inizio rosso e giallo


Mauro Boncompagni

Carr e il mistero della camera chiusa

 


«Noi siamo gente tranquilla. Stiamo per conto nostro. Non ci interessiamo degli affari altrui. Abbiamo la nostra stanza. Non ci occupiamo degli altri. Ci piace di vivere così.» Quel che può rappresentare una stanza nella drammaturgia contemporanea ce lo dice a sufficienza questa patetica, esclusiva professione di fede testimoniata da un personaggio di una commedia di Harold Pinter, The Room (1959). E non solo in questa, ma in quasi tutte le commedie di Pinter la stanza, uno spazio chiuso e circoscritto, diventa il centro dell'azione, un luogo ossessivo e sinistro in cui si celebrano riti sovente incomprensibili ai loro stessi officianti, dove le regole del gioco sociale vengono messe radicalmente in discussione e il linguaggio non corrisponde più al pensiero, i gesti si separano dalle intenzioni, i movimenti sono bloccati sul nascere ed annullati. Tutto è come percorso da una stessa oscura negatività, che capovolge la visione ordinaria del reale e la presenta come enigma. La stanza pinteriana è, in questo senso, una metafora del vuoto, una celebrazione dell'Essere come Assenza a cui si aggrappano quelle pallide larve che, come la Rose della citazione iniziale, la abitano.
-Qualcosa di questa sinistra ossessione - orientata, è bene dirlo subito, ludicamente - attraversa anche le camere chiuse di John Dickson Carr, e la devozione fanatica di Rose non è poi molto dissimile dal tenace accanimento con il quale i seguaci dello scrittore americano, che sembrano aver occhi solo per questi equivoci locali, divorano i suoi romanzi, attratti dai loro incantesimi come i poeti decadenti erano attratti dai fiori del male. E ne hanno ben donde: la camera chiusa è una ossessione innanzitutto per lo stesso Carr, che dedica ad essa tutta la sua produzione. I malati - incurabili - di Golden Age sanno bene che la tecnica della camera chiusa, del delitto maturato tra le pareti di una stanza accuratamente sprangata dall'interno e nella quale viene rinvenuta soltanto la vittima, non è un'invenzione di Carr; dopo Poe (I delitti delle Rue Morgue) e dopo Zangwill (The Big Bow Mystery), dopo Wallace (autore di molte variazioni sul tema, prima delle quali fu I quattro giusti) e dopo Leroux (// mistero della camera gialla), negli anni Venti e Trenta non pochi scrittori si erano provati in questo particolare tipo di problema poliziesco, e chi volesse scorrere una bibliografia non completa ma sufficientemente vasta protrebbe consultare il volume di Robert Adey Locked Room Murders and Other Impossible Crime (London, Ferret Fantasy, 1979). Ma anche dopo il tramonto della Golden Age, il delitto della camera chiusa ha continuato ad attirare proseliti, e non c'è quasi autore di una certa importanza, da S. S. Van Dine ad Agatha Christie, da Philip MacDonald ad Ellery Queen, che non abbia dato un contributo allo sviluppo di questo genere. Una recente inchiesta, condotta da Edward D. Hoch con l'ausilio di alcuni eminenti critici americani, ha decretato in Le tre bare di Carr e in Rim of the Tip di Hake Talbot (1944; un'opera tanto grande quanto misconosciuta e ancora inedita in italiano) i due migliori romanzi di camera chiusa mai scritti.
Se non ne è l'inventore, Carr è però l'indiscusso maestro di questo genere poliziesco; e lo è, più che per l'abbondanza della sua produzione, per la costante qualità dei risultati. Riprendendo una una tecnica già usata da altri in precedenza, Carr la piega ad ogni possibile variazione, ne affina i meccanismi con una ostinazione illusionistica che dà a volte le vertigini, la conduce ad esiti di sbalorditiva complessità. Il primo «giallo da camera» dello scrittore americano è anche la sua prima opera in asssoluto, Il mostro del plenilunio; ma il particolare delitto impossibile proposto in questo romanzo non è dei più sollcitanti, quasi che Carr si fosse limitato ad offrire un piccolo saggio senza ancora voler affrontare le risorse del genere con il necessario spirito di competizione.
È solo a partire dal gruppo di romanzi apparsi nel 1934 con lo pseudonimo di Carter Dickson, che il problema della camera chiusa verrà esplorato sistematicamente, inventando situazioni originali e soluzioni al limite del virtuosismo acrobatico, inserendo discussioni e conferenze in cui, con pazienza classificatoria ed un'ossessione analitca che nasce come risvolto terapeutico di un'accesa pratica devozionale, gli investigatori di volta in volta emergenti lascino i segni visibili della loro presnzai non meno concettuale che materiale. Mai, come di fronte ad una camera chiusa, il narcisismo sublimato di H. M. o di Gideon Fell ha modo di imporsi con tanta prepotente evidenza; in nessun altro spazio, che non sia questo così circoscritto e limitato, quella logocrazia che affligge inesorabilmente i due investigatori carriani può apparire più giustificata e benedetta. Non c'è 'soltanto la notissima e mastodontica preferenza del dr. Fell, ne Le tre bare, sui vari modi di commettere un delitto in una camera chiusa; H. M. aveva comninciato già un anno prima, in The White Priory Murders, a discutere sui moventi che possono indurre un assassino a creare situazioni impossibili, e il discorso sarebbe stato ripreso, tre anni dopo, in una delle camere più paradossali mai allestite in un romanzo di Carr, quella che campeggia in The Ten Teacups. La situazione, qui, è a dir poco sconcertante: all'interno di una stanza, le cui aperture (porta e finestra) sono sorvegliate a vista da testimoni degni di fede e situati a pochi metri di distanza, un uomo viene assassinato con due colpi di pistola sparati a bruciapelo; ma quando, pochi secondi dopo, uno dei testimoni fa la sua irruzione nel locale non trova altro che la vittima, le cui carni ancora rosseggiano per le bruciature. L'assassino si è volatilizzato - faded into thin air, come amava dire Carr. Se non siete lettori abituali di Carr e pensate ad un suicidio o ad un passaggio segreto, scartate pure queste ipotesi: sono un insulto all'intelligenza dell'autore e il meno che vi possa capitare, come salutare contrappasso punitivo per averle formulate, è qualche incubo notturno sapidamente nutrito di spezzoni di conferenze felliane. Se leggete abitualmente Carr, potete magari tentare di elaborare qualche spiegazione immaginosa; ma questa volta gli handicap sono così numerosi da mettee in difficoltà anche i più attrezzati purosangue, e difficilmente arriverete aI traguardo prima di H. M. Consolatevi: il romanzo sarà tradotto non appena si saranno liberati i diritti.
Era solo un esempio; ma molti altri se ne potrebbero aggiungere, tanto più se si tiene conto che il mistero della camera chiusa assume sovente in Carr la forma più generica del delitto impossibile, di un delitto, cioè, commesso in circostanze altrettanto inspiegabili ma entro scenari più vasti. In questo senso, camere chiuse sono anche il campo da tennis di Gideon Fell e la gabbia mortale, la piscina di H. M. e il fantasma di un amore, il tetto di The Skeleton in the Clock, la rampa di scale di The Unicorn Murders (unico, tra i pur straordinari romanzi di Carr, e forse quello più «ipnotico» di tutti), ecc.
Muta l'ambientazione ma non cambia la qualità del problema. Questa particolare qualità, che è poi il denominatore comune di quasi tutti i romanzi di Carr, è ciò che consente di presentare un delitto come se fosse uno spettacolo illusionistico. Il fascino delle indagini sui misteri di camera chiusa è lo stesso fascino dell'impossibile e dell'inspiegabile che circonda le operazioni dei grandi maghi; solo che alla fine il trucco viene svelato e l'intelligenza del lettore non ne esce sconfitta. È proprio perché è impossibile che un uomo venga assassinato in una stanza ermeticamente chiusa dall'interno, che diventa affascinante tentare di spiegarlo. E la ragione non è mai così orgogliosa dei suoi trionfi come quando si oppone con successo a ciò che vorrebbe negarla, e così facendo trasforma l'Assenza (di verosimiglianza, senso logico, ecc.), che regna nefasta nelle camere chiuse, in Presenza nuovamente consolatoria e rassicurante. La camera chiusa sarà pure uno dei fantasmi più inquietanti della nostra prosaica esistenza; ma - confessiamolo - non siamo mai stati così sicuri di noi come quando ne abbiamo varcato la soglia in compagnia di qualche asmatico dottore o di qualche Vecchio vanitoso e brontolone.