inizio rosso e giallo


Claudio Castellacci

La talpa, le Carré, i cinque di Cambridge



Giovanni il Quadrato, meglio conosciuto come John le Carré, a sua volta pseudonimo di David John Moore Cornwell, entrò come “agente coperto” a far parte del Military Intelligence, Section 5 (MI5), il controspionaggio britannico, intorno all’inizio degli anni cinquanta, all’epoca in cui ancora studiava a Oxford, al Lincoln College.
Fu solo nel 1958 che David Cornwell, non ancora le Carré, entrò a far parte a tutti gli effetti dell’MI5 dove conobbe John Michael Ward Bingham, settimo barone di Clanmorris, agente segreto durante la seconda guerra mondiale passato alla letteratura poliziesca che, insieme Vivian Hubert Green, rettore del Lincoln College di Oxford, diventerà il modello su cui, qualche anno più avanti, Cornwell–le Carré, plasmerà la figura di George Smiley, l’anti James Bond per eccellenza, il personaggio che lo trasformerà in uno degli scrittori di spionaggio più letti ed amati al mondo. George Smiley apparirà in Chiamata per il morto (1961), ma sarà con il secondo romanzo, La spia che venne dal freddo (1963), dove pure George Smiley ha solo una piccola parte, che entrambi, autore e personaggio, prenderanno il volo per una vita di successi planetari.
Questi romanzi, Cornwell – che per ovvi motivi di privacy si era trovato il nome di penna di John le Carré (Giovanni il Quadrato, appunto) – li aveva scritti nel priodo in cui dall’MI5 era passato al Military Intelligence, Sezione 6 (MI6), il servizio segreto con compiti di spionaggio all’estero, oggi conosciuto come Secret Intelligence Service (SIS). Vi resterà fino al 1964, anno in cui fece la scelta di passare alla scrittura a tempo pieno.
La scelta di le Carré fu dovuta anche a uno dei più gravi scandali che abbia mai attraversato il servizio segreto britannico: la scoperta di una rete di agenti doppi al soldo del KGB sovietico (conosciuti come i Cambridge Five, i cinque di Cambridge) capeggiati da Kim Philby che aveva passato ai sovietici informazioni vitali per la Gran Bretagna fra cui decine di liste di nomi di agenti coperti dove appariva, appunto, il nostro Cornwell–le Carré.

La figura di Kim Philby sarà il modello letterario per il personaggio del traditore al centro dell’indagine di George Smiley in uno dei più bei romanzi di le Carré, La talpa, la cui trasposizione cinematografica – con Gary Oldman nella parte di Smiley – è uscita proprio in questi giorni sugli schermi italiani dopo essere stata presentata con successo all’ultimo Festival di Venezia.
Un film da non perdere. Un film che ricostruisce con maniaca ossessione le atmosfere degli anni settanta, di uno spionaggio senza pistolettate, inseguimenti, esplosioni, effetti speciali, belle maliarde, agenti muscolosi e depilati, dove i cattivi sono cattivi e i buoni sono altrettanto cattivi, ma lo sono per difendere lo schema morale dell’occidente.
Le Carré non mitizza certo i professionisti dei servizi segreti: già in La spia che venne dal freddo uno dei personaggi li definisce «una squallida processione di pazzi vanitosi, traditori, omossessuali, sadici e ubriaconi, gente che gioca ai cowboy e agli indiani per riuscire a movimentare in qualche modo la propria vita meschina». E come vedremo ci aveva proprio azzecato. O magari sapeva già tutto, già perché, come vedremo, quella battuta: «gente che gioca ai cowboy e agli indiani», sarà poi ripetuta da una spia che era già nel mirino dell’MI6 ai tempi di le Carré, ma che verrà smascherata solo anni più tardi quando l’Inghilterra si ritroverà scossa da un ennesimo scandalo di spionaggio, che altro non era che il seguito di quello dei Cambridge Five e di Kim Philby.
La mattina del 15 novembre 1979, infatti, l’Inghilterra avrebbe appreso che sir Anthony Blunt, il curatore della collezione personale dei dipinti della Regina, era stato una spia russa.
Vent’anni dopo questa storia sarebbe stata raccontata in un romanzo, L’intoccabile (Guanda editore, 2000), scritto da un altro grande della letteratura d’oltre Manica: John Banville. All’epoca dell’uscita del libro, lo avevo intervistato e cercato di ricostruire una storia incredibile che molti volevano tenere in naftalina e oggi è opportunamente dimenticata. Eccone la ricostruzione.

Il fantomatico "quarto uomo" dei "Cinque di Cambridge"

Il primo giorno di una nuova vita ha luci, sapori, suoni, frenesie diverse. Sia che si tratti di un nuovo amore, che della diagnosi di una malattia incurabile. Quella mattina del 15 novembre 1979, a settantadue anni, per sir Anthony Blunt il primo giorno di nuova vita deve essere stato a dir poco febbrile. Il fatto era che, per sir Anthony, nuovi amori non se ne prospettavano e la malattia incurabile gliel’avevano già diagnosticata e lui, per tutta risposta, l’aveva affogata nel gin.
Era la pubblica ignominia che non riusciva a gestire. Già, perché quella mattina l’allora primo ministro, signora Margaret Thatcher, si apprestava ad annunciare alla nazione inglese che sir Anthony Blunt, durante la seconda guerra mondiale, era stato una spia russa, un traditore. Proprio quel Blunt curatore della collezione personale dei dipinti della Regina, una delle massime autorità mondiali su Poussin, direttore dell’istituto Warburg, nonché della fondazione Courtauld – due delle più influenti istituzioni mondiali in campo artistico.
Sir Anthony Blunt, dirà la signora Thatcher, era reo confesso, ma il governo che l’aveva preceduta gli aveva garantito l’immunità in cambio di collaborazione. Sì, sir Anthony era stato il fantomatico “Quarto uomo” del circolo di spie conosciuto come “i cinque di Cambridge” – tutti provenivano dai circoli più elitari di quell’università – dove gli altri compari erano: Guy Francis de Moncy Burgess, figlio di un ufficiale di marina; Harold Adrian Russel Philby, meglio conosciuto col nome di battaglia di Kim; Donald Duart MacLean, figlio di un ministro liberale; John Cairncross, che era l’unico vero proletario del gruppo, uno che parlava con un rozzo accento scozzese che lo avrebbe tenuto lontano dai circoli aristocratici, uno che detestava Blunt anche se fu proprio Blunt a segnalarlo allo spionaggio sovietico per riconosciute qualità professionali. Cairncross era il “Quinto uomo”, l’ultimo a venire scoperto e il più pericoloso del gruppo: documenti segreti recentemente declassificati indicano che fu lui a fornire ai russi le informazioni su come costruire la loro prima bomba atomica.
Le imprese spionistiche del gruppo risalivano ai primi anni trenta e andarono avanti ben dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nessuno dei cinque fu mai sottoposto a processo perché, a parte Blunt, restio ad abbandonare il suo mondo di privilegi e, nello stesso tempo, sicuro di avere garantita l’immunità, tutti gli altri ripararono in Unione Sovietica dove furono accolti da eroi.

Il giornalista impiccione: chi è "Maurice"?

La decisione di Blunt di collaborare con il controspionaggio britannico risaliva al 1964 e prevedeva un accordo di totale immunità. Il tutto sarebbe rimasto fra le mura dello spionaggio inglese se, nell’estate del 1976, il giornalista radiofonico della BBC, Andrew Boyle, non avesse avuto l’incarico, dall’editore Hutchinson, di scrivere una storia sulle spie di Cambridge che uscì tre anni più tardi con il titolo The Climate of Treason. Boyle era al corrente delle voci che giravano intorno al nome di Blunt e prese a lavorare alla tesi che sir Anthony fosse, appunto, il «quarto uomo». Non riuscendo a trovare delle prove conclusive, nel libro, Blunt veniva indicato col nome di “Maurice” – citazione da un romanzo di E.M.Forster dove il protagonista è un accademico omosessuale di Cambridge che, come Blunt, aveva tradito gli ideali della sua classe privilegiata.
A ridosso dell’uscita del libro cominciarono, sulla stampa, le prime indiscrezioni, le prime domande imbarazzanti: chi è Maurice? Maurice è Anthony Blunt? A queste domande Boyle, temendo possibili ritorsioni legali, rispondeva che l’unica fonte autorizzata a rispondere era il governo. Alla fine, visto che anche il governo non riusciva più a tenere lo scandalo soffocato, Blunt fu dato in pasto al pubblico.
Per Blunt il peggio non era essere esposto al pubblico ludibrio, bensì essere privato del titolo nobiliare, essere costretto a dimettersi dalle prestigiose istituzioni culturali che dirigeva, dover abbandonare l’incarico di curatore della collezione d’arte della regina. Blunt, l’intoccabile, era divenuto un paria.

Entra in scena lo scrittore John Banville

È proprio dalla figura di Blunt, che John Banville, raffinatissimo scrittore irlandese, ha preso spunto per il romanzo di cui accennavamo poc’anzi, L’intoccabile, un gioco semi-biografico dove l’uomo Blunt si trasforma letterariamente nel suo doppio Victor Maskell: entrambi spie per noia, spie per gioco; entrambi omosessuali – nel gruppo lo erano tutti meno Philby. Certo Banville si permette piccole licenze letterarie rispetto al suo modello umano, e il risultato è, comunque, più forte e devastante della biografia canonica, piena di dati e note a margine, come lo fu, per esempio, Conspiracy of Silence: la vita segreta di Anthony Blunt, scritto, a metà degli anni ottanta, dai giornalisti Barrie Penrose e Simon Freeman.
Nel libro Victor Maskell, come sir Anthony nella vita vera, viene smascherato come spia e traditore. Annota Victor, nelle pagine del libro: «Mi sento come un bambino alla fine di una festa: una palpitazione nella regione del diaframma e una sorta di frenesia in tutto il corpo. L’eccitazione unita al terrore è una miscela inebriante. La pubblica ignominia è una strana cosa. Non mi riconosco nella versione pubblica di me che viene messa in giro proprio adesso. Oggi ho mantenuto la calma davanti a quel branco di sciacalli dei giornalisti. Sono stato grandioso. Gelido, asciutto, equilibrato. Sono un grande attore, è questo il segreto del mio successo».
Banville fa entrare in scena il personaggio di Miss Vandeleur, giornalista che vuole scrivere un articolo su Maskell (l’alter ego di Blunt) e chiede: «Perchè l’ha fatto?». La risposta è identica a quella realmente data da Blunt ad un amico, membro della fondazione Coultard, che gli aveva chiesto la stessa cosa: «Cow-boy e indiani, mio caro, cow-boy e indiani». Bisogno di divertirsi, paura della noia, un grande gioco in cui i sentimenti politici c’entravano ben poco. Più che l’attrazione verso l’Unione Sovietica, dietro quelle scelte, c’era piuttosto l’odio che l’aristocrazia inglese nutriva verso i barbari americani. Spiega Maskell a Miss Vandeleur: «Per l’odio per l’America, naturalmente. Deve capire, l’occupazione americana dell’Europa era per molti di noi una calamità peggiore di un’eventuale vittoria tedesca. I nazisti, almeno, erano un nemico chiaro e visibile.»

Intervista a Banville

Il perché dell’immunità a Blunt: c’era un accordo segreto tra Hitler e il Duca di Windsor?
Banville, come spiega il fascino che l’ideologia populista comunista riusciva ad avere su un gruppo così sofisticato di aristocratici e intellettuali inglesi? Era veramente, come dice il suo personaggio, una reazione contro la crescente egemonia americana? Era una reazione inconsunta di gente cresciuta per governare un impero che, all’improvviso, si ritrova in uno stagno in cui a comandare sono gli americani?


«Sì, credo che la loro sia stata, fondamentalmente, una reazione anti-americana. Vedevano l’invasione americana dell’Europa non certo migliore di quella dei nazisti. Come dice Maskell, sarebbe stato meglio che la Germania avesse vinto la guerra perché, almeno, avremmo trattato con un nemico di cui conoscevamo le caratteristiche. Ma c’era anche qualcos’altro. Questa era una generazione di giovani che aveva scampato la prima guerra mondiale, non erano morti, come molti loro coetanei e come tutti i giovani nell’Inghilterra degli anni Venti si consideravano dei sopravvissuti e convivevano con forti sensi di colpa. Si sentivano traditi dalla generazione precedente, quella dei generali, dei padri e l’unico modo di rivalsa era uccidere i padri, passando ad una religione, ad una ideologia totalmente opposta a quella in cui loro credevano. La cosa di cui sono quasi certo è che nessuno di loro fosse, comunque, marxista convinto».
Sir Anthony Blunt non fu mai processato nonostante molti indizi di colpevolezza puntassero diritto su di lui. Come mai?

«Fin dall’inizio degli anni Sessanta il controspionaggio inglese sapeva che sir Anthony era una spia. Io credo che quando lui fu confrontato riuscì a strappare un accordo di cui, tuttora, nessuno conosce i termini. Io credo che tutto risalga ad una sua missione in Germania nel 1945, poco dopo la sua nomina a curatore della collezione privata dei dipinti di casa reale che avvenne il 28 aprile, due giorni prima del suicidio di Hitler nel bunker di Berlino. Su diretta richiesta di re Giorgio VI, Blunt fu spedito al castello di Kronberg, nei pressi di Francoforte, residenza del principe von Hesse. Il re era sicuro che fra le carte che venivano conservate al castello ci fossero lettere scritte dalla regina Vittoria alla figlia primogenita, l’imperatrice Federica, moglie di Federico di Prussia e lettere della Regina Mary ai suoi parenti tedeschi. Ma questo era il pretesto. La missione vera era un’altra. Esisteva il forte sospetto dell’esistenza di lettere e documenti che avrebbero provato le simpatie filo naziste del fratello del re, il Duca di Windsor, che aveva abdicato per sposare la divorziata americana Wallis Simpson. E l’idea che carte di questa importanza potessero cadere in mano americana e magari sulle prime pagine dei loro giornali, era più che sufficiente per giustificare una missione segreta. Il castello di Kronberg veniva allora usato come un club dell’esercito americano. Blunt riuscì a trovare la contessa Margaret von Hesse che alloggiava in una casa del villaggio e le mostrò la lettera di re Giorgio VI in cui si chiedeva di consegnare le famose carte al suo emissario. La contessa scrisse una nota all’ufficiale americano responsabile del castello, ma questi, per nulla impressionato da quelle missive con tanto di stemmi reali, decise di chiedere l’autorizzazione a un suo superiore. Blunt capì immediatamente che quelle carte non sarebbero mai uscite di lì e decise di prendere l’iniziativa: mentre l’ufficiale era al telefono si precipitò in soffitta e se la svignò con due scatole che contenevano i documenti incriminati prima che gli americani si accorgessero di niente. Il fatto era che quei documenti avrebbero dimostrato un accordo fra Hitler e il Duca di Windsor che se e quando i tedeschi avessero invaso l’Inghilterra, lo avrebbero rimesso sul trono. Io sono quasi certo che Blunt tenne per sè alcuni di quei documenti e con quelli ricattasse il governo inglese altrimenti non vedo come possa aver ottenuto l’immunità.»

Come le è nata l’idea di scrivere un romanzo su Anthony Blunt?

«Sono sempre stato interessato dalla vicenda delle spie di Cambridge. Ricordo perfettamente la conferenza stampa che Anthony Blunt tenne il giorno dopo essere stato smascherato da Margaret Thatcher. Ero assolutamente affascinato dalla sua freddezza, dal suo autocontrollo, dalla sua gelida ironia. Ricordo che mia moglie mi disse: avresti potuto inventarlo tu un personaggio così. Risposi: credo proprio che dovrò inventarlo.»

Come si è documentato per scrivere un romanzo che è una biografia, ma che è essenzialmente un’opera di fantasia?

«Le confesso di non avere letto molto sulle spie di Cambridge. Alla fine del mio libro cito alcuni titoli per coloro che volessero approfondire l’argomento, ma è tutto lì. In narrativa più ricerche fai e peggio è: rischi di far inaridire l’immaginazione. Sapevo abbastanza di Anthony Blunt per poterlo dimenticare e andare avanti con il mio personaggio. L’importante, per me, è trovare il ritmo. Le confesso che ho passato un anno per scrivere il primo paragrafo e due anni per le seguenti venti pagine. Ricominciavo ogni volta daccapo. Non riuscivo a prendere il ritmo, non lo sentivo nella testa, poi, a un certo punto, il racconto ha cliccato e ho scritto il resto del libro in un anno circa.»

Quello che appare straordinario, nel suo romanzo, ma anche nelle cronache reali della vicenda delle spie di Cambridge, è il dilettantismo del loro comportamento. Nessuno di loro, poi, se non Cairncross è stipendiato dai russi e Cairncross accettò i soldi solo perché doveva pagare i conti del dentista. Un atteggiamento che fa venire alla mente quella figura tipicamente britannica del “dilettante vittoriano”.

«Certo. Il “dilettante vittoriano” è un elemento prezioso per la Gran Bretagna che proprio sul dilettantismo ha costruito uno dei più grandi imperi della storia. Il dilettante vittoriano fa parte della società britannica dove il potere è nelle mani di una classe rarefatta di uomini che hanno, sì, il potere, ma non devono far vedere di prenderlo troppo seriamente. In modo curioso, guardi, il governo Blair è un governo di dilettanti vittoriani. Blair è la quintessenza del dilettantismo, del felice entusiasta, Blair non è un politico cinico, crede veramente nelle cose che dice. Fra qualche anno forse cambierà, ma per il momento è così. Comunque tornando alle nostre spie dilettanti, per i loro controllori sovietici la vita non doveva essere facile. Burgess era uno che si girava tutti i pub di Londra dicendo a tutti che faceva la spia e a volte entrava anche nei dettagli e la gente intorno pensava quanto era divertente. I russi diventavano matti, ma, con loro, era prendere o lasciare.»

Victor, il suo personaggio si descrive come un marxista at a distance. Era lo stesso per Blunt?

«Certo è un atteggiamento aristocratico. Il gruppo si identificava come una società segreta, non per nulla tutti avevano cominciato insieme a Cambridge nella società segreta degli Apostoli, una società di gentiluomini che combatteva contro il resto del mondo. Eppoi fra di loro avevano molte cose in comune: l’educazione, il retroterra sociale, la sessualità: non dimentichiamoci che, a parte Philby, erano tutti omosessuali che vivevano in un loro mondo segreto e credo che lo spionaggio desse loro quella patina di serietà che sentivano mancare. Finalmente avrebbero potuto bere tutto lo champagne che volevano, sedurre tutti gli uomini che volevano: dietro avevano questa ideologia che li faceva automaticamente diventare gente seria. Se ci pensa, è un grande modo di vivere».

grazie a http://blog.leiweb.it/claudio-castellacci/category/cultura-pop/ 15.01.2012