BREVE STORIA D'ITALIA

 

REPUBBLICA O MONARCHIA?

Nel 1944 la cosiddetta svolta di Salerno promossa da Togliatti fece sì che i contrasti fra i partiti antifascisti sulla questione istituzionale (il punto era: l’Italia poteva o no continuare ad essere una monarchia, dopo che il Re era stato così a lungo partner di Mussolini?) fossero rinviati a dopo la vittoria sul nazifascismo, e infatti su questo tema si concentrarono le forze politiche all’indomani del conflitto.
Circa un mese dopo l’insurrezione del 25 aprile, lo schieramento antifascista promosse unitariamente un governo presieduto da Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione e vicecomandante del CVL: il fatto che uno dei più prestigiosi capi partigiani assumesse l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri parve senz’altro un fatto positivo per tutti coloro i quali speravano che lo slancio rivoluzionario della Resistenza producesse una rottura drastica non solo col vecchio regime, ma soprattutto con la pesantissima situazione economica e sociale in cui si trovava gran parte della popolazione italiana. Se tuttavia il vento del Nord soffiava impetuoso, esso perdeva vigore mano a mano che scendeva verso le zone del centro-Sud, in cui la Resistenza era stata debole o addirittura inesistente e dove quindi la gente guardava con perplessità, se non con aperta ostilità, i comitati politici e le strutture sindacali che all’improvviso sorgevano un po’ dappertutto: in molti è ancora ben presente la grande paura suscitata dai movimenti rivoluzionari dei primi anni ‘20.
Di tale clima si fecero interpreti molto abilmente liberali e democristiani, appoggiati dagli ambienti vicini alla Corte, dalle gerarchie ecclesiastiche, dai poteri forti della finanza e dell’economia. Ma vi è un elemento che più d’ogni altro non solo condizionò quel periodo ma risulterà decisivo in tutti i successivi quarant’anni: il fatto che l’Italia rientrava, come si è già detto, nella sfera d’influenza degli USA, e che quindi il governo statunitense non avrebbe permesso in alcun modo che un paese di fondamentale importanza strategica fosse governato dalle sinistre. Oltre a tutto la presenza massiccia delle truppe angloamericane era di per sé un deterrente formidabile rispetto a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria “classica”, dove cioè alla lotta armata per le libertà fondamentali seguiva immediatamente quella volta a sconfiggere la borghesia e ad instaurare il potere della classe operaia.
In Grecia, ad esempio, dove il partito comunista ebbe - come del resto in Italia - un ruolo preminente nella Resistenza, venne appunto effettuato un tentativo del genere: la guerra civile che ne seguì fu particolarmente sanguinosa e, grazie al determinante intervento britannico, i comunisti furono distrutti.

Vi è inoltre un aspetto che il più delle volte è stato sottovalutato nel cercare di comprendere come mai lo spirito e le speranze della Resistenza abbiano avuto esiti assai più modesti di quanto i partigiani avessero immaginato: finite le ostilità, vi era un disperato bisogno di lasciarsi alle spalle la fame, le distruzioni, gli orrori, e di ricostruire il paese, riattivando i servizi pubblici, la produzione agricola e industriale, l’amministrazione della giustizia, la scuola. Si produsse allora un fenomeno che immancabilmente si è sempre verificato dopo ogni sommovimento, anche tumultuoso, di una società: il diffondersi (anche in chi sognava la rivoluzione) di un’incontenibile voglia di normalità. E su tutto questo s’innestò un fattore che per sua natura è di conservazione, di freno alle spinte innovative: “la forza enorme costituita, nello stato moderno, dalla burocrazia, dalla struttura amministrativa dello stato. É una forza meno appariscente dei partiti, ma che possiede una continuità, e può quindi esercitare col tempo un influsso forse superiore a quello dei partiti. Lo stato moderno è, per molta parte, l’organizzazione tecnica della vita pubblica, cioè la burocrazia.” (Chabod, op. cit., p. 141.)
E se si pensa che nessuna società moderna (indipendentemente dal sistema politico con cui è governata) può reggersi senza apparati tecnici che garantiscano il sistema dei servizi, ben si comprende come la società italiana di allora, che oltre a tutto era stata fortemente burocratizzata prima dal liberalismo e poi dal fascismo, non poteva certo privarsi di queste strutture. Né, d’altra parte, poteva attuarsi in tempi brevi una riforma della pubblica amministrazione, che, non a caso, attende da cinquant’anni di essere realizzata. In queste condizioni il braccio di ferro tra forze progressiste e moderate era destinato inevitabilmente a risolversi a favore di quest’ultime.
PLI e DC dopo pochi mesi tolsero il loro appoggio a Parri e la sinistra capì che, almeno per il momento, la battaglia politica era persa. Nel dicembre del ‘45 si costituì il primo governo guidato da Alcide De Gasperi, Segretario della Democrazia Cristiana: deputato trentino (1911) nel Parlamento austriaco, poi (1921) nel Parlamento italiano, fu Segretario del PPI dal 1923 al 1925; arrestato dai fascisti nel 1927, scontò 16 mesi di carcere.
È dunque in un clima segnato dal successo dei moderati che si va alle prime prove elettorali dopo vent’anni di dittatura (talvolta qualche nostalgico insiste nel ricordare che invece sotto il fascismo si votava: sì, si votava, ma col democraticissimo metodo in base al quale l’elettore poteva solo accettare o respingere la lista dei deputati designati, cioè decisi al vertice, dal Gran Consiglio del fascismo), le prime, anche, in cui le donne hanno diritto di voto. Nella primavera del 1946 si tengono le elezioni amministrative per formare i consigli comunali e già si delinea con chiarezza il quadro politico: se fino a quel momento i partiti antifascisti avevano ciascuno pari dignità (e anche uguale peso politico: ebbero ciascuno identico numero di partecipanti nella Consulta, l’organismo che elaborò le regole con cui si sarebbe andati a votare per l’Assemblea Costituente, da cui sarebbe scaturita la nuova Costituzione), il voto popolare di fatto cancellò il glorioso Partito d’Azione (che infatti si sciolse), ridimensionò fortemente le aspettative dei liberali, e si orientò compatto verso le tre grandi forze politiche, democristiani, socialisti e comunisti.
Risultato confermato poche settimane dopo allorché si votò per l’Assemblea Costituente: la DC ottenne il 35,2 %, il PSI il 20,7%, il PCI il 19%, cioè, complessivamente quasi il 75% del totale.

A queste elezioni politiche, nella stessa giornata del 2 giugno 1946, si affiancò un’altra, e ancora più importante, consultazione: il referendum con cui gli italiani dovevano scegliere fra monarchia e repubblica. Non si creda che tale scadenza fosse scontata, perché forze potenti agirono per evitarla: le stesse forze che, soprattutto al Sud, poi si batterono con particolare asprezza per il sì alla monarchia, e ricorrendo a quel “voto di scambio” (tu voti per me ed io in cambio ti faccio un favore, ti trovo un lavoro, ti offro dei soldi, ecc.) che diverrà un’abitudine praticata con gran disinvoltura dai partiti di governo negli anni successivi. Ma almeno su questo, decisivo, obiettivo il vento del Nord non mancò l’appuntamento: riuscì a ottenere che il referendum si svolgesse malgrado varie manovre per dilazionare ancora il momento della scelta, come ad esempio la decisione di Vittorio Emanuele III di abdicare a favore del figlio Umberto. Si trattò certo di una mossa abile da parte del Re, ma assai tardiva (maggio 1945: perciò Umberto fu chiamato il “Re di maggio”), che invece forse avrebbe avuto ben altro esito, ai fini di ripristinare un’immagine dignitosa della monarchia, se ad esempio fosse stata presa nel ‘43.





La repubblica ottenne oltre 12.717.923 voti, due milioni in più della monarchia: un distacco nettissimo, il quale tuttavia non impedì ai sostenitori del Re di proclamare a gran voce che il risultato era stato frutto di brogli e di pressioni, che, al contrario, furono piuttosto attuati dall’altra parte.
La repubblica ottenne i risultati migliori in Trentino (85%), in Emilia (77%) e complessivamente nel centro Nord, la monarchia in Campania (78%) e nelle regioni meridionali: ciò rispecchiava anche le zone d’influenza dei partiti, repubblicani quelli di sinistra, a favore del Re i liberali (varie formazioni raggruppate nell'Unione Democratica Nazionale e nel Blocco Nazionale della Libertà, di chiara ispirazione monarchica) e parte della DC; ma quest’ultima al Nord era nettamente per la repubblica, e lo conferma appunto il voto del Trentino, dove la DC aveva una larga maggioranza.

ORDINAMENTO della REPUBBLICA ITALIANA