del chiosco è un albanese. L’altro ieri, mentre compravo il giornale, mi fa: “Guardi un po’”, e mi indica un africano che fruga nei cassonetti non lontano da noi. “Bisognerebbe rispedirli tutti a casa loro”.
“Proprio lei!”, ribatto stizzito. “Ha dimenticato che vent’anni fa i greci la chiamavano albanese di merda?”.

“È vero. Ma adesso è passato: i nostri figli vanno alle scuole greche, parlano greco e nessuno li distingue più dagli altri bambini greci”, risponde. “Molti di noi hanno perfino preso la cittadinanza greca. Il problema, adesso, è un altro: in Albania dovrò tornarci da albanese o da greco?”. “Ma come, vuole tornare in Albania?”. “Eh sì. L’edicola va bene, ma non basta per mantenere due famiglie. Sa, mio figlio è sposato e non ha un lavoro. Sua moglie è greca e in Albania non ci vuole andare. Quindi torno io con mia moglie, e lascio l’edicola a nostro figlio. Se rientro come albanese, i miei amici di un tempo mi prenderanno in giro. Sono venuto a cercare una vita migliore in Grecia e adesso torno in patria con la coda tra le gambe: per loro sono un fallito. Ma se torno da greco, mi copriranno d’insulti. ‘Voi greci’, mi diranno, ‘ci avete sempre disprezzato. Abbiamo dovuto aspettare il visto greco per mesi e siamo stati trattati come rifiuti. E adesso venite a cercare lavoro da noi’”. Il mio edicolante non è l’unico albanese a voler tornare a casa. Sono molte le famiglie albanesi che hanno già lasciato la Grecia.

Generazione perduta
Alla parata scolastica del 28 ottobre, gli alunni di un ginnasio di Atene si sono presentati con dei fazzoletti neri al collo. In Grecia il 28 ottobre è festa nazionale: si ricorda l’inizio dell’invasione dell’esercito italiano, nel 1940, e il rifiuto del paese di arrendersi all’ultimatum di Mussolini.

Quando l’opinione pubblica è venuta a sapere della manifestazione con i fazzoletti neri, c’è stata un’ondata d’indignazione e molti giornalisti hanno parlato di “offesa alla festa nazionale”. Ma i presunti provocatori erano semplicemente degli studenti di un liceo di Aghios Panteleimon, uno dei quartieri più degradati di Atene, con un tasso di disoccupazione tra i più alti del paese.

Per prendere la licenza liceale tutti gli studenti greci devono frequentare la cosiddetta scuola preparatoria, necessaria per entrare all’università. Naturalmente questo vale anche per i ragazzi di Aghios Panteleimon. Molti di loro, però, sono figli di disoccupati che non possono più pagare la retta scolastica. E così rischiano di non poter avere un’istruzione superiore. “Non volevamo disturbare la parata, volevamo solo esprimere la nostra preoccupazione per il futuro che ci aspetta”, ha dichiarato uno degli studenti.

Ma questa vicenda è solo una faccia della medaglia. Una sera di fine novembre ero seduto nel caffè della mia casa editrice, quando una signora sulla quarantina si è avvicinata e mi ha chiesto se poteva sedersi al mio tavolo. Voleva parlarmi del mio thriller Prestiti scaduti, che racconta le difficoltà dei greci per la crisi economica. Alla fine mi ha detto: “Io insegno in un ginnasio di uno dei quartieri nord di Atene, e ogni giorno mi vergogno per come abbiamo educato male questi ragazzi”.

“Cosa intende dire?”, le ho chiesto.

“Ogni giorno, durante la ricreazione, osservo gli studenti. Non parlano che di automobili, jeans di Armani e magliette di Gucci. Non hanno la minima idea del fatto che il paese è in crisi e nemmeno di quello che li aspetta. Arrivano a scuola già viziati dai genitori, e noi continuiamo a viziarli”. Due scuole, due mondi diversi: ecco la Grecia. Una vive nei quartieri poveri, l’altra in quelli ricchi. Già a scuola i ragazzi sono diversi. I genitori benestanti regalano un’automobile ai figli che fanno l’esame di maturità. Non possono tollerare che i loro rampolli vadano all’università in autobus.

A una giornalista che raccoglieva materiale per un articolo davanti a un ufficio di collocamento, un ragazzo si è rivolto dicendo: “La prego, non scriva il mio nome. Mia madre non sa che sono disoccupato e che vengo qui a prendere il sussidio”.

Questa settimana ero in attesa a una fermata dell’autobus quando un signore anziano mi ha indicato la solita fila di taxi. “Nessuno li prende più”, ha detto. “E neanche gli ingorghi sono più frequenti come un tempo. È semplice: la gente non prende l’auto perché la benzina costa”.

“Già, sono tempi difficili!”, ho risposto.

“Bah!”, ha ribattuto lui. “Io sono cresciuto negli anni quaranta, al tempo della miseria. Si figuri che andavo a scuola scalzo, perché avevo un solo paio di scarpe e dovevo tenerle da conto”.

È vero. Ma le generazioni cresciute dopo il 1981 non hanno mai conosciuto la povertà. Hanno vissuto in un’epoca di falsa ricchezza, e al solo pensiero di dover fare delle rinunce vengono prese dal panico. Per loro la miseria è qualcosa di sconosciuto. I giovani di oggi sono figli di una generazione che è stata segnata dalla rivolta del Politecnico del novembre 1973, quando uno sciopero degli studenti contro la dittatura dei colonnelli fu represso nel sangue. Quella generazione, però, ha finito per distruggere il paese. Con i suoi slogan di sinistra pensava di costruire una Grecia nuova, ma ha fallito. Le persone oneste si sono ritirate nella sfera privata. Gli altri sono entrati in politica, hanno arraffato un lavoro redditizio come imprenditori all’interno del sistema clientelare, oppure un posto ben pagato nella pubblica amministrazione.

Nei primi anni ottanta chi condivideva questi slogan di sinistra è riuscito a entrare in politica con la tessera del Pasok o ad assicurarsi una poltrona nell’apparato dello stato. Chi non condivideva questo linguaggio faceva parte del vecchio sistema reazionario. Con il passare del tempo, molte di queste persone sono diventate ricchissime. Eppure continuano a dirsi di sinistra. Ma è solo una farsa. Sono questi i vincitori di ieri. Ma i loro figli fanno parte della generazione perduta di oggi. E domani la loro rabbia non risparmierà i padri.

grazie a: Internazionale, n. 928, 16 dicembre 2011