|   BREVE STORIA D'ITALIA   LA NUOVA ITALIA La 
                battaglia repubblicana era vinta, e si trattò di un’importantissima 
                vittoria del vento del Nord: e nient’affatto scontata, come 
                già si accennava, perché era sempre più chiaro 
                che in Italia lo scontro era ormai fra sinistra e moderati, e 
                che, essendo entrambi gli schieramenti piuttosto agguerriti, la 
                partita era ancora tutta da giocare.Ma se il conflitto politico non tardò a manifestarsi, e 
                anche con particolare asprezza, ciò non impedì che, 
                almeno nel breve termine, su alcuni temi di fondo che investivano 
                l’insieme della vita italiana (nella fattispecie l’assetto 
                costituzionale) i vari schieramenti riuscissero a far prevalere 
                l’esigenza di unità nazionale rispetto 
                agli interesse di parte: e anche questo fu sicuramente il frutto 
                del grande sforzo unitario (patriottico si potrebbe senz’altro 
                dire, se il termine non rischiasse di apparire retorico) compiuto 
              durante la Resistenza.
 
 Nell’arco 
                di pochissimi anni, cioè tra il 1946 e il 1948, si concentrarono 
                sull’Italia problemi enormi: il ripristino della legalità 
                dopo il ventennio di dittatura, la scelta fra monarchia e repubblica, 
                l’avvio della ricostruzione morale e materiale dopo le devastazioni e la vergogna della guerra, la definizione 
                del futuro politico di un paese al confine fra i due blocchi, 
                il riassetto di un’economia disastrata.
 È evidente che tali questioni (così come quelle 
                che si porranno in seguito) sono intimamente connesse tra loro, 
                ma qui sarebbe impossibile seguire nel dettaglio le complesse 
                interazioni nell’attività delle forze politiche e 
                sociali, e quindi sarà inevitabile un certo schematismo 
                nel trattarle separatamente.
 E allora, prima di arrivare al furibondo scontro in occasione 
                delle elezioni politiche del 1948, preceduto 
                dalla rottura fra i partiti della coalizione antifascista, è 
                indispensabile mettere a fuoco, almeno per grandi linee, la situazione 
                economica generale dell’Italia.
 
 Il primo dato, naturalmente, non può che riguardare i danni 
                provocati dagli eventi bellici, che ammontarono a 7.000 miliardi 
                di lire (al valore attuale corrispondono a circa 500.000 miliardi), 
                concentrati prevalentemente nelle città del Nord, con la 
                pesante eccezione di Napoli: la cifra è colossale, ma avrebbe 
                potuto assumere una consistenza immensamente superiore se la maggior 
                parte degli stabilimenti industriali non fosse uscita quasi indenne, 
                e spesso, come si è ricordato, per l’intervento diretto 
                degli operai armati che si erano opposti alle rappresaglie e alle 
                requisizioni dei tedeschi. Se l’apparato produttivo è 
                salvo, ma assai arretrato rispetto a quello degli altri paesi 
                europei, è gravemente compromesso il sistema dei trasporti, 
                con una marina mercantile praticamente distrutta e una rete ferroviaria 
                letteralmente a pezzi. L’agricoltura, che è ancora 
                il settore principale dell’economia, è anch’essa 
                in crisi, per il livello molto basso di meccanizzazione, 
                per la dissennata politica di supersfruttamento dei terreni che 
                fu alla base dell’autarchia (dal greco autòs, 
                da sé, da solo, e archìa, governo: autosufficienza, 
                quindi. Fu il tentativo di Mussolini di rendere autosufficiente, 
                appunto, l’economia italiana rispetto alle sanzioni internazionali - divieti di vendere merci all’Italia - attuate 
                intorno a metà degli anni ‘30 per ritorsione verso 
                la politica di espansione coloniale italiana in Africa) fascista, 
                e soprattutto per l’estrema arretratezza delle campagne, 
                con sterminate quantità di terra lasciate incolte e rapporti 
                addirittura medievali fra padroni e braccianti, ovvero fra proprietari 
                e contadini in affitto.
 La storica inefficienza dello Stato italiano nel riscuotere le 
                tasse e l’assoluta necessità di impegnare ingenti 
                risorse pubbliche per finanziare la ricostruzione, portarono il debito pubblico (per debito pubblico s’intende 
                l’ammontare dei prestiti chiesti dallo Stato - alle banche 
                o direttamente ai cittadini mediante la vendita dei titoli di 
                stato come i Bot - per far fronte al deficit di bilancio, cioè 
                al saldo sfavorevole fra entrate - tasse - e uscite - spese per 
                i servizi e la pubblica amministrazione, interessi sui prestiti 
                chiesti da pagare alle banche e ai cittadini) a cifre astronomiche 
                (nel ‘46 era quasi dieci volte superiore a quello del ‘39); 
                a questo si aggiunse un’inflazione (cioè 
                un aumento costante dei prezzi a cui non corrisponde un adeguato 
                aumento dei salari e più in generale del potere d’acquisto 
                del denaro) via via sempre accentuata: tra il 1938 e il 1946 il 
                costo della vita era cresciuto di circa 23 volte, mentre l’aumento 
                dei salari era stato inferiore alla metà; il fenomeno era 
                ulteriormente aggravato dal mercato nero.
 “Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. 
                Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. 
                Per avere appena un po’ di respiro bisognava muoversi: gli 
                scioperi si accendevano facilmente [...] Ma era già 
                una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, 
                c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. 
                Un esercito che voleva entrare ma i cancelli erano stretti” 
                (Giorgio Manzini, Una vita operaia, Einaudi, 1976, pp. 
                57-58).
 L’incremento demografico italiano è 
                stato elevatissimo (dai 36 ml di abitanti del 1920 si è 
                passati ai 46 ml del 1948), ma le risorse del paese non sono sufficienti 
                per tutti, tanto che riprende massicciamente l’emigrazione nelle Americhe, in Germania, Francia, in Svizzera, in Belgio (oltre 
                7 milioni tra il 1946 e il 1972, con un rientro di circa 3.800.000), 
                che dopo l’esplosione di inizio secolo si era gradatamente 
                ridotta (Storia d’Italia, op. cit., p. 2682).
 La disoccupazione non solo era molto estesa (1.700.000 
                senza lavoro nel 1947) ma era anche causa di una guerra fra poveri 
                che coinvolgeva anche i membri di una stessa famiglia: numerose 
                donne, infatti, avevano rimpiazzato nei servizi pubblici e nelle 
                officine gli uomini che erano al fronte o in prigionia, ma il 
                loro ritorno spesso provocò drammatici contraccolpi. Il 
                più delle volte, comunque, la solidarietà di classe 
                riuscì a prevalere sull’egoismo sociale: la partecipazione 
                di molti lavoratori alla Resistenza (e abbiamo già ricordato 
                i grandi scioperi antifascisti del ‘43 e del ‘44) 
                aveva contribuito notevolmente alla diffusione di una nuova coscienza 
                sindacale e politica, e ciò rese relativamente agevole 
                per il sindacato radicarsi in fabbrica, in particolare nelle grandi 
              aziende del triangolo industriale Genova-Torino-Milano.
 
 La CGL (Confederazione Generale del Lavoro), nata nel 1906 e sciolta 
                dal fascismo nel 1927, aveva proseguito faticosamente la propria 
                attività clandestina, fino a ricostituirsi ufficialmente 
                con il nome di Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) 
                nel giugno del 1944 con il cosiddetto Patto 
                di Roma fra le tre grandi componenti del movimento 
                operaio italiano, i comunisti, i socialisti, i cattolici. Firmatari 
                del Patto furono Giuseppe Di 
                Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e Emilio 
                Canevari per il PSI. Uno dei principali artefici di questo accordo 
                era stato il socialista Bruno Buozzi che però 
                proprio in quei giorni fu arrestato dalle SS e fucilato.Questa 
                unità della classe lavoratrice era destinata a incrinarsi 
                fortemente a causa dei contrasti che a livello politico stavano 
                maturando, ma per alcuni anni segnò una stagione fondamentale 
              nella vita del sindacalismo democratico.
 Nel giugno 1947 si tenne il primo e ultimo Congresso unitario della CGIL, che eleggerà Giuseppe Di Vittorio Segretario Generale. La CGIL conta 5.735.000 iscritti, di cui il 56%  ha votato a favore della corrente comunista, il 23% di quella socialista, il 13 di quella cristiana, il 2 di quella socialdemocratica e il 2 di quella repubblicana. Percentuali minori a favore di azionisti, anarchici e indipendenti. Il Congresso si svolge all’indomani dell’estromissione delle sinistre dal governo (maggio 1947) e sul dibattito pesano fortemente le tensioni e le divergenze fra la componente socialcomunista e quella cattolica. La discussione ruota attorno all’art. 9 dello Statuto che riguarda gli indirizzi politici del sindacato e le azioni di lotta: i rappresentanti DC, in parte sostenuti dagli stessi socialisti orientati a ridimensionare l'egemonia del PCI nel sindacato, ne chiedono la modifica per evitare che il sindacato si trasformi in uno strumento di lotta contro il governo. Nel tentativo di salvare l’unità l’articolo sarà riformato e, con il voto contrario della componente cristiana, passa la proposta di Fernando Santi (PSI) che fissa la maggioranza di tre quarti per le decisione politiche e la proclamazione degli scioperi politici. Unitaria, invece, la mozione conclusiva che chiede il risanamento monetario, l’azione contro il carovita e la disoccupazione, l’adozione di un minimo salariale, l’estensione a tutti i lavoratori della scala mobile su salari e stipendi, la riforma agraria e industriale. Il direttivo eletto dal Congresso sarà composto da 38 comunisti, 20 socialisti, 11 democristiani e 6 di correnti minori. La vita unitaria sarà brevissima, perchè dopo le elezioni politiche del 1948 la scissione sarà inevitabile.
 
 Se, dunque, nelle fabbriche del Nord il sindacato poté 
                in buona misura raccogliere i frutti del lungo e difficile lavoro 
                politico svolto soprattutto negli ultimi anni del regime fascista 
                e nella fase della lotta armata, la situazione nelle campagne 
                meridionali era ancora in larga parte contrassegnata dallo strapotere 
                degli agrari, che preferivano di gran lunga continuare a conservare 
                i vecchi rapporti di tipo semifeudale e le posizioni di rendita, 
                piuttosto che impegnarsi (come invece stavano tentando diversi 
                industriali del Nord) a rinnovare le strutture aziendali e i modi 
                di produzione.
 Lo Stato unitario aveva completamente trascurato la “questione 
                meridionale”, che tutti gli uomini di punta del 
                pensiero progressista, da Labriola a Salvemini a Gramsci, avevano 
                già da tempo indicato come il banco di prova decisivo per 
                misurare la capacità del nuovo Stato di far avanzare o 
                meno l’Italia verso uno sviluppo armonico ed equo.
 Il filosofo Antonio Labriola (1843-1904) contribuì in modo determinante a diffondere 
                in Italia le idee e le analisi di Marx. Gaetano Salvemini (1873-1957), storico e politico di area liberal-socialista, dedicò 
                una speciale attenzione ai problemi del meridione; nel 1925 fondò 
                il periodico antifascista Non Mollare e l’anno 
                dopo fu costretto all’esilio, aderendo a Giustizia e libertà. 
                Antonio Gramsci (1891-1937) diresse il settimanale 
                socialista Ordine Nuovo e fu uno dei principali dirigenti 
                dei Consigli di fabbrica; battute le posizioni estremistiche di 
                Bordiga, divenne Segretario del Partito Comunista nel 1924, anno 
                in cui fondò il quotidiano l’Unità; 
                venne arrestato nel 1926 (“Per vent’anni dobbiamo 
                impedire a questo cervello di funzionare” disse il 
                Presidente del Tribunale speciale) e dieci anni dopo uscì 
                dal carcere solo perché ormai ammalato in modo irrimediabile: 
                morì poco tempo dopo. È considerato forse il più 
                originale pensatore marxista (tanto che oggi è uno degli 
                italiani più tradotti e letti all’estero) e nei suoi 
                celebri Quaderni 
                del carcere analizzò con estrema acutezza 
                la realtà italiana, con particolare attenzione alla formazione 
                dello Stato, alla questione meridionale, al ruolo degli intellettuali, 
                alla funzione dei partiti politici.
 È opportuno ricordare che spesso il termine contadino viene usato impropriamente: questi è infatti è l’agricoltore 
                che da solo o coi familiari lavora direttamente l’appezzamento 
                di terra di cui è proprietario, o che ha preso in affitto 
                (in questo caso viene definito fittavolo); il bracciante, invece, 
                è un lavoratore dipendente a tutti gli effetti, cioè 
                un operaio salariato da un’azienda agricola; il mezzadro 
                o colono (figura ormai scomparsa, ma un tempo diffusissima) era 
                per così dire in una posizione intermedia: in genere era 
                un piccolo coltivatore diretto che lavorava un terreno appartenente 
                ad altri e che divideva col proprietario del fondo gli utili o 
                i prodotti.
 Progresso, giustizia sociale, cultura, coscienza civile: l’Italia 
                non portò nulla di tutto questo ai contadini meridionali, 
                bensì nuovi soprusi, emigrazione, arruolamenti, tasse: 
                “Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con 
                il Potere, con lo stato? Lo Stato, qualunque sia, sono ‘quelli 
                di Roma’, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi 
                si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, 
                la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono 
                dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. 
                Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, 
                e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!” (Carlo 
                Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945, 
                p. 67).
 “Nella mia terra i canti popolari sono tutti nenie dolenti, 
                non c’è un solo canto popolare che abbia un senso 
                di letizia.” (In: Ginsborg, op. cit., pp. 37-38). Così 
                scriveva il comunista calabrese Fausto Gullo, 
                un profondo conoscitore del Mezzogiorno, divenuto ministro dell’Agricoltura 
                nel 1944: il PCI aveva richiesto con particolare forza che questo 
                incarico venisse affidato a un proprio dirigente, proprio perché 
                aveva ben chiaro quanto fosse essenziale intervenire drasticamente 
                e con coraggio in quella realtà meridionale che era una 
                grande questione nazionale, il nodo fondamentale dello sviluppo 
                italiano.
 I vecchi patti agrari, cioè le varie forme 
                contrattuali che regolavano i rapporti fra il proprietario della 
                terra e chi effettivamente la lavorava, erano fra gli ostacoli 
                principali a uno sviluppo moderno dell’agricoltura, e l’iniziativa 
                legislativa di Gullo puntò innanzi tutto a modificare le 
                norme che li disciplinavano, stabilendo che al contadino andasse 
                almeno il 50% della produzione che doveva essere divisa e che 
                fossero prolungati i periodi di durata dei contratti; un’altra 
                direttiva fondamentale fu quella che promuoveva la cooperazione 
                fra contadini, dando la possibilità a queste forme associative 
                (e quindi promuovendo la collaborazione attiva fra persone storicamente 
                abituate all’individualismo) di coltivare le terre abbandonate, 
                e soprattutto quelle del latifondo, vale a dire le grandi proprietà, 
                sovente malcoltivate. Si trattava di misure ancora parziali, ma 
                in realtà ebbero un effetto dirompente (e infatti furono 
                ampiamente disattese dai successivi governi) e introdussero formidabili 
                elementi di dinamicità in realtà sociali dominate 
                da un secolare immobilismo.
 
  Anche sotto l’impulso dell’azione innovatrice di Gullo 
                (e quando mai i lavoratori avevano avuto dalla loro parte un Ministro?!) 
                anche la CGIL concentrò la propria iniziativa al Sud, cercando 
                di introdurre un minimo di regole nei rapporti fra salariati e 
                datori di lavoro: in primo luogo chiedendo l’obbligatorietà 
                delle liste di disoccupazione, in alternativa ai caporali 
                che venivano inviati dai padroni a reclutare la manodopera col 
                medievale sistema (tuttora usato in molte zone, comunque) di riunire 
                ogni mattina in piazza tutti i braccianti disponibili e di scegliere 
                tra loro; le leghe, cioè le organizzazioni 
                territoriali del sindacato, si battevano anche per introdurre 
                il cosiddetto imponibile di manodopera, cioè una norma 
                che imponesse all’azienda di assumere un numero di salariati 
              proporzionale all’estensione della proprietà. 
 Gli agrari si opposero tenacemente a queste ipotesi riformatrici 
                e fu la mafia fornire
                ai grandi proprietari i mezzi “tecnici” per 
                rispondere alle rivendicazioni sindacali. A questo proposito vale 
                la pena notare come più volte sia stato detto che almeno 
                il fascismo ebbe il merito di aver debellato la mafia; è 
                vero che durante il ventennio il fenomeno mafioso sembrò 
                essere scomparso, ma la ragione è che la dittatura era 
                di per sé sufficiente a garantire i privilegi e dunque 
                non c’era bisogno della mafia. La democrazia, garantendo 
                la libertà di parola e di organizzazione, permise appunto 
                il riemergere della dialettica sociale e quindi ridiede alla mafia 
                la sua funzione di drastico strumento regolatore dei conflitti. 
                E più avanti si vedrà l’evoluzione che ebbe 
                Cosa Nostra rispetto ai mutamenti della società. (Schematicamente:
                con questo termine vengono definite le organizzazioni criminali
                operanti in Sicilia, mentre quelle di altre zone meridionali,
                come la Calabria, la Puglia e la Campania, sono la ‘ndrangheta, la Sacra Corona Unita 
                e la camorra.)
 Ecco, fra gli innumerevoli che si potrebbero ricordare, due episodi 
                emblematici: Girolamo Li Causi era uno dei dirigenti
                comunisti più autorevoli e popolari della Sicilia e un 
                giorno si recò insieme all’esponente socialista
                Michele Pantaleone (che fra l’altro è l’autore
                di Mafia e politica, Einaudi, 1962, uno dei più 
                bei libri sull’argomento) a tenere un discorso a Villalba,
                una cittadina della Sicilia centrale, feudo del capomafia don
                Calò Vizzini; costui aveva mobilitato i “picciotti” 
                affinché scoraggiassero in tutti i modi la partecipazione 
                di braccianti e contadini, che però si recarono piuttosto 
                numerosi al comizio. Malgrado il suono delle campane (il parroco 
                era il fratello di Calò) Li Causi riusciva a farsi ascoltare: 
                ma al primo applauso don Calò fece un segnale ai suoi,
                che cominciarono a sparare.
 Il 1° maggio 1947 le leghe e i partiti di 
                sinistra organizzarono una manifestazione a Portella 
                della Ginestra: centinaia di persone erano arrivate
                da tutti i paesi vicini, c’erano intere famiglie vestite 
                a festa e con le bandiere rosse, e dall’alto di una collina
                le osservava Salvatore Giuliano, il famoso bandito 
                che mafia e agrari avevano inviato a Portella per ricordare a 
                tutti chi comandava in quelle terre. Appena iniziato il comizio 
                la folla fu presa di mira da una mitragliatrice e undici persone 
                vennero assassinate.
 Malgrado tutto, il movimento di lotta nelle campagne meridionali
                si allargò e si estese, ma non vi erano le condizioni politiche 
                generali perché riuscisse a ottenere un’organica
                riforma agraria e un vero cambiamento delle classi dirigenti
              del Mezzogiorno.
 
 
 Le 
                sinistre “incoraggiano il movimento ma, al tempo stesso, 
                vorrebbero scongiurare una radicalizzazione che possa diventare 
                elemento di turbamento al difficile equilibrio governativo” 
                (Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista italiano, 
            v. 5°, Einaudi, 1975, p. 494). 
   
 Come in tutti i momenti della storia in cui alla necessità 
                vitale di grandi modificazioni non si ac-compagna la forza reale 
                per gestire tali trasformazioni, anche in quel frangente i partiti 
                progressisti erano prigionieri di una drammatica contraddizione: 
                gli operai del Nord e i contadini del Sud difendevano con rabbia 
                e determinazione i loro diritti, ma le classi medie, la piccola 
                borghesia, e larghi settori degli stessi ceti popolari, erano 
                spaventati da rivendicazioni che temevano andassero a compromettere 
                una situazione economica già precaria.
 Lo stesso Piano del lavoro formulato dalla CGIL 
                (1949) sarà visto dal mondo imprenditoriale e dalla DC 
                come un elemento di pericolosa destabilizzazione, e addirittura 
                definito da taluni come lo strumento per “sovietizzare” 
                l’economia italiana, tanto che non ebbe riscontri reali 
                nelle scelte governative. In realtà si trattava di un programma 
                improntato a notevole realismo e di impianto nettamente riformista, 
                oltre che il primo esempio di capacità progettuale a lungo 
                termine espresso dalla politica italiana: l’idea di fondo 
                era orientare la spesa pubblica in tre grandi settori di interesse 
                collettivo - nazionalizzazione dell’energia elettrica 
                e costruzione di nuove centrali, bonifica su larga scala dei terreni, 
                lavori pubblici e di edilizia popolare - in modo da collegare 
                lo sforzo per la ricostruzione alla realizzazione di centinaia 
                di migliaia di posti di lavoro. Oggi il termine riformismo è molto usato, e acquisito da tutta la sinistra, ma non 
                bisogna dimenticare che per molti anni - quando nella sinistra 
                assai più contrapposte erano l’anima radicale e quella 
              moderata - riformista era in secca antitesi a rivoluzionario.
 
 
  
  
 
 L’unica possibilità di conciliare in qualche modo 
                queste opposte spinte (rivendicazioni operaie e spirito di conservazione 
                dei ceti medi) era tentare di mantenere stabile il quadro politico, 
                cioè di tenere unite al governo le forze che erano riuscite 
                a guidare di comune accordo la lotta di liberazione. Ma era un 
                progetto destinato a fallire, malgrado i numerosi compromessi 
                imposti da De Gasperi a Nenni (socialista dal 
                1921, direttore dell’Avanti! dal 1923 al 1925, 
                nel ‘26 fu costretto a fuggire in Francia, dove lavorò 
                attivamente per arrivare al patto di unità d’azione 
                coi comunisti (1930). Fu uno dei massimi dirigenti delle Brigate 
                Internazionali durante la guerra civile spagnola. Segretario del 
                PSI dal 1949 al 1964, fu Vicepresidente del Consiglio e poi Ministro 
                degli Esteri nei primi governi De Gasperi. Ancora Vicepresidente 
                del Consiglio dal ‘63 al ‘68 e poi Ministro degli 
                Esteri nel ‘68 e ‘69. Senatore a vita, è morto 
                nel 1980) e Togliatti. Quest’ultimo, ad esempio, in qualità 
                di Ministro della Giustizia, nel 1946 firmò l’amnistia per i dirigenti fascisti e, soprattutto, non diede alcun seguito 
                all’epurazione dei funzionari della pubblica amministrazione 
                particolarmente compromessi col passato regime.
 Dei magistrati, prefetti e questori - cioè tutti alti funzionari 
                - che avevano prestato servizio sotto le direttive fasciste, praticamente 
                nessuno venne allontanato. Fece molto clamore, anni fa, un episodio 
                che ebbe come protagonista l’allora Presidente della Camera 
                Sandro Pertini: giunto in visita a Milano, si rifiutò di 
                stringere la mano a un certo funzionario, che era stato vicedirettore 
                di un carcere proprio quando Pertini, nel medesimo carcere, scontava 
                la condanna inflittagli dal Tribunale Speciale fascista!
 In ogni caso sia De Gasperi che Togliatti erano perfettamente 
                consapevoli che prima dell’inevitabile resa dei conti era 
                indispensabile portare a compimento il complesso lavoro necessario 
                per dare alla Repubblica il suo assetto istituzionale, e per diciotto 
                mesi l’Assemblea Costituente, presieduta da Umberto Terracini, 
                fu impegnata nella stesura della nuova Costituzione. 
                Non mancarono, come vedremo, i motivi di contrasto, ma vi fu una 
                coesione pressoché unanime nel disegnare la forma del nuovo 
                Stato: partendo dal principio, tipico delle democrazie rappresentative, 
                dell’equilibrio fra potere legislativo (Parlamento), esecutivo 
                (governo) e giudiziario (magistratura), venne esclusa qualsiasi 
                forma di presidenzialismo, vale a dire di sistema in cui (come 
                negli Stati Uniti) coincidessero la figura del Capo dello Stato, 
                o Presidente della Repubblica, e quella del Primo Ministro (in 
                realtà in Italia questa figura di capo del Governo è 
                indicata come Presidente del Consiglio dei Ministri), o nel quale 
                (come in Francia) le due figure fossero sì distinte ma 
                con una netta prevalenza del potere del Presidente, in entrambi 
                i casi eletto direttamente dal popolo. Al Presidente della Repubblica 
                italiana, eletto dalle Camere riunite ogni sette anni, vennero 
                riservati solo alcuni poteri limitati, tra cui quelli di promulgare 
                le leggi, di nominare il Presidente del Consiglio, di sciogliere 
                le Camere, di indire le elezioni (Ogni legge votata dal Parlamento, 
                cioè, per diventare operante deve portare la firma del 
                Presidente della Repubblica, il quale può anche rifiutarsi 
                di promulgare un provvedimento se vi sono dei gravi motivi - ad 
                esempio se il Presidente ritiene che tale legge contrasti con 
                la Costituzione, o nel caso non vi sia la cosiddetta copertura 
                finanziaria, se cioè la legge al proprio interno non indica 
                chiaramente come saranno reperiti i soldi necessari per applicarla: 
                in tal caso la legge ritorna al Parlamento per essere nuovamente 
                esaminata).
 L’architettura dello Stato doveva basarsi su un regime parlamentare 
                bicamerale, in cui cioè la formazione e l’attività 
                del governo fossero rigidamente sottoposti al controllo dei due 
                rami del Parlamento (Camera dei Deputati, 547 membri, e Senato, 
                237 membri, che dal 1963 passarono agli attuali 630 e 315). Questi 
                dovevano essere eletti, ogni cinque anni, secondo un sistema elettorale 
                di tipo proporzionale “puro”, in cui cioè anche 
                i più piccoli partiti avrebbero avuto la propria rappresentanza 
                in Parlamento in esatta proporzione ai voti ottenuti: teoricamente 
                si tratta di una formula che garantisce la massima equità, 
                ma col passare degli anni si venne affermando sempre più 
                la consapevolezza che tale meccanismo produceva un’eccessiva 
                frammentazione dei consensi, alimentando il proliferare delle 
                formazioni politiche e rendendo particolarmente complicato il 
                processo di composizione dei governi. Ciascuno di essi, infatti, 
                doveva necessariamente costituirsi per mezzo di trattative, sovente 
                assai difficili, fra i vari partiti, e quindi sulla base di maggioranze 
                parlamentari il più delle volte molto precarie: tant’è 
                vero che da quando l’Italia è una Repubblica si sono 
                avvicendati ben 52 governi, con una durata media 
                inferiore a un anno, a differenza di tutti gli altri paesi occidentali 
                (prima dell'infausto record raggiunto da Silvio Berlusconi nel 2004, il governo più lungo era stato quello di Bettino 
                Craxi, dal 4.8.83 al 27.6.86 (1058 giorni); il più breve: 
                Giulio Andreotti, febbraio ‘72 (9 giorni).
 Alcuni articoli della Costituzione, e in particolare quelli riferiti 
                ai rapporti economici, furono oggetto di notevoli discussioni, 
                perché da taluni ritenuti troppo sbilanciati a favore dei 
                lavoratori, ma è sul famoso articolo 7, 
                che regolava i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica, che vi fu 
                la battaglia più aspra: il Vaticano fece pressioni enormi 
                affinché venisse integralmente recepito il Concordato firmato nel 1929 con Mussolini, e che tra l’altro proclamava 
                il cattolicesimo religione ufficiale dello Stato e rendeva obbligatorio 
                l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Le 
                sinistre e i laici ovviamente si opposero con forza, ma alla fine 
                Togliatti impose al proprio partito di votare a favore, motivando 
                tale scelta con la necessità di non accentuare la già 
                pesante spaccatura col mondo cattolico. Ad eccezione di Teresa 
                Noce, tutti i parlamentari comunisti si adeguarono. Un episodio 
                sconosciuto ai più, ma di un certo rilievo: l’onorevole 
                Grilli, senza consultarsi con nessuno, e provocando un notevole 
                scompiglio nelle file della sinistra, riuscì a far passare 
                un emendamento che eliminava ogni accenno all’indissolubilità 
                del matrimonio: ciò che permise, anni dopo, di varare la 
                legge sul divorzio senza dover ricorrere (cosa che sarebbe stata 
                politicamente assai difficile) a una modifica costituzionale. 
                (Cfr.: Ginsborg, op. cit., pp. 132-133)
 
 Il 27 dicembre 1947 il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De 
                Nicola, promulgò la Costituzione, 
                che entrò in vigore il 1° gennaio 1948,  
                e che tuttora resta una delle carte costituzionali più  
                avanzate del mondo.
 
  
 
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