Quante le vittime dello stalinismo?

Ci pare di poter dire che complessivamente le vittime dello stalinismo, nell'URSS e nei paesi del blocco sovietico, dovrebbero essere state intorno ai 3 milioni (a cui occorre purtroppo aggiungere - e qui la contabilità è ancora più ardua - quelle del Grande Balzo cinese).

Ma l'argomento è talmente complesso, e controverso, che occorre - anche se molto schematicamente - cercare di mettere a fuoco vari punti.
Intanto la questione, in tutta evidenza, non è solo di carattere storiografico o statistico: sul comunismo - il grande e tragico protagonista della storia del XX secolo - lo scontro è stato (e rimane) prima di tutto politico, e la gran parte di ciò che si è detto e scritto in merito è stata (e rimane) condizionata da elementi di carattere ideologico: con l'avvertenza di intendere questo termine non come insieme di valori e di posizioni ideali, bensì nell'accezione marxiana: per Marx l’ideologia è illusione interessata che protegge se stessa nel suo essere tale, che vuole rimanere tale (è implicito il rinvio alla nozione di inconscio); l’ideologia non è menzogna cosciente, ma auto-mistificazione inconscia, auto-inganno dettato dalla paura della realtà, visione artefatta di comodo assillata dalla cattiva coscienza.
Da destra e da sinistra, insomma, a seconda delle rispettive opinioni politiche si è inteso tirare di qua o di là questa macabra coperta. E non solo da parte delle forze politiche: molti storici e giornalisti si sono prestati a una simile lugubre contabiliità, cosa che peraltro non dovrebbe sorprendere se si riflette sul ruolo nient'affatto "innocente" o neutro degli intellettuali, così com'è stato analizzato, ad esempio, da Gramsci e da Adorno.

Per quanto riguarda la storiografia marxista (o sedicente tale) possiamo individuare quattro periodi:

1. tra la morte di Lenin e la morte di Stalin (1924-1953), quando cioè la scelta di campo era totalmente priva di sfumature e la disciplina kominternista non lasciava spazio ad elaborazioni autonome (fatta salva l'eccezione degli storici legati a Trotsky - come Deutscher e Serge); basti pensare all'enorme fortuna editoriale avuta dalla Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'URSS, un vero capolavoro di dogmatismo e di falsificazione della realtà.

2. Successivamente al XX Congresso del PCUS (1956) si ha l'avvio del cosiddetto processo di destalinizzazione: finalmente si può cominciare a respirare, ma la guerra fredda richiedeva comunque di doversi schierare e quindi, pur senza gli eccessi del periodo staliniano, reticenze ed omissioni non mancarono.

3. A partire dalla metà-fine degli anni '60, anche in coincidenza col venir meno dell'URSS come paese-guida del socialismo, sia gli intellettuali che si richiamavano alla sinistra storica (come Boffa, Elleinstein, Procacci, Spriano) sia quelli che criticavano da sinistra i regimi dell'est (Bettelheim, Broué, Karol), iniziarono un deciso lavoro di ridefinizione della ricerca, riempiendo molte pagine bianche e fornendo pregevolissimi esempi di analisi (Paolo Spriano fu probabilmente il primo storico comunista ad affrontare senza remore il fenomeno staliniano, sia facendo emergere i dissidi tra Gramsci e l'Internazionale sia proponendo una quantificazione - 1.800.000 - dei comunisti fatti uccidere da Stalin).

4. Dopo il 1989 si è assistito al penoso spettacolo della transumanza ideologica, con persone fino ad allora allineate e coperte che improvvisamente scoprivano le proprie virtù liberali e financo anticomuniste: professori di casa a Botteghe Oscure (o in Place du Colonel Fabien) che traslocavano in fretta in edifici meno imbarazzanti, giornalisti che avevano imparato il mestiere all'Unità e dintorni improvvisamente fascinati dall'editoria craxiana o confindustriale (si vedano le perle esemplari ricordate in I peggiori crimini del comunismo), storici cresciuti a pane e Togliatti che s'invischiavano in falsi grossolani, addirittura giornalisti che candidamente (si fa per dire) ammetteranno poi di aver passato infomative alla CIA. Et cetera.

Rispetto a questi ultimi, chapeau ai veri intellettuali liberali (Aron, Bettiza, Carr, Koestler, Orwell, Russell, Solženytsin, ecc.), che in tempi lontani o recenti si sono coerentemente battuti contro il regime sovietico, in più di un'occasione dando prova di formidabile lucidità ed elevatissima qualità poetica.
Oltre a costoro, tuttavia, il panorama liberal-riformista era (e rimane) in buona misura affollato da personaggi poco raccomandabili: senza dilungarci, ricordiamo solo i giornalisti-storici o storici-giornalisti che hanno fatto della televisione la tribuna da cui lanciare scomuniche - in senso letterale - e dispensare Verità, spesso con filmati la cui sceneggiatura sembra scritta da qualche funzionario del Dipartimento di Stato USA. Dunque, tutto ciò non ha certo reso agevole una seria ricerca scientifica, perché da sinistra si è sostanzialmente teso a glissare sul numero delle vittime, privilegiando l'indagine - magari pregevole - sul "fenomeno" in generale, mentre sul versante opposto ci si è concentrati sulla martellante campagna fascismo = comunismo; anzi, no: il comunismo è molto peggio perché ha fatto assai più morti...
E che la festa cominci!
Come sulla questione delle foibe, l'importante non era indagare, ma épater les bourgeois, e vinceva chi sparava le cifre più clamorose. Sì, perché c'è chi ha parlato tranquillamente di 50, addirittura 100 milioni, di morti: tanto, il pubblico del Grande Fratello (povero Orwell...) si beve tutto.

Alcuni esempi più o meno sconcertanti:

    • Lo storico Robert Conquest aveva proposto la cifra di 20 milioni (13 nel corso della collettivizzazione forzata e 7 nei campi o in parte fucilati).
    • In occasione del 61° anniversario della deportazione collettiva del popolo ceceno (1944), l'Associazione per i Popoli Minacciati ha dichiarato che tra il 1917 e il 1953 furono 40 milioni le persone morte per responsabilità del regime sovietico.
    • Nell'ottobre 1994, in un discorso alla Duma, Solženytsin ha affermato che i morti furono 60 milioni.
    • Il titolo di un libro che abbiamo segnalato anche nella bibliografia suona così: Lubjanka. Comunismo. Bilancio: 80 milioni di morti.
    • Il Libro Nero del Comunismo (v. più avanti) parla di 85 milioni di vittime (a scelta fra Pol Pot e Togliatti, Che Guevara e Berija, Tito e Mao).
    • Nel corso di una conferenza stampa (gennaio 2006) il sig. Berlusconi si è esibito in un patetico coup de théatre: brandendo l'Unità del marzo 1953 sulla morte di Stalin, ha solennemente proclamato che i comunisti italiani sono complici della morte di 100 milioni di persone.

Chi offre di più?

Nel 1991 si sono aperti gli archivi segreti del PCUS, del KGB, dei Ministeri, ecc., e numerosi sono stati i ricercatori che hanno potuto consultarli, ma la natura stessa di queste fonti (spesso manipolate all'origine, o in contrasto reciproco, o strutturate con criteri difformi) rende il lavoro particolarmente complicato. Inoltre occorre tener conto che il regime ha soppresso tutti i dirigenti del Comitato statistico sovietico, ha sciolto il Dipartimento Demografico dell’Accademia delle Scienze, e ha deliberatamente alterato i dati del censimento del 1939, eliminando così un'enorme quantità di prove.
Le ricerche recenti, basate su di una più accurata consultazione degli archivi, indicano abbastanza realisticamente la cifra di 2 milioni e mezzo di deportati (non è possibile valutare con esattezza la percentuale dei morti) durante la collettivizzazione del 1932-1933 e, per il ventennio 1934-1953, la cifra più convincente è di 2 milioni di vittime dei gulag su un totale di 15 milioni di deportati.
Si veda anche l'importante saggio sulle vittime italiane, e in particolare la nota 7, che sintetizziamo qui: "L’analisi più equilibrata su questa delicata questione è stata quella di Edwin Bacon, secondo i cui calcoli, nel periodo compreso tra il 1934 e il 1952, entrarono nei campi e nelle colonie di lavoro forzato circa 18 milioni di persone. Pavel Poljan, il maggiore studioso russo delle deportazioni, calcola che furono circa 6.015.000 le persone che, tra il 1931 e il 1952, furono condannate alla deportazione."
(Solitamente il termine gulag viene usato come sinonimo di campo di prigionia, ma in realtà è un acronimo che sta per Glavnoe upravlenie ispravitelno-trudovych lagere, Direzione principale dei campi di lavoro correttivi: si tratta del dipartimento del Ministero per la Sicurezza incaricato di sovrintendere ai campi di lavoro forzato per i criminali.)

Le carestie degli anni '30 provocarono circa 6 milioni di morti, ma ha senso imputare al regime la volontà politica di far morire queste persone?
Accenneremo soltanto a questo aspetto, che è cruciale ma ancora lontano dall'essere chiarito.
C'è chi sostiene che in nessun modo i morti per fame (a partire dalle carestie della guerra civile) sono da imputare ai dirigenti sovietici, trattandosi di fenomeni, per così dire, "naturali". E chi, viceversa, sostiene che si è trattato di una vera e propria scelta politica: la gente non aveva cibo perché il governo staliniano confiscava deliberatamente le derrate in determinati territori (l'Ucraina, ad esempio) per eliminare gruppi sociali (i kulaki, cioè i contadini ricchi, e anche i piccoli agricoltori) contrari alla collettivizzazione delle campagne o etnie non favorevoli al regime. "Holomodor" è la parola ucraina per definire questo genocidio, e secondo alcuni demografi avrebbe provocato 4 milioni di morti.

Certo, se la polizia politica arrestava un contadino, la cui famiglia quindi restava priva di colui che lavorava, non si può ragionevolmente dire che solo una persona è da considerarsi come vittima. Ma se lo stato sovietico ha gestito in modo fallimentare la politica agricola e quella fiscale, provocando guasti enormi nelle campagne, coloro i quali sono morti a causa del disastro alimentare sono da considerarsi "vittime dello stalinismo?"
Sempre rispetto alle campagne: si può concordare o meno sulla scelta sovietica di privilegiare l'industrializzazione pesante e di collettivizzare la terra imponendo regole molto severe per l'approvvigionamento alimentare, ma un contadino che veniva scoperto a nascondere i prodotti, dev'essere considerato un criminale comune o un dissidente? La sua reclusione (e probabile morte) va vista come un fatto amministrativo o un delitto politico?
D'accordo con Robert Conquest, Victor Zaslavsky non ha dubbi: "La collettivizzazione fu un’operazione ideologica e non economica" e la legislazione contro i kulaki non fu "un atto giuridico bensì ideologico, che giustificava il terrore di massa. Fu una parte integrante della politica dello sterminio nei confronti di tutta la classe contadina, non soltanto dei kulaki. [...] Lo Stato prevedeva la fame, ne conosceva le dimensioni ma continuava a esportare il grano all’estero, lasciando che milioni di contadini morissero di fame. [...] Se si pensa che nel ’33, quando nelle campagne morivano milioni di contadini, l’URSS esportò 1,8 milioni di tonnellate di grano, non si può non riconoscere che quello dell’Ucraina fu un genocidio organizzato." (da liberalfondazione)

Con questa (ideo)logica si potrebbe imputare allo stalinismo la morte di chiunque, quando invece il problema è capire che Stalin ha sicuramente strutturato un micidiale sistema di potere, eliminando tutti i possibili e presunti avversari, ma in qualche decennio ha portato un paese immensamente grande e immensamente povero a condizioni generali prima impensabili (sanità, alfabetizzazione, produttività, consumi, energia, ecc.).

La politica del terrore e la politica economica spesso si sono inevitabilmente intrecciate, ma non si può ricondurre tutto alla malvagità intrinseca dello stalinismo, esattamente come non si possono giustificare i gulag sulla base dei progressi sociali raggiunti.


 

per una maggior completezza della trattazione, pubblichiamo anche l'introduzione al discusso Libro nero del comunismo: si tratta in genere di argomentazioni inaccettabili (per non parlare della fantasiosa contabilità), che tuttavia affrontano temi che la sinistra ha troppo spesso evitato, dato che i partiti comunisti, per usare la stessa espressione di Courtois, "non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore."


Stéphane Courtois

I crimini del comunismo


Si è potuto scrivere che «la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini» e la violenza del Novecento sembra confermare questa formula in modo eloquente. Certo, nei secoli precedenti pochi popoli e pochi paesi sono stati risparmiati dalla violenza di massa. Le principali potenze europee sono state implicate nella tratta dei neri; la Repubblica francese ha messo in atto una colonizzazione che, nonostante alcuni apporti positivi, è stata caratterizzata sino alla fine da episodi raccapriccianti. Negli Stati Uniti persiste una cultura della violenza che affonda le proprie radici in due crimini principali: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indiani.
Rimane, comunque, il fatto che, sotto questo aspetto, il nostro secolo sembra avere superato i precedenti. Guardandolo retrospettivamente, non ci si può esimere da una conclusione sconcertante: il Novecento è stato il secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali e il nazismo, senza dimenticare le tragedie più circoscritte dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e di tanti altri paesi. L'Impero ottomano ha proceduto, infatti, al genocidio degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata delle più irreprensibili. E la stessa piccola Svizzera deve fare i conti con il proprio passato di depositaria dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è assolutamente paragonabile a quello del genocidio. Il comunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie e ne costituisce, anzi, uno dei momenti più intensi e significativi.

Il comunismo, fenomeno fondamentale di questo Novecento, il secolo breve che incomincia nel 1914 e si conclude a Mosca nel 1991, si trova proprio al centro dello scenario storico. Un comunismo che preesisteva al fascismo e al nazismo e che è sopravvissuto a essi, toccando i quattro grandi continenti.

Che cosa intendiamo esattamente con il termine «comunismo»?
È necessario stabilire subito una distinzione fra la dottrina e la pratica. Come filosofia politica, il comunismo esiste da secoli, se non da millenni. Non è stato forse Platone, nella "Repubblica", a esporre per primo l'idea di una città ideale in cui gli uomini non fossero corrotti dal denaro e dal potere e in cui comandassero la saggezza, la ragione e la giustizia? Un pensatore e statista del rango di Tommaso Moro, cancelliere d'Inghilterra nel 1529, autore della famosa "Utopia" e morto per mano del boia di Enrico Ottavo, non è stato forse un altro precursore di quest'idea di città ideale? L'approccio utopico sembra perfettamente legittimo come strumento critico della società: esso partecipa del dibattito ideologico, ossigeno delle democrazie. Ma il comunismo di cui trattiamo in questa sede non si colloca nel mondo delle idee. È un comunismo reale, che è esistito in una determinata epoca, in determinati paesi, incarnato da leader famosi: Lenin, Stalin, Mao, Ho Chi Minh, Castro, eccetera e, più vicino alla storia nazionale francese, Maurice Thorez, Jacques Duclos, Georges Marchais.
Il comunismo reale, in qualunque misura sia stato influenzato nella sua pratica dalla dottrina comunista anteriore al 1917 - problema su cui ritorneremo - ha comunque messo in atto una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. L'ideologia è, dunque, innocente? I nostalgici e coloro che ragionano con una mentalità scolastica potranno sempre sostenere che questo comunismo reale non aveva niente a che vedere con il comunismo ideale. E sarebbe evidentemente assurdo imputare a teorie elaborate prima di Cristo, durante il Rinascimento o ancora nell'Ottocento, eventi prodottisi nel ventesimo secolo. Ma, come osservò Ignazio Silone, le rivoluzioni come gli alberi si riconoscono dai loro frutti. Non a caso i socialdemocratici russi, meglio noti come «bolscevichi», nel novembre del 1917 hanno deciso di chiamarsi «comunisti». Non a caso, ancora, hanno eretto ai piedi del Cremlino un monumento in onore di coloro che consideravano i loro precursori: Moro e Campanella.
Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo. È vero che in un arco di tempo variabile - che va da pochi anni nell'Europa dell'Est a parecchi decenni nell'URSS e in Cina - il terrore si è affievolito e i regimi si sono stabilizzati su una gestione della repressione nel quotidiano, mediante la censura di tutti i mezzi di comunicazione, il controllo delle frontiere, l'espulsione dei dissidenti. Ma la «memoria del terrore» ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi l'efficacia, della minaccia repressiva.
Nessuna delle esperienze comuniste che hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa legge: né la Cina del Grande timoniere né la Corea di Kim Il Sung né il Vietnam del «gentile zio Ho» o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che Guevara il puro, senza dimenticare l'Etiopia di Menghistu, l'Angola di Neto e l'Afghanistan di Najibullah. I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposti a una valutazione legittima e consueta né dal punto di vista storico né da quello morale.
Questo è, forse, uno dei primi tentativi di accostarsi al comunismo, interrogandosi sulla dimensione criminale come questione fondamentale e globale al tempo stesso. Si potrà ribattere che la maggior parte dei crimini rispondeva a una «legalità» di cui erano garanti le istituzioni dei regimi in vigore, riconosciuti sul piano internazionale e i cui capi venivano ricevuti con il massimo degli onori dai nostri stessi politici. Ma con il nazismo non è, forse, accaduto lo stesso?
I crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto al codice non scritto dei diritti naturali dell'uomo e non alla giurisdizione dei regimi comunisti. La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione. Nell'URSS e nelle «democrazie popolari» dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato, la società ha cominciato a uscire dall'appiattimento, la coesistenza pacifica - anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» - è diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall'origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l'idea che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di percorso» propri di questa o quell'epoca. Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell'intero arco della sua esistenza.
Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili.
Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini? Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo).
Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile. Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:

    - URSS, 20 milioni di morti,
    - Cina, 65 milioni di morti,
    - Vietnam, un milione di morti,
    - Corea del Nord, 2 milioni di morti,
    - Cambogia, 2 milioni di morti,
    - Europa dell'Est, un milione di morti,
    - America Latina, 150 mila morti,
    - Africa, un milione 700 mila morti,
    - Afghanistan, un milione 500 mila morti,
    - movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10 mila morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti. Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.
Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita nell'articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità.
Ora, un esame dell'insieme dei crimini commessi durante il regime leninista- stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a riconoscervi ciascuna di queste tre categorie. I crimini contro la pace sono definiti dall'articolo 6a e riguardano «la direzione, la preparazione, l'inizio e la continuazione di una guerra d'aggressione, o di una guerra di violazione dei trattati, degli accordi o dei patti internazionali, o la partecipazione a un piano concertato o a un complotto per la realizzazione di uno qualsiasi degli atti di cui sopra». Stalin ha innegabilmente commesso questo tipo di crimine, non foss'altro che per avere negoziato segretamente con Hitler la spartizione della Polonia e l'annessione all'URSS degli Stati baltici, della Bucovina del Nord e della Bessarabia, con i due trattati del 23 agosto e del 28 settembre 1939. Il trattato del 23 agosto, liberando la Germania dal pericolo di uno scontro sui due fronti, fu la causa diretta dello scoppio della seconda guerra mondiale. Stalin ha perpetrato un altro crimine contro la pace aggredendo la Finlandia il 30 novembre 1939. L'attacco inopinato della Corea del Nord contro la Corea del Sud il 25 giugno 1950 e l'intervento massiccio dell'esercito della Cina comunista appartengono alla stessa categoria di crimini. Anche i metodi sovversivi, ripresi talora dai partiti comunisti finanziati da Mosca, potrebbero essere assimilati ai crimini contro la pace, perché il loro impiego ha spesso portato alla guerra: un colpo di Stato comunista in Afghanistan il 27 dicembre 1979, per esempio, provocò un massiccio intervento militare dell'URSS, dando inizio a una guerra che non si è ancora conclusa.
I crimini di guerra vengono definiti, all'articolo 6b, «violazioni delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi, l'assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l'assassinio o i maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l'esecuzione capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da esigenze militari». Le leggi e i costumi della guerra sono descritti nelle convenzioni, la più nota delle quali è quella dell'Aja del 1907, che stabilisce: «In tempo di guerra, per la popolazione civile e per i belligeranti, rimangono in vigore i principi del diritto dei popoli quali risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civilizzate, dalle leggi dell'umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».
Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra. Il più impressionante rimane l'eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi fatti prigionieri nel 1939, nell'ambito della quale lo sterminio di 4500 persone a Katyn' è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai maggiore sono passati inosservati, come l'assassinio o la messa a morte nei gulag di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell'Armata rossa nella Germania occupata. Per non parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi occupati dall'Armata. Rientrano sempre nell'articolo 6b l'imprigionamento e la fucilazione o la deportazione di militanti di gruppi organizzati che combattevano apertamente contro il potere comunista: per esempio, i militari dell'organizzazione polacca di resistenza antinazista (A.K.), i membri delle organizzazioni di partigiani armati baltici e ucraini, i partigiani afgani eccetera.
L'espressione «crimine contro l'umanità» è comparsa per la prima volta il 18 maggio 1915 in una dichiarazione di Francia, Inghilterra e Russia contro la Turchia, in occasione del massacro degli armeni, definito «nuovo crimine della Turchia contro l'umanità e la civiltà».
Le atrocità naziste hanno indotto il tribunale di Norimberga a ridefinire la nozione nell'articolo 6c: «L'assassinio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione e ogni altro atto inumano commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra o, ancora, le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, qualora questi atti o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi in seguito a qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale o siano in rapporto con detto crimine». Nella sua requisitoria a Norimberga Francois de Menthon, procuratore generale francese, sottolineava la portata ideologica di questi crimini:

"Mi propongo di dimostrarvi che qualsiasi forma di crimine organizzato e di massa deriva da ciò che oserei definire un crimine contro lo spirito, e cioè da una dottrina che, negando tutti i valori spirituali, razionali o morali sui quali i popoli hanno tentato da millenni di far progredire la condizione umana, mira a respingere l'umanità nella barbarie, non più nella barbarie naturale e spontanea dei popoli primitivi, ma in una barbarie demoniaca in quanto cosciente di sé e in grado di utilizzare ai suoi fini tutti i mezzi materiali che la scienza contemporanea mette a disposizione dell'uomo. In questo attentato allo spirito consiste il peccato originale del nazionalsocialismo da cui derivano tutti i crimini. Tale mostruosa dottrina è l'ideologia del razzismo... Che si tratti del crimine contro la pace o dei crimini di guerra, non ci troviamo comunque di fronte a una criminalità accidentale, occasionale, che gli eventi potrebbero, non dico giustificare, ma perlomeno spiegare: ci troviamo di fronte a una criminalità sistematica, che deriva direttamente e necessariamente da una dottrina mostruosa, favorita con deliberata volontà dai dirigenti della Germania nazista".

Francois de Menthon precisava, inoltre, che le deportazioni destinate a fornire manodopera supplementare alla macchina bellica tedesca e quelle volte all'eliminazione degli oppositori del regime erano soltanto «una conseguenza naturale della dottrina nazionalsocialista per la quale l'uomo non ha nessun valore in sé quando non è al servizio della razza tedesca».
Tutte le dichiarazioni del tribunale di Norimberga insistevano su una delle principali caratteristiche del crimine contro l'umanità: il fatto che la potenza dello Stato fosse messa al servizio di una politica e di una pratica criminali. Ma la competenza del tribunale era limitata ai crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. Era, quindi, indispensabile estendere la nozione giuridica a situazioni che non rientrassero in quella casistica. Il nuovo Codice penale francese, entrato in vigore il 23 luglio 1992, definisce così il crimine contro l'umanità: «La deportazione, la schiavitù o la pratica massiccia e sistematica di esecuzioni capitali sommarie, di sequestri seguiti dalla scomparsa della persona rapita, della tortura o di atti disumani ispirati a motivazioni "politiche, filosofiche" [corsivo dell'Autore], razziali o religiose, e organizzati in esecuzione di un piano concertato contro un gruppo di popolazione civile». Ora, queste definizioni, in particolare quella francese recente, si attagliano a numerosi crimini commessi sotto Lenin, e specialmente sotto Stalin, e poi in tutti i paesi comunisti eccetto (con beneficio di inventario) Cuba e il Nicaragua dei sandinisti. Il presupposto sembra inconfutabile: i regimi comunisti hanno operato «in nome di uno Stato che praticava una politica di egemonia ideologica».
E proprio in nome di una dottrina, fondamento logico e necessario del sistema, vennero massacrate decine di milioni di persone innocenti a cui non si poteva rimproverare nessun atto particolare, a meno che non si riconosca come crimine il fatto di essere nobile, borghese, kulak, ucraino e persino operaio o... membro del Partito comunista. L'intolleranza attiva faceva parte del programma messo in atto.
Non è stato forse il massimo dirigente dei sindacati sovietici, Tomskij, a dichiarare il 13 novembre 1927, su «Trud»: «Nel nostro paese possono esistere anche altri partiti. Ma un principio fondamentale ci distingue dall'Occidente; si immagini una simile situazione: un partito comanda e tutti gli altri sono in prigione».
La nozione di crimine contro l'umanità è complessa e comprende crimini ben definiti. Uno dei più specifici è il genocidio. In seguito a quello degli ebrei perpetrato dai nazisti, e allo scopo di precisare l'articolo 6c del tribunale di Norimberga, la nozione è stata definita da una convenzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948: "Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con l'intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato all'incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) misure volte a ostacolare le nascite all'interno del gruppo; e) trasferimenti coatti dei figli di un gruppo a un altro".
Il nuovo Codice penale francese dà del genocidio una definizione ancora più ampia: «Il fatto, in esecuzione di un "piano concertato" tendente alla distruzione totale o "parziale" di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, "o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario" [corsivo dell'Autore]». Questa definizione giuridica non contraddice l'approccio più filosofico di André Frossard, secondo il quale «si commette un crimine contro l'umanità quando si uccide qualcuno con il pretesto che è nato».
E nel suo breve e magnifico racconto intitolato "Tutto scorre", Vasilij Grossman dice del suo personaggio, Ivan Grigorievic, di ritorno dal campo di concentramento: «È rimasto quello che era alla nascita, un uomo». Ed è esattamente questa la ragione per cui era stato perseguitato. La definizione francese permette anche di sottolineare che il genocidio non è sempre dello stesso tipo - razziale, come nel caso degli ebrei - ma può colpire anche gruppi sociali. In un libro pubblicato a Berlino nel 1924, intitolato "La Terreur rouge en Russie", lo storico russo, e socialista, Sergej Mel'gunov, citava Lacis, uno dei primi capi della Ceka (la polizia politica sovietica) che, il primo novembre 1918, diede queste direttive ai suoi sgherri: "Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che l'accusato ha fatto, in atti e parole, contro l'autorità sovietica. Chiedetegli subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione, la sua istruzione e la sua professione".
Fin dal principio Lenin e i suoi compagni si sono inquadrati in una guerra di classe spietata, in cui l'avversario politico e ideologico e persino la popolazione renitente erano considerati, e trattati, alla stregua di nemici e dovevano essere sterminati. I bolscevichi hanno deciso di eliminare, sia legalmente sia fisicamente, qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva, al loro potere egemonico, non soltanto quando quest'ultima era prerogativa di gruppi di oppositori politici, ma anche quando era guidata da gruppi sociali in quanto tali - la nobiltà, la borghesia, l'intellighenzia, la Chiesa eccetera, e categorie professionali (gli ufficiali, le guardie...) - e questa eliminazione ha spesso assunto la dimensione del genocidio. Fin dal 1920 la «decosacchizzazione» corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio: un'intera popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata in quanto tale, gli uomini venivano fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati, i paesi rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin assimilava i cosacchi alla Vandea durante la Rivoluzione francese e proponeva di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l'«inventore» del comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 «popolicidio».
La «dekulakizzazione» del 1930-1932 fu la ripresa su ampia scala della decosacchizzazione: questa volta, però, fu rivendicata da Stalin, la cui parola d'ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo non furono tutti eliminati direttamente, ma il lavoro forzato al quale vennero sottoposti, in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche possibilità di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di persone persero la vita, ma il numero esatto delle vittime non si conosce ancora. La grande carestia ucraina del 1932-1933, legata alla resistenza delle popolazioni rurali alla collettivizzazione forzata, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di persone. In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio «di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista. Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l'attuazione di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di sterminio»), l'uso dei gas e dei forni crematori, ma sottolinea una particolarità di molti regimi comunisti: l'uso sistematico dell'arma della fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora nell'ultimo decennio due dei paesi dell'Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l'Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie. È possibile fare un primo bilancio globale di questi crimini:

    - fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
    - carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;
    - deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;
    - assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;
    - eliminazione di quasi 690 mila persone durante la Grande purga del 1937-1938;
    - deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;
    - sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;
    - deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;
    - deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;
    - deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943:
    - deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;
    - deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;
    - deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;
    - lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 eccetera.

La lista dei crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi identico dai regimi di Mao Zedong, Kim Il Sung e Pol Pot, potrebbe essere estesa all'infinito.
Rimane una delicata questione epistemologica: lo storico, nel delineare e interpretare i fatti, è autorizzato a ricorrere a nozioni quali «crimine contro l'umanità» e «genocidio» che, come abbiamo visto, appartengono alla sfera giuridica? Queste nozioni non sono forse troppo legate a imperativi contingenti - la condanna del nazismo a Norimberga - per essere inserite in una riflessione storica che miri a impostare, sul medio periodo, un'analisi valida? D'altro canto, queste nozioni non sono troppo cariche di valori suscettibili di falsare l'obiettività dell'analisi storica?
Per quanto riguarda il primo punto, la storia di questo secolo ha rivelato che la pratica dello sterminio di massa da parte dello Stato o di partiti-Stato non è stata un'esclusiva nazista. La Bosnia e il Ruanda dimostrano che tali pratiche perdurano e che probabilmente costituiranno una delle principali caratteristiche del nostro secolo. In merito al secondo punto, è evidente che non si può tornare all'impostazione del diciannovesimo secolo, quando lo storico cercava di giudicare più che di capire. Ma di fronte alle immense tragedie umane, direttamente provocate da determinate concezioni ideologiche e politiche, egli può forse abbandonare ogni riferimento a una mentalità umanistica - legata alla nostra civiltà giudaico-cristiana e alla nostra cultura democratica - che si fonda, per esempio, sul rispetto della persona umana? Molti storici famosi non esitano a usare l'espressione «crimine contro l'umanità» per definire i crimini nazisti, come Jean-Pierre Azema nella voce su Auschwitz o Pierre Vidal-Naquet a proposito del processo Touvier. Ci sembra, quindi, che il ricorso a queste nozioni per caratterizzare alcuni crimini commessi dai regimi comunisti non sia illegittimo.
Oltre alla questione della responsabilità diretta dei comunisti al potere si pone anche quella della complicità. Il Codice penale canadese, rimaneggiato nel 1987, all'articolo 7 (3.77) considera che si incorre nel crimine contro l'umanità nei casi di tentativo, complicità, consiglio, aiuto, "incoraggiamento o complicità di fatto". Sono parimenti assimilati agli atti di crimine contro l'umanità - articolo 7 (3.76) - «il tentativo, il complotto, "la complicità dopo il fatto" [corsivo dell'Autore], il consiglio, l'aiuto o l'incoraggiamento riguardante il fatto stesso».
Ora, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, i comunisti di tutto il mondo e molte altre persone hanno applaudito la politica di Lenin e poi quella di Stalin. Centinaia di migliaia di uomini si sono arruolate nelle file dell'Internazionale comunista delle sezioni locali del «partito mondiale della rivoluzione». Negli anni Cinquanta-Settanta altre centinaia di migliaia di uomini hanno incensato il Grande timoniere della Rivoluzione cinese e hanno tessuto le lodi del Grande balzo in avanti della Rivoluzione culturale. Per giungere a tempi ancora più recenti, l'ascesa al potere di Pol Pot è stata salutata da un diffuso entusiasmo. Molti risponderanno che «non sapevano». Ed è vero che non era sempre facile sapere, poiché i regimi comunisti avevano fatto del segreto uno dei loro mezzi di difesa preferiti. Ma, spesso, quest'ignoranza era solo il risultato di una cecità dovuta alla fede militante: fin dagli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, molti accadimenti erano noti e inconfutabili. E se molti di questi incensatori hanno oggi abbandonato i loro idoli di ieri, lo hanno fatto nel silenzio e nella discrezione. Ma che cosa si deve pensare dell'amoralismo innato di chi abbandona nel segreto del proprio animo un impegno pubblico senza trarne la debita lezione?
Nel 1969 uno dei pionieri dello studio del terrore comunista, Robert Conquest, scriveva: "Il fatto che tante persone abbiano effettivamente «mandato giù» [la Grande purga] fu probabilmente uno dei fattori che resero possibile l'intera purga. I processi, in particolare, avrebbero riscosso scarso interesse se non fossero stati convalidati da alcuni commentatori stranieri, e dunque «indipendenti». Questi ultimi devono essere considerati corresponsabili, almeno in piccola parte, di tali omicidi politici o, in ogni caso, del fatto che essi si siano rinnovati dopo che la prima operazione, il processo Zinov'ev [nel 1936], ebbe beneficiato di un credito ingiustificato".
Se si giudica con questo metro la complicità morale e intellettuale di un certo numero di non comunisti, che cosa si dovrebbe dire della complicità dei comunisti? Non si ricorda che Louis Aragon si sia pubblicamente pentito di avere auspicato, in una poesia del 1931, la creazione di una polizia politica comunista in Francia, anche se a tratti è sembrato che criticasse il periodo stalinista. Joseph Berger, un ex dirigente del Comintern che è stato «purgato» e ha conosciuto il campo di concentramento, cita la lettera scrittagli da una ex deportata in un gulag, che rimase membro del Partito dopo avere riconquistato la libertà: "I comunisti della mia generazione hanno accettato l'autorità di Stalin. Hanno approvato i suoi crimini. Ciò è vero non soltanto per i comunisti sovietici ma anche per quelli del resto del mondo e questa macchia ci bolla individualmente e collettivamente. Possiamo cancellarla soltanto facendo in modo che non accada mai più nulla di simile. Che cosa è successo? Avevamo perso il senno o adesso siamo dei traditori del comunismo? La verità è che tutti, compresi quanti erano più vicini a Stalin, abbiamo fatto dei crimini il contrario di quello che erano. Li abbiamo cioè considerati importanti contributi alla vittoria del socialismo. Abbiamo creduto che tutto ciò che consolidava la potenza politica del Partito comunista in Unione Sovietica e nel mondo fosse una vittoria per il socialismo. Non abbiamo mai considerato che all'interno del comunismo potesse esserci conflitto fra la politica e l'etica". Berger, dal canto suo, attenua l'affermazione: "Ritengo che se si può condannare il comportamento di quanti hanno accettato la politica di Stalin, il che non fu il caso di tutti i comunisti, è più difficile rimproverare loro di non avere impedito questi stessi crimini. Credere che uomini, pur appartenenti alle alte sfere del potere, potessero contrastare i suoi piani significa non avere capito nulla del suo dispotismo bizantino". Ma Berger ha la scusante di essersi trovato nell'URSS e di essere stato, quindi, afferrato dalla macchina infernale a cui non poté sfuggire.
Ma perché i comunisti dell'Europa occidentale, che non dovettero subire direttamente l'N.K.V.D. (una sorta di ministero sovietico che aveva alle dipendenze la polizia politica), hanno continuato a tessere le lodi del sistema e del suo capo? Doveva essere ben potente il filtro magico che li condizionava!
Martin Malia, nel suo bel libro sulla Rivoluzione russa "La tragédie soviétique", svela in parte il mistero parlando del «paradosso di un grande ideale sfociato in un grande crimine». Annie Kriegel, un'altra famosa studiosa del comunismo, insisteva su quest'articolazione quasi necessaria delle sue due facce: una luminosa e l'altra oscura. Una prima risposta a questo paradosso viene da Tzvetan Todorov: "Chi vive in una democrazia occidentale vorrebbe credere che il totalitarismo sia interamente estraneo alle normali aspirazioni umane. Ma, se così fosse, non si sarebbe mantenuto tanto a lungo, attirando tanti individui nella sua orbita. Al contrario, esso è una macchina di temibile efficacia. L'ideologia comunista propone l'immagine di una società migliore e ci incita ad aspirarvi: il desiderio di trasformare il mondo in nome di un ideale non è forse parte integrante dell'identità umana?... Per di più, la società comunista priva l'individuo delle sue responsabilità: sono sempre «loro» a decidere. E la responsabilità è un fardello spesso pesante da portare... L'attrazione per il sistema totalitario, inconsciamente provata da moltissimi individui, deriva da una certa paura della libertà e della responsabilità; il che spiega la popolarità di tutti i regimi autoritari (è la tesi di Erich Fromm in 'Fuga dalla libertà'); esiste una «servitù volontaria», diceva già La Boétie".
La complicità di coloro che si sono abbandonati alla servitù volontaria non è stata e non è sempre astratta e teorica. Il semplice fatto di accettare e/o riprendere una propaganda destinata a nascondere la verità sfiorava e sfiora comunque la complicità attiva. Perché la pubblicità è l'unico modo - anche se non sempre efficace, come ha recentemente dimostrato la tragedia del Ruanda - di combattere i crimini di massa commessi in segreto, lontano da sguardi indiscreti.
L'analisi di questa realtà fondamentale del fenomeno comunista al potere - dittatura e terrore - non è facile. Jean Ellenstein ha definito il fenomeno stalinista un misto di tirannide greca e di dispotismo orientale. La formula è seducente, ma non rende il carattere moderno di quest'esperienza e la sua portata totalitaria, diversa dalle precedenti forme storiche di dittatura. Un rapido esame comparativo permetterà di comprenderne meglio la natura. Si potrebbe incominciare ricordando la tradizione russa dell'oppressione. I bolscevichi combattevano il regime terrorista dello zar, che però impallidisce di fronte agli orrori del bolscevismo al potere. I prigionieri politici dello zar avevano diritto a un vero e proprio sistema giudiziario, dove la difesa poteva esprimersi al pari, se non meglio, dell'accusa, prendendo a testimone l'opinione pubblica nazionale, inesistente nel regime comunista, e soprattutto quella internazionale. I prigionieri e i condannati godevano di un regolamento carcerario, e le condizioni di reclusione e persino di deportazione erano relativamente leggere. I deportati potevano partire con la famiglia, leggere e scrivere ciò che desideravano, andare a caccia e a pesca e incontrarsi liberamente con i compagni di sventura. Lenin e Stalin l'avevano sperimentato di persona.
Perfino le "Memorie da una casa di morti" di Dostoevskij, che tanto colpirono l'opinione pubblica al momento della pubblicazione, sembrano ben poca cosa in confronto agli orrori del comunismo. Nella Russia degli anni che vanno dal 1880 al 1914 ci furono indubbiamente sommosse e insurrezioni duramente represse da un sistema politico arcaico. Ma dal 1825 al 1917 le persone condannate a morte in Russia per le loro idee o la loro azione politica sono state 6360, di cui ne sono state giustiziate 3932 - 191 dal 1825 al 1905 e 3741 dal 1906 al 1910 -, cifra che nel marzo 1918, dopo soli quattro mesi di esercizio del potere, i bolscevichi avevano già superato. Fra il bilancio della repressione zarista e quello del terrore comunista non c'è, quindi, confronto. Negli anni Venti-Quaranta il comunismo ha violentemente stigmatizzato il terrore messo in atto dai regimi fascisti.
Un rapido esame delle cifre mostra che, anche in questo caso, le cose non sono poi così semplici. È vero che il fascismo italiano, il primo a manifestarsi e a dichiararsi apertamente «totalitario», ha imprigionato e spesso maltrattato i suoi avversari politici. Ma raramente è arrivato a uccidere e, a metà degli anni Trenta, l'Italia contava poche centinaia di prigionieri politici e diverse centinaia di confinati - in domicilio coatto nelle isole - ma, in compenso, decine di migliaia di esiliati politici.
Fino a prima della guerra il terrore nazista ha preso di mira solo pochi gruppi. L'opposizione al regime, rappresentata principalmente da comunisti, socialisti, anarchici e da alcuni sindacalisti, è stata repressa apertamente: i suoi rappresentanti sono stati incarcerati e soprattutto internati in campi di concentramento, dove hanno subito terribili angherie.
Dal 1933 al 1939 nei campi di concentramento e nelle prigioni sono stati assassinati in totale circa 20 mila militanti di sinistra, con o senza processo. A tutto ciò vanno aggiunti i regolamenti di conti interni al nazismo, come la Notte dei lunghi coltelli, nel giugno del 1934.
Un'altra categoria di vittime destinate alla morte era rappresentata dai tedeschi che si riteneva non corrispondessero ai criteri razziali dell'«ariano alto e biondo»: malati mentali, handicappati e vecchi. Hitler si è deciso a passare all'azione con lo scoppio della guerra: tra la fine del 1939 e l'inizio del 1941 sono stati sterminati in camera a gas 70 mila tedeschi, vittime di un programma di eutanasia a cui ha posto fine solo la protesta delle Chiese. I metodi di sterminio con i gas tossici messi a punto in quell'occasione sono stati utilizzati in seguito per il terzo gruppo di vittime, gli ebrei. Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35 mila internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati; 5 milioni 100 mila ebrei; 3 milioni 300 mila prigionieri di guerra sovietici; un milione 100 mila deportati morti nei campi di concentramento; parecchie centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di persone utilizzate per i lavori forzati e un milione 600 mila persone detenute nei campi di concentramento non decedute. Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine.

Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone, contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo.
Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore. I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin e dai loro seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il precorrimento.
A questo proposito Rudolf Höss, incaricato di creare il campo di Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo.
Già alla fine degli anni Venti la G.P.U. (nuovo nome della Ceka) inaugurò il metodo delle quote: ogni regione, ogni distretto doveva arrestare, deportare o fucilare una determinata percentuale di persone appartenenti a classi sociali nemiche. Queste percentuali erano fissate dalla direzione centrale del Partito. La follia pianificatrice e la mania statistica non si sono limitate all'economia, ma hanno imperversato anche nell'ambito del terrore. Fin dal 1920, con la vittoria dell'Armata rossa su quella bianca, in Crimea, si adottano metodi statistici, e addirittura sociologici: le vittime vengono selezionate secondo criteri precisi, stabiliti sulla base di questionari ai quali nessuno può sottrarsi. Gli stessi metodi sociologici saranno utilizzati dai sovietici per organizzare le deportazioni e le eliminazioni di massa negli Stati baltici e nella Polonia occupata nel 1939-1941. Il trasporto dei deportati sui carri bestiame ha dato luogo ad aberrazioni del tutto analoghe a quelle naziste: nel 1943-1944, in piena guerra, Stalin ha distolto dal fronte migliaia di vagoni e centinaia di migliaia di uomini dalle truppe speciali dell'N.K.V.D. per provvedere alla deportazione delle popolazioni del Caucaso nel giro di pochissimi giorni.
Questa logica genocida - che, per riprendere il Codice penale francese, consiste nella «distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario» - applicata dal potere comunista a gruppi individuati come nemici, a porzioni della sua stessa società, è stata portata al parossismo da Pol Pot e dai suoi khmer rossi. Il confronto fra nazismo e comunismo per quanto riguarda i rispettivi stermini può risultare sconvolgente. Eppure, Vasilij Grossman - figlio di una donna uccisa dai nazisti nel ghetto di Berdicev, autore del primo testo su Treblinka e coordinatore, insieme con altri, del "Libro nero" sullo sterminio degli ebrei in Unione Sovietica - nel racconto "Tutto scorre" fa dire a uno dei suoi personaggi a proposito della fame in Ucraina: «... lo scrivevano gli scrittori, e Stalin in persona: tutti a darci sotto su un punto solo: i kulak, i parassiti, bruciano il grano, ammazzano i bambini. E annunciarono apertamente che bisognava sollevare il furore delle masse contro di loro, annientarli tutti come classe, i maledetti». E aggiunge: «Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così anche Lenin e Stalin: i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude, a proposito dei figli dei kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei».
Ogni volta si colpiscono non tanto degli individui, quanto dei gruppi. Il terrore ha lo scopo di sterminare un gruppo individuato come nemico che, se è vero che costituisce soltanto una porzione della società, viene comunque colpito in quanto tale da una logica genocida. I meccanismi di segregazione e di esclusione del totalitarismo di classe presentano, quindi, una straordinaria somiglianza con quelli del totalitarismo di razza. La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi.
È, quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali. I misfatti leninisti, stalinisti, maoisti e l'esperienza cambogiana pongono, quindi, all'umanità, oltre che ai giuristi e agli storici, un nuovo quesito: come definire il crimine che consiste nello sterminio, per ragioni politico-ideologiche, non più di individui o di gruppi limitati di oppositori, ma di massicce porzioni della società? Bisogna limitarsi, come fanno i giuristi cechi, a definire i crimini commessi durante il regime comunista semplicemente «crimini comunisti»? O bisogna inventare una nuova denominazione? Alcuni autori anglosassoni la pensano in questo modo e hanno coniato il termine «politicidio». Che cosa si sapeva dei crimini del comunismo? Che cosa si voleva saperne? Perché si è dovuta aspettare la fine del secolo affinché questo tema potesse diventare oggetto di un'indagine scientifica?
È, infatti, evidente che lo studio del terrore stalinista e comunista in generale, paragonato allo studio dei crimini nazisti, ha un enorme ritardo da colmare, anche se nell'Est le ricerche si fanno sempre più numerose. A questo proposito non si può non rilevare con un certo stupore un forte contrasto. I vincitori del 1945 hanno legittimamente fatto del crimine, e in particolare del genocidio degli ebrei, il fulcro della loro condanna del nazismo.
Numerosi studiosi di tutto il mondo lavorano da decenni su quest'argomento, a cui sono state dedicate decine di libri e decine di film, alcuni dei quali famosissimi: su registri alquanto diversi, "Notte e nebbia" e "Olocausto", "La scelta di Sophie" e "Schindler's List". Raul Hilberg, per fare un solo nome, ha incentrato la sua opera principale sulla minuziosa descrizione delle modalità di eliminazione degli ebrei nel Terzo Reich.
Ma sul tema dei crimini comunisti non esistono studi di questo tipo. Mentre i nomi di Himmler o di Eichmann sono noti in tutto il mondo come simboli della barbarie contemporanea, quelli di Dzerzinskij, di Jagoda o di Ezov sono ignorati dai più. E per Lenin, Mao, Ho Chi Minh, e persino per Stalin, si continua ad avere un sorprendente rispetto. La lotteria di Stato francese ha addirittura commesso la leggerezza di sfruttare l'immagine di Stalin e di Mao per una delle sue campagne pubblicitarie! A chi sarebbe mai venuto in mente di usare Hitler o Goebbels per una simile operazione? L'eccezionale attenzione dedicata ai crimini hitleriani è perfettamente giustificata. Risponde alla volontà dei sopravvissuti di testimoniare, degli studiosi di comprendere e delle autorità morali e politiche di confermare i valori democratici. Ma perché le testimonianze sui crimini comunisti hanno un'eco così debole nell'opinione pubblica? Perché questo silenzio imbarazzato dei politici? E, soprattutto, perché questo silenzio accademico sulla catastrofe comunista che ha toccato, da ottant'anni a questa parte, circa un terzo dell'umanità, distribuito sui quattro continenti? Perché quest'incapacità di porre al centro dell'analisi del comunismo un fattore essenziale come il crimine, il crimine di massa, il crimine sistematico, il crimine contro l'umanità? Siamo di fronte all'impossibilità di comprendere o si tratta piuttosto del volontario rifiuto di sapere, della paura di capire? Le ragioni di questo occultamento sono molteplici e complesse. Innanzitutto, la classica e costante volontà dei carnefici di far scomparire le tracce dei loro crimini e di giustificare ciò che non potevano nascondere.
Il «rapporto segreto» di Hruscov del 1956, che ha costituito la prima ammissione dei crimini da parte dei dirigenti comunisti stessi, rimane comunque la confessione di un carnefice che tenta allo stesso tempo di mascherare e di coprire i propri crimini - come capo del Partito comunista ucraino al culmine del terrore - attribuendoli unicamente a Stalin e giustificandosi con la scusa dell'obbedienza agli ordini; di occultarne la maggior parte (parla soltanto delle vittime comuniste, molto meno numerose delle altre); di minimizzarli (li definisce «abusi commessi durante il regime di Stalin»); e infine di giustificare la continuità del sistema con gli stessi principi, le stesse strutture e gli stessi uomini. Hruscov ne offre una cruda testimonianza, quando riferisce dell'opposizione che incontrò durante la preparazione del «rapporto segreto», in particolare da parte di uno degli uomini di fiducia di Stalin: "Kaganovic era talmente accondiscendente, che avrebbe tagliato la gola anche a suo padre se Stalin glielo avesse ordinato in nome della causa, cioè della causa stalinista... Intervenne allora Kaganovic opponendosi violentemente a me sulla stessa linea. La sua posizione non era determinata da un'analisi profonda delle conseguenze che questo problema avrebbe avuto nel partito, ma soltanto dalla paura che egli aveva di lasciarci la pelle. Era mosso soltanto dal desiderio di sfuggire a ogni responsabilità per quanto era avvenuto. Se erano stati commessi dei crimini, Kaganovic voleva essere certo che non venissero scoperte le sue colpe". L'assoluta chiusura degli archivi nei paesi comunisti, il totale controllo della stampa, dei mass media e di tutte le vie di comunicazione con l'estero, la propaganda sui «successi» del regime, tutto questo dispositivo di blocco dell'informazione mirava in primo luogo a impedire che si facesse chiarezza sui crimini. Non contenti di nascondere i loro misfatti, i carnefici hanno combattuto con tutti i mezzi gli uomini che tentavano di informare l'opinione pubblica.
Diversi osservatori e analisti hanno infatti tentato di aprire gli occhi ai loro contemporanei. Dopo la seconda guerra mondiale, ciò fu particolarmente evidente in due occasioni in Francia. Dal gennaio all'aprile del 1949 si tenne a Parigi il processo che oppose Viktor Kravcenko - ex alto funzionario sovietico che aveva scritto "Ho scelto la libertà", in cui descriveva la dittatura stalinista - al giornale comunista diretto da Louis Aragon, «Les lettres francaises», che lo copriva di insulti. Dal novembre del 1950 al gennaio del 1951 si tenne, sempre a Parigi, un altro processo fra «Les lettres francaises» e David Rousset, un intellettuale ex trotzkista, che era stato deportato in Germania dai nazisti e che, nel 1946, aveva ricevuto il premio Renaudot per il libro "L'univers concentrationnaire". Il 12 novembre 1949 Rousset aveva rivolto un appello a tutti gli ex deportati dei campi nazisti perché formassero una commissione d'inchiesta sui campi sovietici ed era stato violentemente attaccato dalla stampa comunista, che ne negava l'esistenza. In seguito all'appello di Rousset, il 25 febbraio 1950, in un articolo sul «Figaro littéraire» intitolato "Pour l'enquête sur les camps soviétiques. Qui est pire, Satan ou Belzébuth?", Margaret Buber Neumann raccontava della sua duplice esperienza di deportata nei campi nazisti e sovietici. Contro tutte queste persone che lavoravano per illuminare le coscienze i carnefici hanno messo in campo, in un combattimento a tappeto, tutto l'arsenale dei grandi Stati moderni, in grado di intervenire nell'intero mondo. Hanno tentato di squalificarli, di screditarli, di intimidirli. Aleksandr Solzenicyn, Vladimir Bukovskij, Aleksandr Zinov'ev, Leonid Pljusc vennero espulsi dal paese; Andrej Saharov, esiliato a Gor'kij; il generale Petr Grigor'enko rinchiuso in un ospedale psichiatrico; Georgi Markov assassinato con un ombrello avvelenato.
Di fronte a un tale potere di intimidazione e di occultamento le vittime stesse esitavano a mostrarsi ed erano incapaci di reinserirsi in una società in cui i loro delatori e carnefici godevano di tutti gli onori. Vasilij Grossman descrive questa disperazione. A differenza della tragedia degli ebrei - in cui la comunità ebraica internazionale si è fatta carico della commemorazione del genocidio - alle vittime del comunismo e ai loro eredi è stato a lungo impossibile mantenere viva la memoria della tragedia, essendo proibita qualsiasi commemorazione o richiesta di risarcimento. Quando non riuscivano a nascondere certe verità - la pratica della fucilazione, i campi di concentramento, le carestie indotte - i carnefici si ingegnavano a giustificare i fatti, falsandoli grossolanamente. Dopo avere rivendicato il Terrore, ne fecero l'allegoria della rivoluzione: «quando si taglia la foresta, i trucioli volano», o «non si può fare la frittata senza rompere le uova». Slogan, quest'ultimo, al quale Vladimir Bukovskij controbatteva di avere visto le uova rotte, ma di non avere mai assaggiato la frittata. Il massimo dell'aberrazione fu probabilmente raggiunto con lo stravolgimento del linguaggio.
Grazie alla magia del vocabolario, il sistema dei campi di concentramento divenne un'opera di rieducazione e i carnefici educatori impegnati a trasformare gli uomini della vecchia società in «uomini nuovi». Gli "zek" - termine che indica i prigionieri dei campi di concentramento sovietici - erano «pregati» con la forza di credere in un sistema che li asserviva. In Cina il prigioniero del campo di concentramento è chiamato «studente»: deve studiare il pensiero giusto del Partito e correggere il proprio pensiero sbagliato. Come spesso accade, la menzogna non è il contrario, in senso stretto, della verità e ogni menzogna si fonda su elementi di verità. I termini stravolti dal loro significato si collocano in una visione falsata che deforma la prospettiva d'insieme: si tratta di una forma di astigmatismo sociale e politico. Ora, è facile correggere una visione distorta dalla propaganda comunista, ma è assai difficile ricondurre chi vede da una prospettiva sbagliata a una concezione intellettuale corretta. La prima impressione rimane e si trasforma in pregiudizio. Da veri judoisti, grazie alla loro incomparabile potenza propagandistica, largamente fondata sullo stravolgimento del linguaggio, i comunisti hanno utilizzato la forza delle critiche rivolte ai loro metodi terroristici per ritorcerla loro contro, rinsaldando ogni volta le file dei loro militanti e simpatizzanti con il rinnovo dell'atto di fede comunista. In tal modo hanno ritrovato il principio primo della fede ideologica, formulato a suo tempo da Tertulliano: «Credo perché è assurdo».
Nell'ambito di queste operazioni di contropropaganda alcuni intellettuali si sono letteralmente prostituiti. Nel 1928 Gor'kij accettò di andare in «escursione» nelle isole Soloveckie, il campo di concentramento sperimentale dal quale nascerà per «metastasi» (Solzenicyn) il sistema del gulag. Dall'esperienza nacque un libro in lode di Soloveckie e del governo sovietico. Uno scrittore francese, Henri Barbusse, premio Goncourt 1916, non esitò, dietro pagamento, a incensare il regime stalinista pubblicando nel 1928 un libro sulla «meravigliosa Georgia» - dove, nel 1921, Stalin e il suo accolito Ordzonikidze si erano dati a una vera e propria carneficina e dove Berija, capo dell'N.K.V.D., si distingueva per il suo sadico machiavellismo - e nel 1935 la prima biografia ufficiosa di Stalin. Più tardi, Maria Antonietta Macciocchi ha tessuto le lodi di Mao e recentemente Danielle Mitterrand ha fatto lo stesso con Fidel Castro. Cupidigia, debolezza, vanità, attrazione per la forza e la violenza, passione rivoluzionaria: qualunque sia la motivazione, le dittature totalitarie hanno sempre trovato gli adulatori di cui avevano bisogno, e la dittatura comunista non ha fatto eccezione.
Di fronte alla propaganda comunista l'Occidente ha dato prova a lungo di una straordinaria cecità, causata al tempo stesso dall'ingenuità nei confronti di un sistema particolarmente perverso, dal timore della potenza sovietica e dal cinismo dei politici e degli affaristi. La cecità ha regnato a Jalta, quando il presidente Roosevelt ha abbandonato l'Europa dell'Est nelle mani di Stalin in cambio della promessa, redatta con tutti i crismi, che quest'ultimo vi avrebbe organizzato al più presto libere elezioni. Il realismo e la rassegnazione hanno regnato a Mosca quando, nel dicembre 1944, il generale De Gaulle ha barattato l'abbandono della sventurata Polonia nelle grinfie del moloch con la garanzia della pace sociale e politica data da Maurice Thorez di ritorno a Parigi. Questa cecità è stata alimentata, e quasi legittimata, dalla convinzione dei comunisti occidentali e di molti uomini di sinistra che quei paesi stessero «costruendo il socialismo», che quell'utopia che nelle democrazie nutriva i conflitti sociali e politici «laggiù» stesse diventando una realtà, di cui Simone Weil ha sottolineato il prestigio: «Gli operai rivoluzionari sono felicissimi di avere dietro di loro uno Stato: uno Stato che dà alle loro azioni quel carattere ufficiale, quella legittimità, quella realtà, che solo lo Stato conferisce, e che al tempo stesso è situato troppo lontano (geograficamente parlando) per poterli disgustare».
All'epoca il comunismo mostrava la sua faccia luminosa: si richiamava all'Illuminismo, a una tradizione di emancipazione sociale e umana, al sogno dell'«uguaglianza reale» e della «felicità per tutti» inaugurata da Gracchus Babeuf. E la faccia luminosa occultava quasi totalmente quella oscura. All'ignoranza, voluta o meno, della dimensione criminale del comunismo si è aggiunta, come sempre, l'indifferenza dei contemporanei per i loro fratelli. Non che l'uomo abbia il cuore arido. Anzi, in molte situazioni limite sfodera risorse insospettate di solidarietà, amicizia, affetto e persino amore.
Ma, come sottolinea Tzvetan Todorov, «la memoria dei nostri lutti ci impedisce di cogliere la sofferenza altrui». E, alla fine delle due guerre mondiali, quale popolo europeo o asiatico non era occupato a curarsi le ferite di innumerevoli lutti? Le difficoltà stesse incontrate in Francia nell'affrontare la storia degli anni bui sono sufficientemente eloquenti. La storia, o piuttosto la non storia, dell'occupazione continua, infatti, a tormentare la coscienza francese. Lo stesso accade, anche se in misura minore, per la storia del periodo nazista in Germania, fascista in Italia, franchista in Spagna, per la guerra civile in Grecia eccetera. In questo secolo di ferro e fuoco sono stati tutti troppo presi dalle proprie disgrazie per compatire quelle altrui.

L'occultamento della dimensione criminale del comunismo rimanda, tuttavia, a tre ragioni più specifiche.
La prima riguarda l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione. Il superamento dell'idea di rivoluzione quale era stata concepita nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo è ancora lungi dall'essere concluso. I suoi simboli - bandiera rossa, Internazionale, pugno chiuso - risorgono ogni volta che compare un movimento sociale di una certa portata.
Che Guevara ritorna di moda. Diversi gruppi apertamente rivoluzionari continuano a essere attivi e a operare nella piena legalità, trattando con disprezzo la minima riflessione critica sui crimini dei loro predecessori e non esitando a riesumare i vecchi discorsi giustificatori di Lenin, Trotsky o Mao. Tale passione rivoluzionaria non è stata solo degli altri. Diversi autori di questo libro hanno, infatti, creduto alla propaganda comunista, un tempo.
La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo, che ha permesso ai comunisti di mascherare dietro un ardente patriottismo i loro fini ultimi, che miravano alla presa del potere.
Dal giugno 1941 i comunisti di tutti i paesi occupati sono entrati in una resistenza attiva, e spesso armata, all'occupante nazista e italiano. Come i combattenti di altre fedi, hanno pagato il prezzo della repressione con migliaia di uomini fucilati, massacrati, deportati. E si sono serviti di questi martiri per rendere sacra la causa comunista e impedire qualsiasi critica nei suoi confronti. Inoltre, durante la Resistenza molti non comunisti hanno stretto legami di solidarietà, lotta, parentela con comunisti, il che ha impedito a molti occhi di aprirsi. In Francia l'atteggiamento dei gaullisti è stato spesso dettato da questa memoria comune e incoraggiato dalla politica del generale De Gaulle, che usava l'Unione Sovietica come contrappeso agli Stati Uniti.
La partecipazione dei comunisti alla guerra e alla vittoria sul nazismo ha fatto definitivamente trionfare la nozione di antifascismo come riprova della verità a sinistra e, naturalmente, i comunisti si sono posti come i migliori rappresentanti e i migliori paladini dell'antifascismo. Quest'ultimo è diventato per il comunismo un'etichetta definitiva, in nome della quale è stato facile mettere a tacere i dissenzienti. Francois Furet ha scritto su questo punto cruciale pagine illuminanti. Dato che il nazismo sconfitto era stato bollato dagli Alleati come il Male assoluto, il comunismo è passato quasi automaticamente nel campo del Bene. Ciò risultò evidente durante il processo di Norimberga, in cui i sovietici figuravano fra i pubblici ministeri. Gli episodi imbarazzanti dal punto di vista dei valori democratici, come i patti germano-sovietici del 1939 o il massacro di Katyn', vennero quindi prontamente insabbiati. La vittoria sul nazismo fu considerata la prova della superiorità del sistema comunista. E soprattutto, nell'Europa liberata dagli angloamericani, ebbe l'effetto di suscitare un senso di gratitudine nei confronti dell'Armata rossa (di cui non si era dovuta subire l'occupazione) e un senso di colpa di fronte ai sacrifici sopportati dai popoli dell'Unione Sovietica, sentimenti che la propaganda comunista sfruttò debitamente a proprio favore.
Parallelamente, le modalità della liberazione dell'Europa dell'Est da parte dell'Armata rossa rimasero largamente ignote all'Occidente, dove gli storici fecero propri due tipi di liberazione molto diversi fra loro: uno conduceva alla restaurazione delle democrazie, l'altro apriva la strada all'instaurazione delle dittature. Nell'Europa centrale e orientale il sistema sovietico aspirava a succedere al Reich millenario e Witold Gombrowicz espresse in poche parole il dramma di questi popoli: "La fine della guerra non ha apportato la libertà ai polacchi. In questa triste Europa centrale, ha significato soltanto lo scambio di una notte con un'altra, dei carnefici di Hitler con quelli di Stalin. Nel momento in cui nei caffè parigini le anime nobili salutavano con un canto radioso «l'emancipazione del popolo polacco dal giogo feudale», in Polonia la stessa sigaretta accesa passava semplicemente di mano e continuava a bruciare la pelle umana".
Qui sta il punto di frattura fra due memorie europee. Eppure, fin dai primi tempi, alcune opere hanno rivelato il modo in cui l'URSS ha liberato dal nazismo polacchi, tedeschi, cechi e slovacchi.
L'ultima ragione dell'occultamento è più sottile e più delicata da esprimere. Dopo il 1945 il genocidio degli ebrei è apparso come il paradigma della barbarie moderna, fino a monopolizzare lo spazio riservato alla percezione del terrore di massa nel ventesimo secolo. Dopo avere negato in un primo tempo la specificità della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, i comunisti hanno capito quanto un simile riconoscimento da parte loro potesse servire a riattivare l'antifascismo. Da allora, a qualsiasi proposito e spesso anche a sproposito, non si è mai più smesso di agitare lo spettro della «bestia immonda, il cui ventre è sempre fecondo», secondo il famoso slogan di Bertolt Brecht. Più recentemente, il fatto di aver messo in evidenza la singolarità del genocidio degli ebrei, sottolineandone l'eccezionale atrocità, ha impedito di percepire altre realtà dello stesso tipo nel mondo comunista. E poi, come si poteva immaginare che coloro che con la loro vittoria avevano contribuito a distruggere un sistema genocida potessero a loro volta adottare quei metodi? La risposta più comune fu il rifiuto di ammettere un simile paradosso. La prima grande svolta nel riconoscimento ufficiale dei crimini comunisti risale al 24 febbraio 1956. Quella sera Nikita Hruscov, primo segretario, sale sulla tribuna del ventesimo Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, il P.C.U.S. È una seduta a porte chiuse, a cui assistono soltanto i delegati. In un silenzio assoluto, essi ascoltano attoniti il primo segretario del Partito distruggere sistematicamente l'immagine del «piccolo padre dei popoli», del «geniale Stalin», che per trent'anni era stato l'eroe del comunismo mondiale.
Questo rapporto, noto in seguito come il «rapporto segreto», costituisce uno dei cambiamenti di rotta fondamentali del comunismo contemporaneo. Per la prima volta un dirigente comunista di altissimo rango ammetteva ufficialmente, benché a uso esclusivo dei comunisti, che il regime che era salito al potere nel 1917 aveva conosciuto una «deriva» criminale. Le ragioni che spinsero Hruscov a infrangere uno dei principali tabù del regime sovietico sono molteplici. Il suo obiettivo principale era di imputare i crimini del comunismo unicamente a Stalin e, in questo modo, circoscrivere e rimuovere il male per salvare il regime. Nella sua decisione rientrava anche la volontà di attaccare il clan degli stalinisti, che si opponevano al suo potere in nome dei metodi del loro antico padrone. Fin dall'estate del 1957, infatti, essi vennero tutti destituiti dalle loro cariche. Ma, per la prima volta dal 1934, all'eliminazione politica non seguì un'eliminazione reale, e da questo semplice particolare si può dedurre come le motivazioni di Hruscov fossero più profonde. Lui, che per anni era stato il padrone incontrastato dell'Ucraina e a questo titolo aveva guidato e coperto stragi immani, sembrava stanco di tutto quel sangue.
Nelle sue memorie, in cui indubbiamente intende fare bella figura, Hruscov ricorda i suoi stati d'animo: «Il Congresso finirà e verranno votate delle risoluzioni pro forma, ma cosa si farà poi? Rimarranno sulla nostra coscienza le centinaia di migliaia di persone che sono morte fucilate». Tutt'a un tratto, apostrofa duramente i suoi compagni: "Quali posizioni assumeremo nei confronti di tutti coloro che sono stati arrestati o eliminati? ... Ora sappiamo che la gente che ha sofferto durante le repressioni era innocente. Abbiamo prove inconfutabili che essi, lontani dall'essere nemici del popolo, erano invece uomini e donne onesti, devoti al Partito, alla rivoluzione, alla causa leninista e all'edificazione del socialismo e del comunismo in Unione Sovietica.... Penso che sia impossibile tacere ancora. Prima o poi la gente uscirà dalle prigioni e dai campi, tornerà nelle città; e una volta a casa, racconterà ai parenti, agli amici e ai compagni cos'è avvenuto.... Perciò abbiamo l'obbligo di fare una completa confessione ai delegati sulla condotta tenuta dalla dirigenza del Partito durante gli anni in questione.... Come potremmo fingere d'ignorare quel che avvenne? ... Sappiamo che ci fu un regime di repressione e leggi arbitrarie nel Partito e noi abbiamo il dovere di dire al Congresso quel che sappiamo.... Per chiunque abbia commesso un crimine, giunge sempre il momento in cui una confessione gli può assicurare l'indulgenza anche se non l'assoluzione".
In alcuni degli uomini che avevano preso parte attiva ai crimini perpetrati durante il regime di Stalin e che, perlopiù, dovevano la promozione all'eliminazione dei loro predecessori, si faceva strada un certo rimorso; un rimorso sicuramente indotto, interessato, un rimorso da politico, ma in ogni caso un rimorso. Bisognava pure che qualcuno fermasse il massacro; Hruscov ebbe questo coraggio, anche se, nel 1956, non esitò a mandare i carri armati sovietici a Budapest.
Nel 1961, durante il Ventiduesimo Congresso del P.C.U.S., Hruscov ricordò non soltanto le vittime comuniste, ma tutte le vittime di Stalin e propose persino di erigere un monumento in loro memoria. Probabilmente aveva superato il limite invisibile al di là del quale si rimetteva in discussione il principio stesso del regime: il monopolio del potere assoluto riservato al Partito comunista. Il monumento non vide mai la luce. Nel 1962 il primo segretario autorizzò la pubblicazione di "Una giornata di Ivan Denisovic", di Aleksandr Solzenicyn. Il 24 ottobre 1964 venne brutalmente destituito da tutte le sue funzioni ma nemmeno lui fu liquidato e morì nell'anonimato nel 1971.
Tutti gli studiosi riconoscono l'importanza decisiva del «rapporto segreto», che impresse una svolta fondamentale alla traiettoria del comunismo del ventesimo secolo. Francois Furet, che era uscito dal Partito comunista francese nel 1954, scrive a questo proposito: "Appena reso noto, il «rapporto segreto» del febbraio 1956 sconvolge improvvisamente lo statuto dell'idea comunista nel mondo. La voce che denuncia i crimini di Stalin non viene più dall'Occidente, ma da Mosca e dal sancta sanctorum di Mosca, il Cremlino. Non è più quella di un comunista messo al bando, ma del primo dei comunisti nel mondo, il capo del partito dell'Unione Sovietica. Non è più lambita dal sospetto che colpisce il discorso degli ex comunisti, ma è rivestita dell'autorità suprema che il sistema ha assegnato al suo capo... L'enorme impatto del «rapporto segreto» nasce dal fatto di non avere contraddittori".
L'evento era tanto più paradossale in quanto, fin dall'origine, molti contemporanei avevano messo in guardia i bolscevichi contro i pericoli del loro modo di procedere. Fin dal 1917-1918, infatti, all'interno dello stesso movimento socialista si erano scontrati coloro che credevano nella «grande luce dell'Est» e coloro che criticavano implacabilmente i bolscevichi. La disputa verteva essenzialmente sul metodo di Lenin: violenza, crimini e terrore. Mentre dagli anni Venti agli anni Cinquanta il lato oscuro dell'esperienza bolscevica è stato denunciato da molti testimoni, vittime e osservatori qualificati, in numerosi libri e articoli, bisognerà aspettare che gli stessi comunisti al potere riconoscano, sia pur limitatamente, questa realtà perché una porzione sempre più estesa dell'opinione pubblica cominci a prendere coscienza del dramma. Un riconoscimento parziale, poiché il «rapporto segreto» affrontava soltanto la questione delle vittime comuniste; ma un riconoscimento comunque, che costituiva una prima conferma delle testimonianze e degli studi precedenti e rafforzava un sospetto diffuso da tempo: il comunismo aveva provocato in Russia un'immensa tragedia. I dirigenti di molti «partiti fratelli» non furono immediatamente convinti che bisognasse imboccare la via delle rivelazioni.
Di fronte al precursore Hruscov passarono persino per retrogradi: si dovette attendere il 1979 perché il Partito comunista cinese distinguesse nella politica di Mao «grandi meriti», fino al 1957, e «grandi errori» successivamente. I vietnamiti affrontano la questione solo attraverso la condanna del genocidio perpetrato da Pol Pot. Fidel Castro, invece, nega le atrocità commesse sotto la sua egida.
Fino a quel momento la denuncia dei crimini comunisti era venuta soltanto dai loro nemici o dai dissidenti trotzkisti o anarchici; e non era stata particolarmente efficace. I superstiti dei massacri comunisti ebbero la stessa fortissima volontà di testimonianza dei superstiti dei massacri nazisti, ma vennero ascoltati poco o niente, soprattutto in Francia, dove l'esperienza concreta del sistema dei campi di concentramento sovietici toccò direttamente soltanto piccoli gruppi, come i «Malgré-nous» dell'Alsazia-Lorena. Perlopiù, le testimonianze, i flash della memoria, i lavori delle commissioni indipendenti create per iniziativa di pochi individui - quali la Commissione internazionale sul regime dei campi di concentramento di David Rousset, o la Commissione per la verità sui crimini di Stalin - sono stati coperti dalla grancassa della propaganda comunista, accompagnata da un silenzio vile o indifferente. Questo silenzio, che succede generalmente a qualche momento di sensibilizzazione dovuto alla comparsa di un'opera - "Arcipelago Gulag" di Solzenicyn - o di una testimonianza più inconfutabile delle altre - "I racconti di Kolyma" di Varlam Scialamov o "L'utopie meurtrière" di Pin Yathay - è la manifestazione della resistenza di porzioni più o meno estese delle società occidentali di fronte al fenomeno comunista.
Esse si sono finora rifiutate di guardare in faccia la realtà, di ammettere, cioè, che il sistema comunista, pur in diversa misura, comporta una dimensione fondamentalmente criminale. E con tale rifiuto partecipano della menzogna, nel senso in cui la intende Nietzsche: «Rifiutare di vedere qualcosa che si vede, rifiutare di vedere qualcosa come lo si vede».

Nonostante tutte queste difficoltà ad affrontare la questione, molti studiosi si sono cimentati nell'impresa. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta, in mancanza di dati più attendibili, accuratamente occultati dal regime sovietico, la ricerca si è basata essenzialmente sulle testimonianze dei transfughi. Suscettibili di essere nutrite dalla vendetta e dalla denigrazione sistematica, o di essere manipolate da un potere anticomunista, queste testimonianze - contestabili da parte degli storici, come qualsiasi testimonianza - venivano regolarmente screditate dagli incensatori del comunismo. Che cosa bisognava pensare, nel 1959, della descrizione del gulag da parte di un transfuga d'alto rango del K.G.B., così come veniva riportata in un libro di Paul Barton? E che cosa pensare dello stesso Paul Barton, il cui vero nome era Jirì Veltrusky, anch'egli esiliato e organizzatore insieme ad altri dell'insurrezione antinazista di Praga nel 1945, costretto a fuggire dal suo paese nel 1948?
Ora, il confronto con gli archivi ormai aperti dimostra che quell'informazione del 1959 era assolutamente attendibile. Negli anni Settanta e Ottanta la grande opera di Solzenicyn "Arcipelago Gulag" provocò un vero e proprio shock nell'opinione pubblica. Si trattò probabilmente di uno shock letterario, dovuto alla genialità del cronista, più che della presa di coscienza generale dell'orribile sistema che egli descriveva. Eppure Solzenicyn faticò ad abbattere il muro della menzogna, lui che nel 1975 era stato paragonato da un giornalista di un grande quotidiano francese a Pierre Laval, Doriot e Déat «che accoglievano i nazisti come liberatori». La sua testimonianza è stata, tuttavia, decisiva per una prima presa di coscienza, come lo furono quelle di Scialamov sulla Kolyma o quella di Pin Yathay sulla Cambogia.
Più recentemente ancora, Vladimir Bukovskij, una delle principali figure della dissidenza sovietica all'epoca di Breznev, ha lanciato un nuovo grido di protesta richiedendo, nel libro "Jugement à Moscou", l'istituzione di un nuovo tribunale di Norimberga per giudicare le attività criminali del regime. Il saggio, in Occidente, è stato accolto con favore dalla critica, ma ha avuto uno scarso successo di pubblico. Contemporaneamente si assiste a una fioritura di opere che riabilitano Stalin. Quale motivazione, sul finire di questo ventesimo secolo, può spingere all'esplorazione di un campo così tragico, così cupo, così polemico? Oggi gli archivi non soltanto confermano queste testimonianze puntuali, ma permettono di andare molto più in là. Gli archivi interni del sistema di repressione dell'ex Unione Sovietica, delle ex democrazie popolari e della Cambogia mettono in luce una realtà terribile: il carattere massiccio e sistematico del terrore che, in molti casi, è sfociato nel crimine contro l'umanità.

È giunto il momento di affrontare in modo scientifico, documentato con fatti inconfutabili e libero da implicazioni politico-ideologiche, il problema ricorrente che tutti gli osservatori si sono posti: che ruolo ha il crimine nel sistema comunista? In questa prospettiva, quale può essere il nostro apporto scientifico?
Il nostro intervento risponde in primo luogo a un dovere di storia. Per lo storico nessun tema è tabù e le implicazioni e pressioni di qualunque tipo - politiche, ideologiche, personali - non devono impedirgli di seguire la strada della conoscenza, dell'esumazione e dell'interpretazione dei fatti, soprattutto quando questi ultimi siano stati a lungo e volontariamente sepolti nel segreto degli archivi e delle coscienze. Ora, questa storia del terrore comunista costituisce una delle componenti principali di una storia europea che voglia esaurire completamente la grande questione del totalitarismo. Quest'ultimo ha conosciuto una versione hitleriana ma anche una versione leninista e stalinista, e non si può più accettare una storia incompleta, che ignori il versante comunista.
Così come non si può più assumere la posizione di ripiegamento che consiste nel ridurre la storia del comunismo unicamente alla dimensione nazionale, sociale e culturale. Tanto più che questa partecipazione al fenomeno totalitario non si è limitata all'Europa e all'episodio sovietico, ma ha toccato anche la Cina maoista, la Corea del Nord e la Cambogia di Pol Pot.
Ogni comunismo nazionale è stato tenuto legato con una sorta di cordone ombelicale alla matrice russa e sovietica, pur contribuendo a diffondere il movimento a livello mondiale. La storia che abbiamo di fronte è quella di un fenomeno che si è sviluppato in tutto il mondo e che riguarda tutta l'umanità. Il secondo dovere al quale risponde quest'opera è un dovere di memoria. È un obbligo morale onorare la memoria dei morti, soprattutto quando sono le vittime innocenti e anonime di un moloch dal potere assoluto che ha cercato di cancellarne persino il ricordo. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del centro del potere comunista a Mosca, l'Europa, matrice delle esperienze tragiche del ventesimo secolo, sta ricomponendo una memoria comune; anche noi possiamo portare il nostro contributo.
Gli autori di questo libro sono essi stessi latori di questa memoria: chi più vicino all'Europa centrale per vicende di vita personale, chi all'idea e alla pratica rivoluzionaria per via di un impegno politico contemporaneo al Sessantotto o più recente. Questo doppio dovere, di memoria e di storia, si iscrive in ambiti molto diversi. In alcuni casi tocca paesi in cui il comunismo non ha praticamente mai avuto peso, né sulla società né sul potere: Gran Bretagna, Austria, Belgio eccetera. In altri, si manifesta in paesi in cui il comunismo è stato una potenza temuta - gli Stati Uniti dopo il 1946 - o temibile, anche se non è mai salito al potere: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. In altri casi ancora, si impone con forza in paesi in cui il comunismo ha perso il potere che aveva detenuto per diversi decenni: Europa dell'Est, Russia. Infine, vacilla pericolosamente laddove il comunismo è ancora al potere: Cina, Corea del Nord, Cuba, Laos e Vietnam.
L'atteggiamento dei contemporanei di fronte alla storia e alla memoria è diverso in ognuna di queste situazioni. Nei primi due casi essi si limitano a un processo relativamente semplice di conoscenza e di riflessione. Nel terzo caso si trovano di fronte alle necessità imposte dalla riconciliazione nazionale, con o senza punizione dei carnefici; a questo proposito, la Germania riunificata offre probabilmente l'esempio più sorprendente e «miracoloso»; si pensi al disastro iugoslavo. Ma anche la Cecoslovacchia, diventata Repubblica ceca e Slovacchia, la Polonia e la Cambogia conoscono bene le sofferenze della memoria e della storia del comunismo. Un certo grado di amnesia, spontanea o ufficiale, può sembrare indispensabile per curare le ferite morali, psichiche, affettive, personali e collettive provocate da più di mezzo secolo di comunismo. Laddove quest'ultimo è ancora oggi al potere, i carnefici o i loro eredi o organizzano una negazione sistematica, come a Cuba o in Cina, o addirittura continuano a rivendicare il terrore quale metodo di governo, come nella Corea del Nord.
Questo dovere di storia e di memoria ha innegabilmente una portata morale. Qualcuno potrebbe, però, obiettarci: «Chi vi autorizza a definire il Bene e il Male?». Secondo i criteri che le sono propri, esattamente a questo mirava la Chiesa cattolica quando papa Pio XI condannò con due encicliche distinte, pubblicate a pochi giorni di distanza l'una dall'altra: il nazismo, "Mit brennender Sorge" del 14 marzo 1937, e il comunismo, "Divini Redemptoris" del 19 marzo 1937. Quest'ultima affermava che Dio aveva dotato l'uomo di prerogative: «Il diritto alla vita, all'integrità del corpo, ai mezzi necessari all'esistenza; il diritto di tendere al suo fine ultimo nella via tracciata da Dio; il diritto d'associazione, di proprietà e il diritto di valersi di questa proprietà». E anche se si può denunciare una certa ipocrisia della Chiesa, che avallava l'arricchimento eccessivo di alcuni in virtù dell'espropriazione di altri, il suo appello al rispetto della dignità umana rimane comunque essenziale. Già nel 1931, nell'enciclica "Quadragesimo anno", Pio XI aveva scritto: "È insito nell'insegnamento e nell'azione del comunismo un doppio obiettivo, che esso persegue non in segreto e per vie traverse, ma apertamente, alla luce del sole e con tutti i mezzi, anche i più violenti: una lotta di classe implacabile e la totale scomparsa della proprietà privata. Nel perseguire questo scopo, non c'è nulla che non osi, nulla che rispetti; laddove ha preso il potere, si dimostra selvaggio e disumano a un livello che si stenta a credere e che ha del prodigioso, come testimoniano i terribili massacri e le rovine che ha accumulato in immensi paesi dell'Europa orientale e dell'Asia". L'ammonimento era particolarmente significativo, in quanto proveniva da un'istituzione che, per secoli e in nome della sua fede, aveva giustificato il massacro degli Infedeli, sviluppato l'Inquisizione, imbavagliato la libertà di pensiero e che avrebbe appoggiato regimi dittatoriali come quello di Franco o di Salazar. Tuttavia, se la Chiesa nel dire questo non faceva che tener fede al proprio ruolo di censore morale, quale deve, quale può essere il discorso dello storico di fronte al racconto eroico dei partigiani del comunismo o a quello patetico delle sue vittime?
Nelle "Memorie d'oltretomba" Francois René de Chateaubriand scriveva: "Quando, nel silenzio dell'abiezione, si sente rimbombare soltanto la catena dello schiavo e la voce del delatore; quando tutto trema di fronte al tiranno, e incorrere nel suo favore è altrettanto pericoloso che meritarne la disgrazia, appare lo storico, incaricato della vendetta dei popoli. Invano Nerone prospera, nell'impero è già nato Tacito". Lungi da noi l'idea di farci sostenitori dell'enigmatica «vendetta dei popoli», alla quale nemmeno Chateaubriand credeva più alla fine della sua vita; ma, al suo modesto livello, lo storico diventa, quasi senza volerlo, il portavoce di coloro che, a causa del Terrore, si sono trovati nell'impossibilità di dire la verità sulla loro condizione. È lì per fare opera di conoscenza: il suo primo dovere è stabilire fatti ed elementi di verità che diventeranno conoscenza. Inoltre, il suo rapporto con la storia del comunismo è particolare: è costretto a farsi storiografo della menzogna. E, anche se l'apertura degli archivi gli fornisce i materiali indispensabili, deve stare continuamente all'erta, dal momento che molte questioni complesse sono, per loro natura, oggetto di controversie spesso viziate da secondi fini. Tuttavia questa conoscenza storica non può prescindere da un giudizio che dipende da pochi valori fondamentali: il rispetto delle regole della democrazia rappresentativa e, soprattutto, il rispetto della vita e della dignità umana. È questo il metro con cui lo storico giudica gli attori della storia. A queste ragioni generali, che stanno alla base di un lavoro di memoria e di storia, si è aggiunta per alcuni una motivazione personale. Alcuni autori di questo libro non sono stati estranei in passato al fascino del comunismo. Talvolta sono stati anche parte attiva, al loro modesto livello, del sistema comunista, sia nella versione ortodossa leninista-stalinista, sia in quelle annesse e dissidenti (trotzkista, maoista). E se rimangono legati alla sinistra - e proprio in virtù di questo fatto - sono costretti a riflettere sulle ragioni della loro cecità. Questa riflessione ha preso anche le vie della conoscenza, tracciate dalla scelta dei loro argomenti di studio, dalle loro pubblicazioni scientifiche e dalla loro collaborazione con diverse riviste: «La nouvelle alternative», «Communisme».
Questo libro è un ulteriore momento della loro riflessione. Una riflessione che continua a impegnarli in quanto hanno coscienza del fatto che non bisogna lasciare a un'estrema destra, sempre più presente, il privilegio di dire la verità; i crimini del comunismo vanno analizzati e condannati in nome dei valori democratici, non degli ideali nazionalfascisti. Questo approccio implica un lavoro comparativo, dalla Cina all'URSS, da Cuba al Vietnam. Per il momento non disponiamo di una documentazione omogenea. In alcuni casi, gli archivi sono aperti, o semiaperti, in altri no. Ma non ci è sembrata una ragione sufficiente per rimandare il lavoro; ne sappiamo abbastanza, e da fonte «sicura», per lanciarci in un'impresa che, pur non avendo alcuna pretesa di essere esauriente, si definisce pioniera e desidera inaugurare un grande cantiere di ricerca e di riflessione. Abbiamo dato avvio a una prima recensione di una quantità di fatti, a un primo approccio che, una volta concluso, meriterà di essere sviluppato in ben altre opere. Ma bisogna pur incominciare, puntando l'attenzione soltanto sui fatti più chiari, più inconfutabili, più gravi.

Questo libro contiene molte parole e poche immagini. È questo uno dei punti critici dell'occultamento dei crimini del comunismo: in una società mondiale ipermediatica, in cui per l'opinione pubblica fa testo soltanto l'immagine, fotografica o televisiva, disponiamo di pochissime fotografie d'archivio sul gulag o il laogai, mentre sulla dekulakizzazione o la carestia del Grande balzo in avanti non ne abbiamo neanche una. I vincitori di Norimberga hanno potuto fotografare e filmare a piacimento le migliaia di cadaveri del campo di Bergen-Belsen e le fotografie scattate dai carnefici stessi, come quella del tedesco che spara a freddo su una donna con il figlio in braccio, sono state ritrovate. Per il mondo comunista, in cui il terrore era organizzato nel più rigoroso segreto, non esiste niente di simile. Il lettore non si accontenti dei pochi documenti iconografici qui riuniti. Dedichi il tempo necessario a prendere coscienza, pagina dopo pagina, del calvario subito da milioni di uomini. Compia l'indispensabile sforzo mentale per rappresentarsi ciò che fu quest'immensa tragedia che continuerà a segnare la storia mondiale per i decenni a venire.
Gli si porrà, allora, il quesito fondamentale: perché? perché Lenin, Trotsky, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell'umanità: «Non uccidere»? Tenteremo di rispondere a questa domanda alla fine del libro.