inizio rosso e giallo


Hans Tuzzi

 

Lo hanno definito dandy, ma non sappiamo quanto questa definizione colga la cifra di Adriano Bon (Milano, 1952) in arte Hans Tuzzi.

Certo è che i suoi libri - scritti da uno che di libri se ne intende (ha insegnato all'Università storia dell'editoria ed è un esperto di bibliofilia, oltre che di letteratura), che ne ha letti tanti, e che poi li sa anche scrivere - sono un continuo dipanarsi di citazioni, a volte esplicite spesso sotto traccia, di puntigliose annotazioni su luoghi e cibo, di sguardi esperti, di riferimenti storici non irrilevanti.
Un'atmosfera avvolgente, piacevole, ma che talvolta rischia di essere troppo densa, quasi che il dandy abbia deplorevolmente ecceduto in eau de cologne. Ma la scrittura, semplice e ricercata, mantiene un profilo netto, senza ammiccamenti e astuzie, calmierando i giochi troppo elaborati, e con un uso sobriamente anarchico della punteggiatura.
Se Neron Vukcic già prima di diventare Nero Wolfe è ovviamente grand gourmet, meno plausibile che un giovane commissario milanese sia un raffinato buongustaio, nonchè un intellettuale piuttosto esperto di pittura, di musica da camera, di letteratura, di cavalli, e altro ancora.

Insomma, un sofisticato bianco della Loira versus bibite energetiche e vinacci in cartone.

 

    commissario Melis:

  • Il Maestro della Testa sfondata, Bonnard, 2002; Guanda, 2005; Bollati Boringhieri, 2016
  • Perché Yellow non correrà, Bonnard, 2003; Guanda, 2006; Bollati Boringhieri, 2015
  • Come il cielo sull'Annapurna, Bonnard, 2004; o Un posto sbagliato per morire, Bollati Boringhieri, 2011, 2018
  • Tre delitti un'estate. Calde vacanze per il commissario Melis, Bonnard, 2005
  • La morte segue i magi, Bollati Boringhieri, 2009, 2017
  • L'ora incerta tra il cane e il lupo, Bollati Boringhieri, 2010
  • Il principe dei gigli, Bollati Boringhieri, 2012, 2013
  • Casta Diva, Bollati Boringhieri, 2013, 2015
  • Un enigma dal passato, Bollati Boringhieri, 2013, 2017
  • La figlia più bella, Bollati Boringhieri, 2015, 2018
  • Fuorché l'onore, Bollati Boringhieri, 2015, 2017
  • La belva nel labirinto, Bollati Boringhieri, 2017
  • La vita uccide in prosa, Bollati Boringhieri, 2018
  • Polvere d'agosto, Bollati Boringhieri, 2019
  • Nella luce di un'alba più fredda, Bollati Boringhieri, 2021
  • Ma cos'è questo nulla?, Bollati Boringhieri, 2022

 

 

 

    Neron Vukcic:

  • Il Trio dell'arciduca, Bollati Boringhieri, 2014, 2016
  • Il sesto Faraone, Bollati Boringhieri, 2016
  • Al vento dell’Oceano, Bollati Boringhieri, 2017

 

Lo strano caso di Hans bibliofilo e giallista

Per anni la sua identità è stata un mistero.
Nel mondo dell'editoria circolavano voci, una addirittura riguardante Umberto Eco, su chi si nascondeva dietro lo pseudonimo di Hans Tuzzi (un personaggio de
L'uomo senza qualità di Musil), autore di fortunati saggi di bibliofilia e di quattro altrettanto fortunati romanzi noir, pubblicati da Sylvestre Bonnard e ristampati in edizione economica da Guanda, con protagonista il commissario Melis.
L'anno scorso l'identità è stata rivelata proprio da Eco e si è scoperto che Hans Tuzzi è Adriano Bon, cinquantatreenne scrittore e bibliofilo milanese. In occasione dell'uscita del suo ultimo saggio
Gli occhi di Rubino (Sylvestre Bonnard) dedicato al rapporto storico letterario fra uomo e cane, lo abbiamo incontrato nella sua casa milanese accolti da Dora, un elegantissimo levriero inglese.

Quando e perché nasce Hans Tuzzi?

Nasce nel 2000 con il saggio Collezionare libri. Scelsi questo pseudonimo nel 1978 quando mi iscrissi come pubblicista all'Albo dei Giornalisti. Ho pensato di riutilizzarlo perché il mondo della bibliofilia è un po' piccolo e quindi per evitare recensioni che nel bene e nel male potessero essere preconcette. Ha funzionato, e l'ho usato anche per il primo romanzo, Il maestro dalla testa sfondata.

Perché proprio Hans Tuzzi?
La famiglia di mia madre è di origine austriaca e poi mi piace il capodivisione Tuzzi inventato da Musil: un uomo razionale e dignitoso, due virtù che latitano in questi anni.

E chi è invece Adriano Bon?
Ho sempre lavorato per case editrici, Bompiani, Mursia, UTET, Touring Club Italiano, come critico o autore di saggistica letteraria e testi per bibliofili. Ora sono consulente editoriale di Sylvestre Bonnard.

Nei suoi romanzi coniuga passione bibliofila e trame noir.
In realtà i miei personaggi hanno una vita intellettuale e culturale. Hemingway diceva che "metà dell'Italia scrive e l'altra metà non legge", e mi piaceva che nelle mie storie questa realtà si ribaltasse. Credo che la borghesia italiana sia meno peggio di come la si dipinge: cerco di rappresentarne la parte buona.

Dopo il suo primo romanzo si fecero molte ipotesi sulla sua identità, addirittura si parlò di Umberto Eco, bibliofilo come lei.
Eco è un grandissimo intellettuale e penso di godere della sua stima visto che mi ha invitato a tenere un corso post universitario a Bologna. Ma come bibliofilo si muove a livelli di collezionismo per me neanche immaginabili. Io sono un esperto di libri antichi e posso dare ottimi consigli per acquistarne ma di mio ho semplicemente una bella biblioteca con diversi libri rari, fra cui la prima edizione della Recherche di Proust.

I suoi romanzi si svolgono a Milano. È una città che ispira il noir?
Secondo me sì. Non è bella, e le ultime amministrazioni hanno contribuito a peggiorarla, ma è una città di forti suggestioni. Pensi all'amore viscerale fra Stendhal e Milano. È una città di conflitti. E anche se la nebbia non c'è più e non ci sono più le fabbriche, resta una metropoli di notti e nebbia dell'anima.

Quali zone la ispirano di più a livello letterario?
Forse quella che va da piazza Vetra a via Unione, dove fino agli anni Quaranta c'era il Bottonuto, il quartiere della mala. Non sento invece il fascino turistico dei navigli mentre mi piace la periferia dietro Lambrate: giri l'angolo e ti trovi in mezzo alla campagna, tra grandi ville con i portoni barocchi.

Il commissario Melis è una figura abbastanza atipica: pacato, riflessivo eppure imprevedibile. Si è ispirato a qualcuno?
Ad alcune figure di funzionari dello Stato italiano che ho avuto modo di conoscere e che incarnavano il meglio di una tradizione. Melis rappresenta quello che avrebbe potuto essere l'Italia se nei suoi nodi storici non avesse fatto sempre scelte tragicamente reazionarie: da Re Umberto I che premia il generale Bava Beccaris dopo la strage operaia di Milano, alla marcia su Roma e via di questo passo.

Nel suo ultimo libro invece parla di cani...
Ho sempre amato cani, cavalli e gatti, in questo preciso ordine. Il libro è nato in un momento molto cupo, prima che nella mia vita entrasse il mio cane Dora. Volevo dare corpo alle mie riflessioni sul rapporto fra uomo e cane e lo scrissi per un nucleo ristretto di amici, la prima tiratura fu di quarantanove copie.

E ora che cosa sta scrivendo?
Un racconto lungo, un saggio e il un nuovo romanzo con Melis che sarà titolato La morte segue i magi.

grazie a: Repubblica, 24.11.2006

Jacopo Guerriero

Hans Tuzzi

 

È uno strano caso, quello di Hans Tuzzi. Dandy, bibliofilo, editore, autore di gialli di culto; lo pseudonimo, uscito dritto dalle pagine di Robert Musil, nasconde il milanese Adriano Bon, 61 anni, scrittore raffinato. Tempo è trascorso da quando le edizioni Sylvestre Bonnard pubblicavano le sue prime prove, apprezzate da un pubblico di nicchia. E ora che la Bollati Boringhieri dà alle stampe Un enigma del passato (154 pagine, 14,90 euro), storia di veleno e di memoria contrapposta, ci si accorge che il contesto è cambiato. Il commissario Norberto Melis, il protagonista seriale di Tuzzi, questa volta alle prese con un omicidio efferato nelle valli dell’Alto Verbano, è realtà solida del panorama editoriale. La schiera degli appassionati si è allargata, la qualità del lavoro dell’autore non scende.

Dunque lei è un caso editoriale...
Non so se il successo sia notevole, né tantomeno se io sia un caso. Posso dire che quando scrivo cerco di rispettare me stesso, prima ancora del lettore. E, legato come sono a un’epoca in cui oggetti e sentimenti erano concreti, non virtuali, ho l’ingenuità di credere che questo atteggiamento venga percepito, come si ama dire oggi, da una minoranza di scelti lettori. Auguro ai miei editori che Tuzzi abbia tanti lettori, ma a me va bene così: una competente minoranza.

Un enigma del passato si ambienta nei tardi anni Ottanta. È cominciato lì il disastro dell’Italia?
Negli anni Ottanta si è perso un treno importante. Ma il disastro, antropologico prima che politico, ha radici che avremmo meno splendide ex piccole capitali e un senso dello Stato assai più forte. E se davvero Venezia prima, i Savoia poi, fossero approdati alla Riforma? Un Paese non più monoreligioso. Sogni, purtroppo. Certo è che non avrei mai pensato di vivere anni più clericali, più conformisti, più slabbrati di questi: la volgarità arrembante, quella sì me l’aspettavo, l’ipocrisia babbea convinta e conculcata, quella no.

Quanto conta non avere una memoria condivisa? Nel suo ultimo romanzo ci sono due fratelli dalla parabola opposta e complementare, uno partigiano e uno repubblichino...
Gli americani, ingenui e pieni di contraddizioni, sanno coltivare il proprio passato, e più, il senso del proprio passato: "the Fate of a Nation". Noi, cinici e guitti, no. Non abbiamo fiducia nemmeno nella nostra lingua, storpiata e stuprata ogni giorno in ogni sede. Ma le pare che per revisione di spesa si debba parlare di spending review? E poi si traducono le "rules of engagement" in regole d’ingaggio... Penoso. E così, non sapendo valutare il nostro passato, svilendolo degradiamo il nostro presente. Eppure quante storie individuali potrebbe raccontare la nostra storia comune. E non mancano giornalisti, registi e scrittori che, con caparbia volontà, percorrono questi filoni: a essi va la mia gratitudine, per quel che vale.

Lei è stato docente ed editore, non le sarà sfuggita la morte dell’umanesimo. Allora perché si continua a scrivere? Forse perché serve una sorta di incoscienza organizzata contro il principio di realtà?
Mi salvo citando Gustave Flaubert: non leggete come i bambini, per divertirvi, né come gli avidi, per istruirvi. Leggete per vivere.

Lei è pure un inguaribile snob. Una volta confessò di scrivere gialli ma di non leggerli. Che cosa legge, oggi, Hans Tuzzi?
Un critico, e gliene sono grato, ha detto che sono meravigliosamente inattuale. Forse anche nelle letture. Prendo oggi alla lettera: di giorno sto rileggendo La grande officina di André Chastel, un saggio sull’arte italiana dal 1460 al 1500. La sera, prima di addormentarmi, la biografia di Max Perkins, l’editor di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald.

Sembra anche un solitario. Che ne pensa dei suoi colleghi? La leggibilità sembra essere diventata una categoria critica e forse non è improprio parlare di dittatura dell’editing. O no?
Il mercato, o se preferisce il marketing, è di fatto una censura. E non certo la meno feroce. Tuttavia, singoli ostinati consentono ancora di vedere pubblicati libri che non rispondono a strategie preconfezionate. Del resto, se fosse davvero possibile confezionare successi, gli editori avrebbero conti in attivo. Sul giallo, a lungo e non senza qualche buon motivo disprezzato, oggi puntano tutti, con troppa fiducia. Quanto alla narrativa contemporanea, mi accorgo che autori assai diversi fra loro ma che apprezzo e stimo, Mauro Covacich, Paolo Nori, Filippo Tuena, hanno in comune l’essere nati nella ventina d’anni, 1945-1965, che fa una generazione: la mia, quella formatasi senza computer.

Si lasciano sempre da parte gli editori: sembra portino più di una responsabilità in tutto questo.
Non loderò i tempi andati, perché questi sono i nostri, e più difficili: impensabili, oggi, quel Mondadori, quel Rizzoli. Il trapasso è ben delineato da Jason Epstein nel Futuro di un mestiere. Forse nelle redazioni la qualità media è oggi più alta, proprio come accade per la fontina, che però non vanta gli antichi vertici di produzione. L’editoria somiglia sempre più al mercato dell’arte, dove i nomi si costruiscono e si impongono grazie a raffinate strategie dei galleristi. Già accade per gli pseudobestseller, e quanti lettori stupirebbero nell’apprendere che i loro beniamini vengono scritti ai tavoli delle redazioni. Si impone un gusto, ed è per i grandi numeri.

Quando arriverà il prossimo Melis? Se c’è già un prossimo Melis...
Da qui al 2014 con la Bollati Boringhieri usciranno due o tre ristampe di titoli già editi dalla Bonnard, ma posso garantire ai miei estimatori anche una novità. Grossa, gialla (sono due indizi) e, lo assicuro, davvero sorprendente.


grazie a: https://www.panorama.it/

Massimiliano Chiavarone

 Milano è un mondo a sé che oscilla tra una modernità sfacciata e il tempo fermo di una cascina

 

Milano, 27 giugno 2015

Lei gioca in casa perché è milanese e, come scopriremo, Milano alimenta di continuo la sua creatività. In quale zona della città ha emesso il primo vagito?
Nella maternità di via Macedonio Melloni, per poi trascorrere l’infanzia in viale Piceno. Mi sembrava di vivere tra colossi mitici, il Gigante di piazza Grandi e i grossi cavalli che passavano trainando i carri dei Mercati Generali, allora in Largo Marinai d’Italia. Mia nonna spiava l’arrivo dei ronzini per  mandare la cameriera a raccogliere il letame, che rendeva il nostro balcone il più fiorito del viale. Allora il traffico era minimo: passavano solo otto auto al minuto come cronometrò mio fratello.

Quando cominciò a farsi un’idea delle peculiarità di Milano?
In vacanza al mare, a Noli, quando tutti gli altri bambini mi chiedevano notizie di Milano come se fosse stata New York. Anzi qui mi viene in mente un altro aneddoto.

Quale?
Mio padre, che lavorava per una cartiera, una volta portò a casa i rotoli di carta igienica da New York: ce n’era uno con i finti dollari stampati in verde e nero e uno con mazzi di rose rosse. Li mostrai ai compagni di classe, godendomi il loro stupore. Nell’Italia degli anni ‘50 anche quella carta faceva di Milano una finestra aperta sul progresso. Metanopoli era il futuro. L’America sembrava vicina a questa Milano così vivace, anche se chi partiva da Linate doveva raggiungere a piedi l’aereo, con i parenti che salutavano dalla terrazza. Le navette non erano ancora arrivate.

Cominciò presto a passeggiare per Milano?
Sì, perché i miei genitori lavoravano in centro e spesso li raggiungevo. Cominciai a distinguere moderno e antico, gli ordini architettonici, la stratificazione dei secoli. Lì iniziai a scoprire il carattere delle singole vie. Altera Montenapoleone, riservata via Bigli, senza troppe pretese, almeno allora, via della Spiga. Inquietante l’intrico intorno alla Borsa. Silenziosa come una foresta arturiana la piazza Borromeo.

La via che preferisce?
La via Cavriana, all’Ortica. Qui è come se il tempo si fosse fermato alla Milano rurale. Lungo questa strada sino agli anni ‘80 i pensionati, d’estate, venivano a prendere il sole distesi nei campi di grano dietro la ferrovia: era l’Africa immaginata del poeta Luciano Erba. Cavriano era un nucleo agricolo sulla via per Monlué, come testimoniano le cascine quattrocentesche dai portali solenni e incantevoli. Esiste dai tempi del Barbarossa, ma da un secolo la ferrovia lo ha isolato preservandone la natura profonda. Ed è meraviglioso trovare in zona la Cascina Cavriano, la più antica azienda agricola lombarda, la cui attività è certificata sin dal ‘700, poco distante c’è un enorme vivaio e, intorno, il silenzio verde. E poi non dimentico la suggestione dell’Ortica cantata da Jannacci, quartiere della mala milanese quando si chiamava ligéra anche se era meno pericolosa di quella di Porta Cicca e dell’Isola.

Lei da un lato è bibliofilo e studioso della storia del libro, dall’altro scrittore di gialli e creatore del commissario Melis che lavora a Milano. E diciamo anche che il suo nome è Adriano Bon, lo pseudonimo Hans Tuzzi lo ha preso in prestito da un personaggio di Robert Musil. Questa città è stata fonte di ispirazione per le sue scelte?
Sì, perché Milano è una delle pietre miliari dell’editoria, sia quella storica, con biblioteche come la Braidense e l’Ambrosiana, sia quella produttiva. E a Brera nacquero nel 1995 le edizioni Sylvestre Bonnard che pubblicarono i miei primi titoli. Né è un caso che il primo giallo di Melis, Il Maestro della Testa sfondata, sia ambientato nel mondo del libro antico.

Nel suo ultimo giallo, La figlia più bella, (Bollati Boringhieri) ambienta le scene tra i campi e le ricche ville forse un po’ pacchiane della Bassa milanese. Un richiamo all’Ortica?
Sì, nel senso che la provincia è un elemento importante. Anche in una città che sta diventando metropoli come Milano.


grazie a: https://www.ilgiorno.it/

Hans Tuzzi

Fenomenologia del perfetto lettore di gialli (sempre che esista)

Cinquant’anni fa due sociologi cercarono inutilmente italiani che leggessero soltanto La Domenica del Corriere. Lettori così, non esistevano. E io spero che non esistano lettori che leggono esclusivamente libri gialli. Il piacere di leggere non deve darsi confini. Tantomeno, confini di genere.
Possiamo perciò enunciare una prima regola: il perfetto lettore di gialli è un lettore transgender. Mi si potrà obiettare che la perfezione non è di questo mondo. Ma, se il lettore perfetto non esiste, esiste quantomeno il lettore ideale.
In questa sede mi riservo il diritto, pertanto, di oscillare fra l’identikit del perfetto lettore e quello del lettore ideale.
Primo grande discrimine fra lettori: chi annota il testo (i famosi marginalia che nei libri antichi testimoniano i passaggi di mano, sovente illustri) e chi no.
Perché si annotano i testi? Il riconosciuto padre di ogni giallista, Edgar Allan Poe, vi dedicò uno scritto - Marginalia, appunto - nel quale afferma: “Le annotazioni poste in margine della pagina, scritte con spirito diverso da quello del taccuino, hanno un carattere preciso - e non soltanto un fine preciso: infatti non ne hanno alcuno ed è proprio ciò a conferire loro un particolare significato […] i marginalia sono scritti appositamente a matita, perché la mente dello scrittore desidera liberarsi di un pensiero; per quanto superficiale, per quanto sciocco, per quanto scontato possa essere è pur sempre un pensiero […] Nei marginalia, inoltre, ci rivolgiamo soltanto a noi stessi; parliamo quindi con spontaneità, originalità, coraggio […] Lo spazio limitato di questi scritti a matita presenta inoltre piu vantaggi che inconvenienti. Ci obbliga […] ad avvicinarci a Montesquieu, a Tacito”.
L’ideale lettore di gialli avrà notato che il traduttore fa dire giustamente a Poe “la mente dello scrittore” non “dello scrivente”: l’inventore di Dupin dà per scontato che chi annota i libri che legge è, quantomeno in potenza, scrittore.

Quattro sono i tipi di annotatori identificati da Virginia Woolf: il Colonnello, che quasi con rabbia “violenta” i margini; l’Ecclesiastico, che si limita a segnalare i passi paralleli; la Lady sentimentale, che abbozza versi a lato di poesie malinconiche; e il Pedante, che gode a correggere gli errori di stampa.
L’ideale lettore di gialli corregge i refusi (chissà perché, sempre numerosi nelle edizioni pulp, e ormai non solo in quelle) ma individua altresì non soltanto i “passi paralleli”, bensì anche tutte le citazioni e gli ammicchi che tanti giallisti disseminano e celano nelle loro pagine. Anche quelli che l’autore ha inserito inconsapevolmente. Perché, si sa, un buon libro va sempre al di là del suo autore.
Il perfetto lettore di gialli ha in testa una bibliografia ragionata e completa, ed è rapido nell’attivare la ricerca. Sicché, a dimostrazione che non sempre, nelle regole del giallo, è necessario conservare il mistero sull’identità del colpevole, il lettore perfetto non citerà, come ho fatto io in questo stesso sito, il tenente Colombo televisivo, ma dirà che già Richard Austin Freeman, un grande della scuola “classica” e del metodo analitico, in The singing bone (1912) aveva inventato la inverted story.
Perché il perfetto lettore di gialli non legge solo gialli, ma ne legge tanti e li ricorda tutti. E sa, con Rober Sabatier, che “in un cattivo romanzo poliziesco il colpevole è l’autore."

L’ideale lettore di gialli sa che la vita è diversa dai libri, e dai libri gialli in particolare, e per dimostrarlo può citare la pagina di Books, Libraries, and Murder - brillante saggio di Murray S. Martin edito nel 1993 - dove Martin rivela che il suo interesse per il tema venne rafforzato dal delitto commesso anni prima, nel Giorno del Ringraziamento, alla Pattee Library della Pennsylvania State University, quando egli ne era bibliotecario. A me, confesso, l’interesse libresco sarebbe scemato proprio per la medesima considerazione amara che a Martin fa rilevare: “A differenza di quanto avviene nei libri qui menzionati, il caso non fu mai risolto. Come molti drammi reali della vita, non se ne venne mai a capo, benché il delitto fosse stato commesso in un settore della biblioteca strettamente sorvegliato”.

Già. I crimini della vita reale non assomigliano a un romanzo giallo. E l’ideale lettore di gialli sa che la vita, proprio come la letteratura, non è una sciarada. Del resto, chi mai rileggerebbe una sciarada?

grazie a: https://www.illibraio.it/

Hans Tuzzi

Il giallo perfetto

Henry James ha detto che l’arte è suscitare un mistero al quale non si può dare spiegazione. Che arte sarà mai, allora, quella del romanzo giallo, che parte da un mistero che bisogna immiserire fornendone le più concrete e fattuali spiegazioni?
Il romanzo giallo rientra fra i cosiddetti “romanzi di genere”: fra essi, insieme al romanzo rosa, è forse quello che presenta i vincoli maggiori, schema più rigido, stile predefinito, minor libertà per l’autore (il noir è assai più flessibile e ricco di potenziale letterario, così come duttile è la spy story).
Come la fiaba, il giallo riduce al minimo tutto ciò che non è funzionale all’azione. Questo non può che riflettersi sul ritmo della scrittura: più serrata, essenziale, rapida di quel che non richiede la letteratura “alta”, quella scrittura “seria”, esistenziale che è vista come qualcosa di necessario e d’ineludibile per l’arte: lo stile.
Non è vero in assoluto: così come il genere può partorire diversi sottogeneri (bibliomystery - thriller - legal thriller - courtroom drama, per dire) nello stesso modo può conoscere ben più appariscenti variazioni nella ideale borsa valori dei libri: se Chandler, Simenon e Dürrenmatt fan diventare il giallo vera letteratura, Barbara Cartland trascina le storie di una Jane Austen nel gorgo del più commerciale genere rosa.
Insomma, sarebbe più prudente usare il termine letteratura di genere in senso molto elastico. Parlando, invece, di buona e cattiva letteratura.
La cattiva letteratura viene costruita esclusivamente a partire da ciò che è già familiare, dal denominatore comune della lingua: ogni frase suona già sentita, e la trama è la stessa del precedente aspirante best seller. I buoni libri, invece, non rifuggono a ogni costo da ciò che è familiare, ma fanno uso di deviazioni. Nella lingua e, come conseguenza inevitabile, nei contenuti. La letteratura di genere fornisce una gabbia più rigida, e pertanto genera spesso cattiva letteratura. Ma con intelligenza e bravura, le regole possono essere rotte a vantaggio del lettore.

Ogni genere ha le sue regole, si è detto. Davvero non si può infrangerle?
Un giallo esige un omicidio. Falso: pensate a La lettera rubata. Un capolavoro.
Un giallo vuole che il colpevole sia individuato e punito. Falso: pensate a La fine è nota di Geoffrey Holiday Hall o a La promessa di Dürrenmatt, autentico requiem per la detective story. Due capolavori.
E, a ben pensarci, chi è il colpevole punito in Assassinio sull’Orient Express? (Ma Agatha Christie non è una grande scrittrice, resta “soltanto” la più letta autrice di mysteries)
Non si deve anticipare il movente. Falso, come dimostra Rex Stout in un giallo di Nero Wolfe che nulla perde, per questo, in tensione. Il titolo? I wolfiani lo sanno.
Il lettore deve ignorare l’identità del colpevole. Falso, come dimostra il successo televisivo del tenente Colombo. Nel mio minimo, con Un gatto alla finestra ho scritto un racconto giallo dove si sa che un uomo è colpevole ma non si sa di che cosa.
Stile asciutto, pochi dialoghi. Non ditelo a Rex Stout, per limitarci a un classico.

Diremo allora che più un autore si piega alle regole del genere, meno è autore, cioè scrittore autentico: nei romanzetti di Liala alla fine ci si sposa sempre, ma in Anna Karenina la ben orchestrata passeggiata nel bosco, a dispetto di quanto il lettore si attende, si conclude non già nell’attesa richiesta di matrimonio bensì in un nulla di fatto. Proprio perché l’autore si chiama Tolstoj, non Liala.
Questa è grande arte. Ma il romanzo di genere non la esclude a priori. Il poeta dialettale Vann’Antò rivela la regola aurea: “lu cuntu è nenti, tuttu sta comu si porta”.
E il “padre” dei giallisti italiani, Augusto De Angelis, un autore dalle grandi qualità narrative e stilistiche, ha scritto, sul meccanismo narrativo del romanzo poliziesco, pagine ancor oggi illuminanti. Pagine da leggere e meditare.
Proprio sul tema della lettura Ruth Rendell ha tessuto un capolavoro, La morte non sa leggere, dove Eunice Parchmann, analfabeta, è a servizio in una famiglia nella quale la lettura è intrecciata al vivere quotidiano. E sarà proprio nella biblioteca che l’angosciante tensione narrativa e il pathos da tragedia greca trovano il drammatico e sanguinoso epilogo.
Non è un giallo, più di quanto non lo sia Edipo re. Ma lo scrittore consapevole si sente talmente sicuro della propria bravura che non si cura di esibirla. Né di infrangere la gabbia del genere.

grazie a: https://www.illibraio.it/