Praga, agosto 1968


Nella sua autobiografia "Il socialismo dal volto umano" (Editori Riuniti, 1997) Alexander Dubček, il leader della Primavera di Praga, Segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, dà un'immagine intensa di quel giorno: "Martedì 20 agosto fu un tipico giorno estivo, caldo, con un sole velato. Praga era piena di turisti, intere famiglie passeggiavano o sedevano nei parchi. La città, anzi l'intero paese era tranquillo… Era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito."
E invece i mezzi blindati dei paesi aderenti al Patto di Varsavia (URSS, Bulgaria, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, con l'eccezione della Romania) invasero le strade di Praga, per stroncare un processo rivoluzionario teso a liberare il socialismo dal virus autoritario e "a creare le condizioni necessarie a ogni individuo per autoaffermarsi in tutte le sfere del lavoro e della vita."


Cos'era accaduto, dunque, nei mesi precedenti? Il Partito Comunista era sempre saldamente al potere: a differenza di quanto era accaduto negli altri paesi dell'Europa centrale, in Cecoslovacchia i comunisti - anche in virtù del ruolo decisivo che avevano avuto nella resistenza antihitleriana - avevano assunto la direzione politica del paese (nel 1948) sulla base di un largo consenso popolare, e non, come altrove, per mera imposizione di Mosca. Le riforme sociali avviate nel dopoguerra avevano contribuito a rinsaldare i legami fra popolo e leadership, tuttavia il quadro politico non si discostava molto dagli altri paesi a cosiddetta "democrazia popolare": il Partito Comunista - il cui riferimento teorico e operativo era il principale dei "partiti fratelli", cioè quello dell'Unione Sovietica - era di fatto l'arbitro esclusivo delle decisioni, e le uniche altre formazioni politiche consentite erano piccoli partiti minori senza alcun peso reale.
Il gruppo dirigente del PCC, guidato prima da Gottwald e poi da Novotny, aveva delineato e mantenuto un regime autoritario perfettamente allineato con la politica dell'URSS sia durante le purghe staliniane che dopo la morte di Stalin (1953). Tuttavia in Cecoslovacchia il carattere non democratico del potere fu in buona misura attenuato dal profondo legame fra le masse popolari e gli esponenti comunisti, e le stesse misure repressive (si veda il bellissimo film di Costa Gavras, La confessione, 1970) furono decisamente meno sanguinose di quanto non avvenne in Ungheria o nella DDR.
Il PCC, insomma, non si era trasformato in semplice apparato burocratico al servizio di un'oligarchia, a sua volta priva di qualsiasi autonomia e semplicemente esecutrice degli ordini di Mosca, ma aveva conservato importanti tratti di partito realmente legato alla società, e al suo interno era sopravvissuto, ed anzi si era rinforzato, un folto guppo di dirigenti intellettualmente vivaci: tra essi lo stesso Dubček, operaio e dirigente del movimento comunista clandestino, che guidò la resistenza antinazista e l’insurrezione slovacca del 1944; nel 1951 diventò deputato dell’Assemblea nazionale e nel 1963 fu eletto segretario del Partito Comunista Slovacco (che insieme a quello della Boemia e della Moravia formava il PCC).
Ed è appunto della metà degli anni '60 il processo di "autoriforma" del PCC, con il gruppo vicino a Dubček che lentamente prese il sopravvento sulla vecchia guardia stalinista, fino all'elezione, nel gennaio del '68, di Dubček alla Segreteria Generale del Partito cecoslovacco.
Convinto della necessità di abbandonare gradualmente il rigido modello sovietico, il nuovo gruppo dirigente avviò risolutamente una linea antiautoritaria, aprendosi al dialogo con tutte le componenti della società cecoslovacca ed avviando un'importante serie di riforme sul piano economico e sociale: una scelta che ridiede improvvisamente vita ad una società altrimenti destinata - come avveniva in tutti i paesi del blocco sovietico - a subire il grigiore, l'inefficienza e la crudeltà di governanti che in realtà erano semplici burattini manovrati dal Kremlino.
Di qui il larghissimo consenso popolare a quello che lo stesso Dubček definì “socialismo dal volto umano”: una feconda e rivoluzionaria stagione politica che vide il proprio consolidamento - e anche un rilevante riconoscimento sul piano internazionale - nei primi mesi del 1968, in quella che è passata alla storia come la Primavera di Praga. La sostituzione, nel gennaio, di Antonín Novotný, espressione della componente del PCC più legata al PCUS, con Aleksander Dubček alla carica di Segretario Generale del Partito, sancì solennemente il successo del cosiddetto “nuovo corso”, cioè la strategia basata sulla diffusione di elementi di democrazia in tutti i settori della società.
Tutto ciò suscita vivissima preoccupazione nelle alte sfere del PCUS, e anche nelle capitali - da Varsavia a Berlino a Budapest - che avrebbero potuto essere scosse da analoghe spinte riformatrici.
Si badi che Dubček in realtà non si proponeva di rovesciare completamente il vecchio regime, come invece era avvenuto nell'Ungheria del 1956, perché, appunto, l'intendimento era quello di fare proprio dei comunisti i protagonisti del rinnovamento: ed il consenso popolare era l'elemento decisivo di questa strategia.

Tornando al 20 agosto del 1968, proprio quel giorno era stata convocata la Direzione del PCC, presieduta dallo stesso Dubček: all'ordine del giorno la definizione delle nuove tappe di attuazione del Programma, cioè il consolidamento delle riforme sociali, e le procedure di convocazione del XIV Congresso del partito.
Il dibattito è complesso, e tutti sono consapevoli che da quella riunione dipenderà il futuro della Cecoslovacchia: Mosca è da mesi in fibrillazione, teme che questa stravaganza del "socialismo dal volto umano" possa incrinare la solidità del blocco; qualcuno fa esplicito riferimento ad un'analisi del KGB secondo la quale la riuscita dell'esperimento cecoslovacco potrebbe addirittura produrre un effetto domino sugli altri paesi satelliti, o quantomeno avviare un processo di riapertura della dialettica politica, dagli esiti imprevedibili.
Il gruppo dirigente del PCC è coraggioso, ma non cieco: vede bene l'enorme preoccupazione dei sovietici, ricorda perfettamente Budapest, e tuttavia sottovaluta enormemente la pericolosità della situazione, senza una reale consapevolezza della qualità della crisi e dei tempi in cui essa si svilupperà.
Drammaticamente, nel cuore della notte, una telefonata interrompe la discussione: le truppe sovietiche sono entrate nella capitale.
Dubček riconosce questo clamoroso errore: "Quella notte compresi quanto profondo fosse stato il mio sbaglio: le esperienze drastiche dei giorni e dei mesi che seguirono mi fecero capire che avevo a che fare con dei gangster."

La presenza in quei giorni a Praga di numerosi giornalisti stranieri, che seguivano con curiosità e apprensione, l'evoluzione del "nuovo corso", fece sì che in poche ore facessero il giro del mondo le foto dei giovani che in piazza Venceslao e nelle altre strade di Praga discutevano animatamente coi carristi sovietici; per fortuna non si ripetè quanto era avvenuto a Budapest poco più di un decennio prima: i dirigenti cecoslovacchi rinunciarono a qualunque ipotesi di resistenza militare (che, appunto, anche vista l'enorme disparità delle forze in campo, avrebbe sicuramente portato ad un massacro) e tentarono la disperata carta della trattativa.
Dubček e gli altri principali dirigenti politici cecoslovacchi furono costretti ad imbarcarsi su un aereo militare sovietico e vennero portati a Mosca. Breznev ed i suoi li accolsero in un'atmosfera surreale: i cecoslovacchi venivano trattati come ospiti e come prigionieri al tempo stesso, perché il Kremlino capiva che non poteva risolvere la partita con la semplice brutalità usata in precedenza a Berlino, a Budapest, a Varsavia: dietro a Dubček vi era davvero la quasi totalità del paese, e il clamore suscitato in tutto il mondo dal "nuovo corso" suggeriva senz'altro di cercare una via d'uscita "diplomatica."

Le discussioni furono drammatiche ed estenuanti, ed il 26 agosto Mosca si dichiarò disponibile a varie concessioni: si trattò, in effetti, di accorgimenti tattici volti unicamente ad evitare uno scontro frontale che avrebbe messo eccessivamente in cattiva luce il Kremlino di fronte all'opinione pubblica mondiale, e infatti i dirigenti cecoslovacchi poterono ritornare a Praga, pur sapendo che ormai il loro destino - e con esso quello delle prospettive di libertà - era segnato.
Nel giro di pochi mesi tutto il gruppo dirigente rifomatore fu messo da parte e rimpiazzato da elementi stalinisti, e l’anno seguente Dubček fu espulso dal PCC: trasferitosi in Slovacchia, trovò impiego come manovale in un’azienda forestale. Dopo la caduta del regime, nel 1989, Dubček fu riabilitato ed eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco: in questa veste si batté contro la divisione della Cecoslovacchia (avvenuta alla fine del 1992) e compì il suo ultimo atto politico, rifiutandosi di firmare una legge sull’epurazione rivolta indifferentemente a tutti i passati membri del PCC, nel timore che essa avrebbe creato nel paese un pericoloso clima di vendette. Morì poco tempo dopo per le ferite riportate in un incidente stradale, avvenuto in circostanze mai del tutto chiarite.

Lo scrittore Vàclav Havel, Presidente della repubblica Ceca dalla fine del 1989 al 1992, scriverà che "il tentativo di riforma politica non fu la causa del risveglio della società, ma il suo esito ultimo [...] La Primavera di Praga è stata la proiezione finale di un lungo dramma nell'ambito dello spirito e della coscienza della società."