inizio rosso e giallo



Giorgio Placereani

Tutti i colori del giallo *


Nella fortunata serie degli Omnibus gialli (una delle migliori collane Mondadori) uscì anni fa un'antologia, Delitti in codice, dove l'elemento unificante delle varie storie era l'esistenza di un cifrario da decodificare: la filastrocca dei negretti di Agatha Christie, i "pupazzi ballerini" di A. Conan Doyle, il cruciverba di un piacevole racconto di Dorothy Sayers.
Ma si potrebbe osservare: non c'è qui una ridondanza? Il romanzo poliziesco non è già, nella sua essenza, un messaggio cifrato da decodificare? Lasciando da parte le categorie del suspense e del thriller, il giallo classico (o "inglese") ha come protagonista l'indizio. Su questo brandello di realtà il romanzo cala una luce accecante (e inquietante, perché gli oggetti assumono centralità narrativa, molto prima del nouveau roman). L'investigatore collega queste unità significanti. Li trae dal loro mutismo, li inserisce in un contesto, distingue ciò che è segno da ciò che è solo rumore. Li decodifica e legge quello che sta dietro. Ecco la detection.
Segue, ordinariamente, la morte del colpevole, implicita in ogni arresto, che fa da pendant all'uccisione iniziale: ma non credo sia da vedere in ciò un'enfasi moralistica, quanto un'esigenza di equilibrio strutturale. A ben pensarci, l'assassinio iniziale è inutile: nel senso che il crimine serve a innestare la detection, non la detection a punire il crimine; il giallo è una macchina che trova il suo significato in se stessa e non in un'esigenza morale.

In un'ottima antologia di saggi sul giallo (La trama del delitto, a cura di R. Cremante e L. Rambelli, Pratiche, 1980), Maxime Chastaing pone una domanda intelligentissima: visto che spesso il detective propone varie soluzioni sbagliate prima di quella giusta, chi ci garantisce che l'ultima spiegazione sia tale? "Tutti i romanzi polizieschi ... non saranno, in realtà, romanzi di errori giudiziali"? Possiamo rispondere: la garanzia è nella parola "fine" in fondo alla pagina. Se Sherlock Holmes fosse vivo, bisognerebbe diffidarne: ma il giallo gira a vuoto per il mio piacere (non mi interessa la giustizia, mi interessa la spiegazione). Così, l'assassino di The Door (L'incubo), di R. M. Rinehart, svelato addirittura nella penultima riga, è quello, ma se il romanzo avesse un capitolo supplementare, un supplemento d'indagine, un altro nome, l'assassino di The Door sarebbe quest'ultimo. E compatibilmente con le capacità dell'autore la macchina potrebbe girare all'infinito: c'è anche lo scaffale dei gialli nella borgesiana
Biblioteca di Babele.
Si può quindi capire come l'identità dell'assassino venga ad essere, in fondo, un problema minore. Particolarmente accentuato mi sembra questo tratto in vari romanzi di Rex Stout, dove Nero Wolfe scopre a metà romanzo che X, Y e Z avevano occasione e movente per uccidere e scopre alla fine un testimone che dichiara "a entrare nella casa è stato X". Avesse Stout scritto un altro nome, avremmo avuto un altro assassino; né credo sia da vedersi in ciò un difetto. Semplicemente, per Stout la descrizione di un ambiente e di un linguaggio assume una tale centralità che l'inutilità dell'assassinato finisce per prolungarsi nell'inutilità dell'assassino. Il delitto nel giallo è - giustamente - un colpo di pistola: serve solo a far partire la corsa.

Ora, la centralità dell'indizio portò i primi teorici del giallo a formulare la teoria del fair play: il lettore deve avere le stesse possibilità dell'investigatore. Ma ahimè, il gioco si guastò quasi subito. Invece di contare gli indizi e riempire il libro di sottolineature in rosso, il lettore trovava più conveniente spiare tra le righe l'autore al lavoro. Se questo personaggio è sospetto vuoi dire che l'autore lo intende innocente, a meno che non voglia farci ragionare proprio in questo modo... Questa eterodossa detection privata da ottimi risultati: è più difficile inventare un personaggio ambiguo che un delitto perfetto; l'autore è sempre meno astuto delle sue trame: la letteratura ha meno mezzi del delitto.
Ma c'è di peggio. L'enfasi sull'indizio porta al determinismo assoluto: "postulato del romanzo poliziesco è, infatti, che la contingenza non esiste, in qualunque forma si presenti: coincidenza, caso, decisione o pentimento" (Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, Garzanti, 1976). E il determinismo assoluto si rovescia in surrealismo. Ogni frammento di realtà diventa (minacciosamente) significante', si può paragonare il principio del giallo con quello delle nevrosi ossessive.
Ed ecco allora che il quieto e razionale poliziesco si ribalta in delirio. L'incubo della razionalità totale: nel romanzo poliziesco classico l'ordo rerum coincide con l'ordo idearum. Contro questa pretesa si scagliava a testa bassa Raymond Chandler nel suo saggio La semplice arte del delitto: ma la sua argomentazione (tutto ciò è privo di senso, in un'ottica realistica) sfondava una porta aperta. Il realismo non ha a vedere col romanzo poliziesco più di quanto abbia a vedere con Alice nel paese delle meraviglie. Vale la pena di riferire che un certo Bertolt Brecht scriveva negli anni trenta un ottimo saggio sul Kriminalroman, che alla causalità statistica della vita di ogni giorno sostituisce "abilmente" una causalità assoluta... che ci aiuta a pensare (il saggio si può leggere ne La trama del delitto, cit.).
Ci aiuterà sì a pensare, ma l'effetto complessivo è di assoluto straniamento. Tanto più che una forza interna al giallo spinge l'autore a enigmi sempre più barocchi. "Gli autori di romanzi polizieschi hanno abusato della logica, poiché la deduzione crea sempre effetti di profonda sorpresa e, dato che il romanzo poliziesco è per eccellenza il romanzo della sorpresa, più farà sfoggio di ragionamenti, più l'impressione prodotta sarà profonda" (Narcejac, Il romanzo poliziesco, cit.). Più la sfida è difficile più il merito è grande (poi c'entra qualcosa anche il fatto di vendere molte copie).

Proprio in omaggio a questa logica si colloca al centro del poliziesco quel tòpos fondamentale che è il delitto commesso in una camera chiusa dall'interno. E qui non possiamo non nominare John Dickson Carr: i cui enigmi portano la ragione fino alle estreme conseguenze, fino a pervertirla nell'irrazionalità a causa della sua stessa sottigliezza: spesso, nei romanzi di Carr, la soluzione superstiziosa e sovrannaturale sembra l'unica possibile, prima di una "spiegazione" tanto rigorosa quanto contorta (per inciso diremo che Carr ama il soprannaturale anche perché è congeniale alle sue doti di splendido pittore di atmosfere, sensazioni, empatie).
È fin troppo ovvio concludere che la figura del detective assume una valenza demiurgica. E come no? Noi vediamo nel detective il Grande Decodificatore. La nostra lettura - il nostro processo di proiezione e identificazione - è una delega: sbroglia per me: riconduci a ordine il caos. Chiediamo al detective quell'operazione che noi solo con dolore e difficoltà compiamo nella vita: enucleare dal fluire magmatico dei fenomeni alcune strutture a cui riferirsi e su cui costruire il proprio rapporto con il non-io.
Qui - si capisce - viene a distruzione la teoria del fair play. Il giallo non esiste per far risolvere un mistero al lettore ma per fargli assistere alla risoluzione, e goderne: il che è dimostrato dal fatto che il lettore gode particolarmente degli imbrogli i più intricati. Il romanzo giallo è lo strutturarsi di un climax dell'incomprensibile, che quanto più è estremista tanto più piace: poiché godiamo e del caos e della sua soluzione. Basta questo per osservare che la lettura di un giallo è un'operazione sadomasochistica.
Quando abbiamo parlato dell'ansia di ritagliare nel flusso delle cose i nostri "assi cartesiani" attraverso l'instaurazione di un sistema di segni, abbiamo forse trovato il trait d'union fra il giallo "inglese" e il suo cugino d'oltre Atlantico: il giallo americano. Se quest'ultimo spesso si allontana dalla detection classica, e più spesso la stravolge, resta tuttavia centrale in esso il principio della decodifica di un insieme di segni. Ma non di tracce materiali, bensì di comportamenti umani. Possiamo dire che il giallo americano usa le persone come il giallo inglese usa le cose.

Se ogni giorno noi leggiamo con fatica i comportamento altrui, cosa accadrà in una situazione critica, conflittuale? Nei romanzi di un grandissimo autore americano, Patrick Quentin, i personaggi si scrutano angosciosamente, isolano nella loro prassi sociale quotidiana dei tratti significanti, dei sintomi cercano di indovinare il viso dietro la maschera. È una specie di angoscia fenomenologica che in Quentin si accoppia al carattere pauroso dei "misteri" per creare un'atmosfera marcatamente onirica. In Cornell Woolrich si dissolve in una dolorosa denuncia dell'in comprensibilità e ostilità dell'universo (e sarebbe interessante paragonare la sua opera con quella di H. P. Lovecraft). In Dashiell Hammett si concretizza in pittura di genere, in Raymond Chandler parte da una poetica realistica con ambizioni sociologiche per assumere i toni del decadentismo (che Jonathan Latimer in The Lady in the Morgue, La dama della Morgue, estremizzerà fino livelli archetipici). In Chester Himes approda al rifiuto di ogni sorta di detection e fìnanco della struttura narrativa tradizionale.

Se è permessa una breve digressione, interessante notare come in Mickey Spillane - autore nel quale la paura della donna assume un ruolo determinante - questo problema della vera entità, delle vere intenzioni venga enfatizzato appunto nei personaggi femminili. Un buon esempio è The Last Cop Out (Fuori l'ultimo) in cui la tematica della simulazione femminile si innesta abilmente su una struttura estranea e la compenetra fino a determinare la soluzione, che altrimenti si sarebbe persa in un'impasse.
Ma torniamo al discorso. Non si vuole ovviamente sostenere che nel giallo inglese la psicologia dei personaggi sia priva di significato, bensì che nel giallo inglese esiste un aggancio alla materialità, alla cosa, che in fondo condiziona le psicologie. In Agatha Christie l'ambiguità dei personaggi è statica: si tratta di scoprire chi sono, cosa hanno fatto, una volta per tutte. Nel giallo americano è dinamica. Una girandola di continue modificazioni, per cui a volte - come già accennato - il romanzo stesso si chiude senza una ricomposizione finale.
È evidente che nel passaggio dal segno-oggetto al segno-comportamento si sfalda ogni pretesa di "concretezza della prova". Assai bene l'ha espresso un Ellery Queen, che, partito da gialli molto "inglesi", è approdato al culto degli indizi psicologici, linguistici, antropologici; ai collegamenti per associazione, ai giochi di parole; tanto da far esclamare a Narcejac (Il romanzo poliziesco, cit.): "Ellery Queen, a suo modo, è un po' l'ultimo dei grandi réthoriqueurs!".
Alla luce di questa (proposta) distinzione fra decodifica dell'oggetto e decodifica del comportamento, c'è un'ultima notazione da fare; e partiremo dalla considerazione un po' ovvia che di solito gli oggetti stanno fermi mentre la gente va in giro. Se guardiamo pertanto al disagio del delitto, possiamo esprimerci in questo modo: il giallo inglese è claustrofobo, il giallo americano è agorafobo. Il dramma di una stanza nel giallo inglese versus il dramma della città nel giallo americano.
Pensiamo alla stanza del delitto inglese: "castello", luogo chiuso (camera, giardino privato, club) cui si accede col permesso delle autorità. Lì tende a concentrarsi l'oppressione (ed ecco la mania del detective per il luogo, la paranoia del "dobbiamo esserci"; Sherlock Holmes sapeva a memoria l'elenco dei treni). L'uscita dalla stanza a mistero svelato - come in tanti romanzi di Carr - è un "E quindi uscimmo a riveder le stelle".
La stanza del delitto americano è un ambiente, unità nucleare dell'immenso organismo malato che è la metropoli. Se ne esce, spesso non ci si torna, perché l'oppressione è mobile, ti accompagna (e allora ecco gli spostamenti pericolosi, le atmosfere mefitiche di corruzione estesa che tanto rattristano Philip Marlowe).
Un aspetto umoristico è l'indifferenza di Nero Wolfe per i luoghi del delitto; ma il povero Marlowe non ha altra difesa che serrare la sua cameretta come un fortilizio assediato. E magari anche lì, sotto forma di donna nuda (The Big Sleep, II grande sonno), può intrufolarsi la città.
Così, realizzando in vari gradi di compromesso e negazione i due modelli teorici, la follia inglese della razionalità totale e l'angoscia americana dell'incomprensibilità degli altri, il giallo trova una precaria unità come metafora della comprensione. Il detective introdurrà una certa quantità di ordine là dove c'era il caso (segni sperduti senza collare). E noi a guardarlo. Cosa volete che conti la vita di quattro-cinque personaggi da avvelenare, strangolare, annegare? "Carne da stampa", per usare un'espressione della Mafalda di Quino, essi sono sacrificabili.
Luccichino i coltelli; scorra rosso il sangue; prosperi il delitto.

(7 gennaio 1982)


  * Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana... Una piccola libreria, Rinascita di Udine, pubblicò alcuni numeri di Indice, qualcosa a metà tra il bollettino d'informazioni librarie e la piccola rivista.
Entrambi (libreria e
Indice) non avranno vita lunghissima, dal 1978 al 1984, ma, insomma, ci hanno provato.
(Fra parentesi: poi uscirà a livello nazionale un'ottima e ben più ambiziosa pubblicazione periodica con lo stesso nome, ma i suoi ideatori non hanno citato il precedente, ignorandone la periferica esistenza)
Indice ebbe come penna di punta, e punta di penna, l'ottimo Plac, Giorgio Placereani, autore di vari libri tra cui My name is Orson Welles, oggi apprezzato organizzatore e critico cinematografico-televisivo a Udine e dintorni, con relativo blog.