Alberto Burgos

Breve storia del PCI

Nel 1921 si tenne a Livorno il XVII Congresso del Partito Socialista: la frazione comunista guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, che non riteneva più possibile continuare a rimanere nel vecchio partito, abbandonò i lavori e il 21 gennaio si riunì nel congresso fondativo del Partito Comunista d'Italia - sezione dell'Internazionale Comunista.
Su come si realizzò la scissione, gli stessi Gramsci e Togliatti espressero più tardi un giudizio parzialmente autocritico, e in effetti nel breve periodo essa contribuì ad indebolire ulteriormente la capacità di resistenza del proletariato che, pur continuando in gran parte a far riferimento al PSI, rimase disorientato dalla durissima lotta intestina apertasi a sinistra.
Il primo Segretario del partito fu Amadeo Bordiga, ma la sua direzione, settaria ed estremista, fu messa sotto accusa al III congresso del PCd'I (Lione, 1926) ed egli fu estromesso dal gruppo dirigente: prevalse, cioè, la linea elaborata da Gramsci e Palmiro Togliatti nelle Tesi di Lione, dove si ponevano le premesse per la costruzione di un partito di massa e veniva svolta un'acuta analisi del fascismo, cogliendone le tendenze all'imperialismo e alla guerra. Questo ragionamento venne poi ripreso da Togliatti qualche anno più tardi in quella che resta sicuramente la riflessione più lucida sul regime, Le lezioni sul fascismo: qui troviamo una delle più limpide definizioni del fascismo, "regime reazionario di massa".

Con le leggi speciali, "fascistissime", del 1926 tutti i partiti e i sindacati furono dichiarati illegali e anche il PCd'I fu parzialmente decapitato, coi suoi dirigenti imprigionati o inviati al confino: lo stesso Gramsci restò in carcere dieci anni e morì subito dopo essere stato liberato, nel 1937; molti quadri, però, riuscirono ad espatriare, concentrandosi soprattutto a Parigi e a Mosca e il PCd'I si organizzò nella clandestinità: nonostante la repressione fascista riuscì a sopravvivere, e fu anzi l'unica forza politica antifascista che per tutto il ventennio continuò tenacemente ad operare. Questo fu dovuto essenzialmente a due fattori: il grande spirito di sacrificio e la ferrea organizzazione del partito leninista, ovvero la capacità, che il PCd'I conservò anche nei momenti più difficili, di mantenere profondi legami con il popolo.
Di rilievo alcuni momenti di forte tensione all'interno del gruppo dirigente: nel 1938, dopo la firma del patto di non aggressione fra URSS e Germania, alcuni esponenti di primo piano come Umberto Terracini e Camilla Ravera giudicarono inaccettabile questo accordo e furono espulsi dal partito (salvo venir riammessi appena finita la guerra). Prima ancora Gramsci aveva esplicitamente dissentito sul modo in cui veniva gestito il PCUS dopo la morte di Lenin e per questa ragione, pur mantenendo formalmente la carica di Segretario, fu di fatto emarginato: evidentemente la grande acutezza di Gramsci, oltre al fatto che si trovava in carcere, gli aveva consentito di cogliere nel Testamento di Lenin ciò che altri non seppero o non vollero vedere.

Assai numerosi furono i militanti comunisti che accorsero nelle Brigate Internazionali, formatesi in appoggio della Repubblica durante la guerra civile spagnola, e molti dirigenti del PCd'I ebbero un ruolo di primissimo piano (oltre a Togliatti, Luigi Longo, Vittorio Vidali - il leggendario Carlos, comandante il 5° Regimiento - Giuliano Pajetta e tanti altri).
Decisivo fu il contributo dei comunisti durante la Resistenza: le Brigate Garibaldi furono le principali formazioni combattenti (a cui si affiancarono i raggruppamenti organizzati da Giustizia e Libertà, dal PSI e dalla DC, e quelli senza uno specifico orientamento politico) e dei circa 45.000 partigiani morti oltre 30.000 erano comunisti.

I partiti antifascisti:
Democrazia cristiana
: fu costituita nel 1942 da dirigenti del disciolto Partito Popolare Italiano, la formazione cattolica fondata nel 1919 da don Luigi Sturzo; nel 1994 si è sciolta, e i suoi dirigenti hanno dato vita a varie formazioni, legate alla coalizione di centrosinistra (in particolare il PPI, poi Margherita, e l'UDEUR) o a quella di centrodestra (CCD, CDU, riunitesi nell'UDC).
Partito d’Azione: fu fondato da Mazzini nel 1853 con un programma repubblicano, laico e riformista: ad esso si ispirarono i gruppi dell’area liberale e socialista (soprattutto il movimento Giustizia e libertà) che nel 1942 si costituirono in Partito; nell’immediato dopoguerra questa forza si sciolse: l’ala più moderata, guidata da Ugo La Malfa, confluì nel rinato Partito Repubblicano Italiano, mentre gli esponenti della sinistra entrarono nel PCI o nel PSI.
Partito Democratico del Lavoro: formazione minore di tipo liberal-socialista che ebbe brevissima vita.
Partito Liberale Italiano: fondato nel 1942 ispirandosi al liberalismo post-risorgimentale, nel 1956 vide la scissione della sua ala sinistra che formò il Partito Radicale; guidato per molti anni da Giovanni Malagodi, si è sciolto nel 1994. Va precisato che il PLI fu un partito decisamente conservatore, assai distante dal liberalismo progressista di Gobetti (1901-1926) e della sua Rivoluzione Liberale.
Partito Socialista Italiano: fondato nel 1892 come Partito dei Lavoratori Italiani, l’anno successivo prese il nome di PSI; ne fece parte anche Mussolini (che addirittura fu direttore de l'Avanti!) fino allo scoppio della prima guerra mondiale; i suoi capi storici furono Filippo Turati durante il fascismo e Pietro Nenni nel dopoguerra, e subì la scissione dell’ala destra nel 1947 (da cui nacque il Partito Socialdemocratico di Saragat) e di quella sinistra nel 1964 (PSIUP); guidato dal 1976 al 1993 da Bettino Craxi, dimessosi in seguito a Tangentopoli, si è sciolto, disperdendosi in varie formazioni, nel 1994. Una ricchissima bibliografia sul socialismo in: socialisti.net/.

Con il rientro in Italia nel 1944 di Palmiro Togliatti da Mosca, il PCI (il nuovo nome fu adottato dopo lo scioglimento del Komintern, nel '43) si conquistò subito un ruolo primario nel processo politico: in un famoso discorso tenuto a Salerno (marzo 1944) Togliatti propose, vincendo anche forti riserve interne, di rinviare senz’altro a guerra finita il dibattito sulla questione istituzionale (sì o no alla monarchia), poiché era assolutamente vitale che tutti gli italiani fossero uniti intorno all'obiettivo principale, la cacciata e la sconfitta dei tedeschi (svolta di Salerno). Malgrado la contrarietà di azionisti e socialisti questa linea fu adottata da tutto il CLN e non mancò di dare i suoi frutti.
Togliatti non solo aveva ben presente le priorità assolute di quel momento, ma aveva intuito i possibili scenari del dopoguerra, in cui il PCI avrebbe dovuto certamente mantenere la propria natura di partito rivoluzionario e di classe, ma assumendo altresì il ruolo di grande forza nazionale, con robusti legami con tutto il tessuto sociale e in grado di far fronte anche ai più delicati compiti di governo.
Era il partito nuovo, solido, flessibile, determinato, moderno, fedele alla concezione leninista ma proiettato nel futuro e, soprattutto, concentrato nell'analisi della situazione italiana: un'elaborazione che andrà precisandosi sempre meglio, anche in virtù del contributo teorico fondamentale contenuto nelle pagine, densissime e uniche, scritte da Gramsci: quei Quaderni del carcere che restano una delle grandi opere del pensiero novecentesco.
Nel 1947, nel clima della Guerra fredda, le fortissime pressioni dell'amministrazione americana portarono De Gasperi a rompere l'unità nazionale e il PCI fu estromesso dal governo e confinato all'opposizione: nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948 si ebbe la conferma del nuovo corso politico, con la clamorosa e schiacciante vittoria della DC sul Fronte Popolare formato da comunisti e socialisti. Anni dopo Giorgio Amendola, uno dei principali dirigenti comunisti, riflettendo su questa sconfitta mise in evidenza il grave errore commesso dal PCI: nei comizi del Fronte le piazze erano sempre colme, l'entusiasmo era enorme, e si ebbe una sopravvalutazione del consenso alla sinistra. In realtà il paese non poteva non essere ancora fortemente condizionato da vent'anni in cui cultura e informazione erano totalmente gestite dal regime fascista: Togliatti, giustamente preoccupato di creare nel paese un clima di coesione nazionale nella delicata fase della ricostruzione, da Ministro della Giustizia fu il principale promotore dei provvedimenti di amnistia nei confronti degli ex fascisti, ma rimase irrisolto il problema della cospicua presenza negli apparati dello Stato di uomini legati al vecchio regime e ben decisi a riciclarsi (e saranno tremendi i guasti provocati negli anni '60 e '70 da questo connubio tra fascisti e democristiani; un fatto sul quale da oltre vent'anni si sta sorvolando).
La nuova Italia, dunque, nasceva dopo un lungo periodo di dittatura e una sanguinosa guerra civile, con una Costituzione avanzatissima, frutto della straordinaria lucidità e lungimiranza dei membri dell'Assemblea Costituente (presieduta dal comunista Umberto Terracini), ma la logica dei blocchi definita a Yalta condizionò per oltre cinquant'anni la vita politica italiana, appunto impedendo che al governo vi fosse il fisiologico avvicendamento tra forze conservatrici e progressiste, come avveniva normalmente in Germania, nel Regno Unito, in Scandinavia.
Il fattore K (Komintern, Kommunist, ecc.) come asse della politica italiana. In realtà la stragrande maggioranza del PCI aveva accettato completamente le regole del gioco democratico, ritenendo improponibili in una società matura metodi insurrezionali e soluzioni analoghe (dittatura del proletariato, monopartitismo) a quelle volute dai partiti comunisti al potere. Anche sotto questo aspetto è significativo ciò che avvenne, proprio nel '48, in seguito all'attentato in cui Togliatti fu gravemente ferito: le sue prime parole furono "mantenete la calma!", tuttavia in tutto il paese vi fu praticamente un moto insurrezionale, e, ad esempio, a Genova ci vollero tutto il prestigio e l'autorità di Giancarlo Pajetta per convincere i partigiani, che avevano di fatto preso il controllo armato della città, a rimettere il potere alle istituzioni.
Nonostante l'elaborazione togliattiana della via italiana al socialismo - una linea decisamente eccentrica rispetto all'asfittica ortodossia imperante a Mosca - l'isolamento del PCI fu accentuato dalla formazione di governi di centrosinistra (DC, PSI, PSDI, poi allargati al PRI e in seguito anche al PLI). Fu in ogni caso una stagione di grandi trasformazioni e novità, con l'Italia investita dal miracolo economico, ma anche percorsa da importanti cambiamenti nel costume e nella vita civile.
Spesso si è dipinto il PCI come una chiesa, con i suoi adepti che fedelmente seguivano la dottrina imposta dall'alto (celebre l'arguzia di Giovanni Guareschi - uno dei pochi intelligenti umoristi di destra - che ironizzando sui cambiamenti di linea immaginava i disciplinati militanti comunisti sconvolti da un brusco richiamo dall'alto: "Contrordine, compagni!"): che vi siano stati anche elementi di questo tipo è vero, e ne scrisse accuratamente anche Gramsci a proposito dei tre elementi che costituiscono un partito di massa (il gruppo dirigente, una massa disciplinata ma non particolarmente colta, i quadri intermedi: v. Il partito politico nella breve raccolta di scritti gramsciani); ma la forza e la credibilità del PCI non risiedevano solo nella straordinaria capacità di mobilitazione, che vedeva l'apice nelle Feste de l'Unità e nel continuo lavoro per creare consenso intorno alle lotte popolari (talvolta con una modernissima capacità comunicativa, espressa soprattutto nei manifesti), ma soprattutto nell'essere davvero quell'intellettuale collettivo immaginato da Gramsci, cioè un organismo di massa che, pur tra mille contraddizioni, cercava senza sosta di migliorare se stesso e il proprio senso di aderenza alla realtà, utilizzando il marxismo come un metodo critico e non come formulario di ricette.
Non a caso i migliori intellettuali dell'epoca aderirono al PCI o gli furono vicini: scrittori, cineasti, editori, artisti, studiosi; solo alcuni nomi: Calvino, Malaparte, Pavese, Sciascia, Antonioni, De Sica, Pontecorvo, Visconti, Einaudi, Feltrinelli, Guttuso, Sapegno. Non fu sempre un idillio, naturalmente, e in taluni casi ci furono scintille: come nel caso dell'aspra polemica fra Elio Vittorini e Togliatti sul ruolo degli intellettuali o in seguito all'invasione sovietica dell'Ungheria.

Quanto il PCI fosse partito di lotta e di governo lo si può verificare sotto due profili: nelle regioni rosse, in cui comunisti e socialisti hanno tradizionalmente avuto la maggioranza e hanno amministrato egregiamente; e nell'instancabile attività nelle fabbriche e nelle campagne (quello che allora veniva definito il "lavoro di massa"), dove i comunisti - sia detto senza alcuna retorica - erano sempre in prima fila nella difesa dei diritti e nelle rivendicazioni; spesso pagando di persona con discriminazioni e licenziamenti: esemplare il caso della Fiat, dov'era stata allestito un apposito reparto confino in cui si cercava di isolare gli operai della Fiom, tutti accuratamente schedati. Per non parlare dei nutriti dossier allestiti dai carabinieri e dai servizi, e delle decine di morti provocati da un uso irresponsabile delle forze dell'ordine in occasione di lotte sociali, attività in cui si distinse il Ministro democristiano Scelba, con la sua cele(b)re questura...

Con la morte di Stalin (1953) in URSS cominciò un ripensamento di fondo su come il partito e lo stato erano stati gestiti, e il nuovo segretario del PCUS, Nikita Krushëv, nel celebre Rapporto segreto letto al XX Congresso (1956) attaccò aspramente il predecessore e il culto della personalità costruito intorno a lui. Togliatti, pur con la consueta prudenza, continuò nel tenace lavoro di presa di distanza da Mosca, e in un'intervista alla rivista Nuovi Argomenti criticò il rapporto di Krushëv, nel quale non veniva svolta un'analisi adeguata, organica, dello stalinismo: questa riflessione trovò una formulazione più strutturata in uno scritto steso da Togliatti proprio prima di morire, il cosiddetto Memoriale di Yalta, che il nuovo Segretario del PCI, Luigi Longo, decise subito di rendere pubblico, facendone il punto di riferimento dell'autonomia del PCI.
Occorre però ricordare che nel '56 vi fu anche la drammatica rivolta degli ungheresi contro il regime filosovietico e che il PCI si schierò decisamente a fianco dell'URSS. L'allora direttore de l'Unità, Pietro Ingrao, molti anni dopo confesserà di non perdonarsi quella posizione, e anzi di considerare l'atteggiamento assunto dal PCI (che provocò l'uscita dal partito di molti militanti, soprattutto intellettuali) il più grave errore commesso dal partito nella sua lunga, e gloriosa storia: liberarsi dal legame col regime totalitario sovietico - ormai privo da tempo di qualsiasi connotato comunista e rivoluzionario - e imprimere una decisiva svolta all'elaborazione teorica e alla pratica poteva significare far assumere al comunismo italiano una prospettiva ben diversa dalla misera fine decretata nel 1989-91.
All'XI Congresso del PCI (1966) si manifestarono apertamente due linee contrapposte: quella più moderata e che puntava addirittura all'unificazione col PSI, e una di sinistra che rivendicava una maggior severità nel giudizio sul centrosinistra. Gli esponenti di punta di questo dibattito furono rispettivamente Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, ma nessuno dei due riuscì a far prevalere le proprie tesi: la linea del PCI fu dunque determinata - secondo un classico meccanismo politico - dal "centro", cioè da chi, nel gruppo dirigente (in particolare Longo, Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer), riteneva che le posizioni più sbilanciate e radicali dovessero essere riequilibrate da un orientamento "moderato" e flessibile.

Nel 1968, l'anno degli studenti, e nel 1969, l'anno dell'autunno caldo (cioè la stagione dei rinnovi contrattuali in cui riemerse, forte e decisa, la combattività operaia), Longo intuì il nuovo potenziale di lotta e di cambiamento, ma la deriva estremistica del movimento studentesco (e, viceversa, un certo irrigidimento dei dirigenti intermedi del PCI) impedì un vero dialogo, e, anzi, i gruppi della sinistra extraparlamentare svolsero durissime azioni di critica nei confronti del PCI e della CGIL. Non a caso le posizioni estremiste ebbero fortuna soprattutto fra gli studenti: nelle fabbriche, dove pure vi erano state numerose critiche a un certo attendismo delle vecchie Commissioni Interne (gli organismi rappresentativi costituiti dai lavoratori), dirigenti sindacali attenti e coraggiosi come Bruno Trentin capirono quanto fosse vitale cogliere i segnali di novità e dare il massimo spazio alle istanze emergenti dalla "nuova" classe operaia. E infatti la creazione dei nuovi strumenti di rappresentanza dei lavoratori (Consigli di fabbrica eletti unitariamente reparto per reparto) consentì al sindacato di mantenere ben saldi i legami di massa, trovando in ciò l'elemento essenziale della propria forza e credibilità.
Tutti questi elementi critici (che, ripetiamo, portarono anche importanti elementi di vivacità nella cultura politica e civile) nella loro forma più esasperata erano riconducibili da un lato a un'analisi sommaria delle società capitalistiche e dall'altra a una critica liquidatoria di quanto aveva fatto la sinistra storica, accusata di aver abbandonato l'idea della rivoluzione e di aver tradito il marxismo, o perlomeno di averlo sottoposto a un'inaccettabile revisione moderata e tesa al compromesso (revisionismo). La rottura, consumatasi nei primi anni '60, fra URSS e Cina, si era appunto determinata su questioni ideologiche, con i sovietici accusati di revisionismo, anche se, in realtà, il nodo del dissidio era riconducibile alla competizione fra i due paesi rispetto a chi dovesse esercitare la leadership sugli altri partiti comunisti e, soprattutto, sui paesi in via di sviluppo che, in opposizione ai paesi ricchi, avevano ovviamente bisogno di partner forti e affidabili.
Gli esponenti di spicco del marxismo "critico", cioè non legato all'ortodossia imposta da Mosca (ma anche da Pechino: al burocratismo sovietico si opponeva un dogmatismo altrettanto rigido, quasi che le parole d'ordine della Rivoluzione culturale cinese potessero essere esportate in società completamente diverse), in vario modo diedero un impulso formidabile a queste controversie.
Il gruppo di studiosi conosciuto come Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), ma anche, in Francia, Althusser, Barthes, Lacan, Sartre, e negli Stati Uniti economisti come Paul Sweezy e linguisti come Noam Chomsky, sottoponevano a una critica spietata sia i meccanismi del capitalismo sia la politica, ritenuta debole e inadeguata, dei partiti storici della sinistra. In particolare veniva giudicata del tutto inefficace la tendenza della sinistra a considerare quasi esclusivamente i momenti "strutturali" dello scontro politico, cioè quelli legati ai meccanismi dello sfruttamento e all'organizzazione di classe della società, trascurando, invece, gli aspetti "sovrastrutturali", soprattutto se riferiti ai dispositivi - scuola, mass media - di formazione del consenso; ci fu chi addirittura teorizzò il venir meno del ruolo rivoluzionario della classe operaia, ormai coinvolta in modo subalterno nel sistema capitalistico e comunque destinata ad essere "integrata". Studiosi come Wilhelm Reich ed Eric Fromm introdussero poi nel dibattito politico temi legati alla psicanalisi e, più in generale, al rapporto fra politica e psicologia: il primo, in particolare, col suo celebre La rivoluzione sessuale propose una discutibile ma stimolante sintesi fra marxismo e freudismo, contribuendo fortemente ad una presa di coscienza collettiva anche rispetto a problemi di natura non strettamente politica ma di grande rilevanza dal punto di vista della formazione culturale e ideologica, e dei comportamenti sociali.
Tali fermenti investirono prepotentemente anche il movimento operaio italiano, che comunque già aveva cominciato a interrogarsi su tali questioni, ad esempio nell'ambito di quella sinistra socialista (che nel '64 aveva dato via al PSIUP) o comunista da cui avevano preso le mosse importanti riviste come Quaderni Rossi, Contropiano, Problemi del Socialismo, Quaderni Piacentini, Monthly Review (ed. italiana della rivista di Baran e Sweezy, uscita dal 1968 al 1987). Naturalmente anche il PCI fu scosso da queste aspre discussioni e nel dibattito interno ci fu una durissima contrapposizione fra i gruppi dirigenti e l'agguerrito nucleo di militanti che si rifacevano alle posizioni di Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri, promotori della rivista il Manifesto (quotidiano dal 1971): con la loro radiazione dal partito (1969) la frattura divenne insanabile e per vari anni ci fu una variegata e vivacissima costellazione di gruppetti alla "sinistra" del PCI.

La grande forza di questo partito - fatta di idealità comuni, organizzazione, energia, disciplina, spirito di sacrificio, concretezza - talvolta gli fu quasi d'impaccio nel cogliere al volo le trasformazioni della società. Come nel caso del divorzio: malgrado le forti sollecitazioni di esponenti del mondo laico, il PCI non volle impegnarsi convintamente in questa battaglia, temendo che il paese fosse ancora troppo condizionato dalla cultura democristiana e dalla Chiesa cattolica, e infatti furono un deputato socialista e uno liberale, Fortuna e Baslini, a presentare una legge in merito, che fu approvata; quando però la DC e il MSI, guidati da Fanfani e Almirante, tentarono di rimediare, lanciando con grande clamore il referendum abrogativo (1974), il PCI mise in campo tutte le proprie risorse, svolgendo un ruolo decisivo nel battere la destra.

Una vicenda analoga si svolse a proposito dell'aborto, delicatissima questione che dal movimento femminista venne posta al centro di una battaglia più generale contro l'oppressione e l'oscurantismo: ma anche in questo caso la forza comunista fu essenziale (assai più delle brucianti invettive di Pannella e dei radicali), e vi fu un clamoroso no al tentativo del clerico-fascismo di cancellare la legge 194 per via referendaria (1978).

Agli inizi del 1968 un'altra importante vicenda scosse il movimento operaio internazionale: il tentativo di Dubcek e del gruppo dirigente riformista del Partito Comunista di imprimere una svolta antiautoritaria al regime di tipo sovietico che soffocava la Cecoslovacchia. È la Primavera di Praga, conclusasi tragicamente in seguito all'intervento militare dei paesi del Patto di Varsavia nell'agosto. Rispetto a questo ennesimo atto contrario a qualsiasi logica di progresso e di liberazione, il PCI non esitò ad esprimere il proprio "grave dissenso."

Sul piano elettorale il PCI registrò una crescita continua, ma la pregiudiziale anticomunista degli altri partiti e i vincoli internazionali dell'Italia all'interno della NATO (Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord) impedirono che quei voti fossero efficacemente utilizzati nel governo del paese. D'altra parte per moltissimi anni la peculiarità della politica italiana fu proprio il "congelamento" del PCI, cioè la conventio ad excludendum, l'accordo per escludere dal potere la principale forza di opposizione (che era anche il più grande partito comunista dell'occidente): e proprio per impedire ad ogni costo che il PCI andasse al governo, i servizi segreti statunitensi e italiani ispirarono, o addirittura in taluni casi gestirono direttamente, la strategia della tensione: un oscuro e complesso disegno - basato sullo stragismo e le provocazioni - volto a creare un clima di permanente disordine politico e sociale, tale da giustificare una forte svolta autoritaria. Una stagione fitta di misteri, depistaggi, regie occulte, disinformazione, servizi segreti fuori da ogni controllo, sussulti golpisti, con la classe dirigente - democristiani e socialisti in testa - inerte o complice.
Nel 1973, riflettendo sul processo che aveva portato al golpe in Cile, Enrico Berlinguer, Segretario del partito dal 1972 al 1984, prospettò una svolta politica epocale che allontanasse questi rischi di degenerazione del sistema democratico, e che doveva necessariamente fondarsi sull'incontro fra le grandi forze politiche di ispirazione comunista, socialista e cattolica: è la nota proposta di "compromesso storico" tra PCI, PSI e DC.
Malgrado l’insuccesso di questa idea, Berlinguer proseguì con determinazione nella messa a fuoco di una strategia in grado di sbloccare una situazione politica pericolosamente stagnante: sul piano internazionale la rottura con Mosca era di fatto consumata, anche se non formalizzata, avendo il PCI da una parte rinunciato alla prosecuzione di qualsiasi finanziamento (criticabile sul piano politico, ma non illegale, dato che non vi era ancora la legge che regolava l'erogazione di denaro ai partiti) e dall’altra denunciato i "tratti illiberali" dei regimi dell’est e proclamato la necessità di perseguire una “terza via” rispetto al socialismo reale dell'est e alle socialdemocrazie.
I partiti comunisti europei erano entità abbastanza modeste, con l’eccezione di Italia, Francia e Spagna, ed è a queste due realtà che si rivolse Berlinguer: i contatti con i segretari del PCF e del PCE, Georges Marchais e Santiago Carrillo, sembrarono in un primo tempo dare ottimi risultati, tanto che per diverso tempo si parlò di eurocomunismo, inteso come movimento dei partiti comunisti riformatori; in seguito, tuttavia, sia nel PCF che nel PCE prevalsero nuovamente le istanze conservatrici. Berlinguer addirittura arrivò a dichiarare che tutto sommato si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della NATO.
Per quanto riguardava la realtà italiana il Segretario del PCI fu il primo a denunciare l’esistenza di una “questione morale” che esigeva una radicale trasformazione dei rapporti, troppo spesso all’ombra della corruzione, fra amministrazioni pubbliche, aziende, forze politiche. In verità fu un appello che cadde nel vuoto, come pure non ebbe gran seguito il richiamo a non restare imprigionati dall’esasperata logica dei consumi e a ritrovare, di fronte ai gravi problemi economici, un forte riferimento etico nell’austerità. Questi sensibili elementi di apertura e di rinnovamento crearono intorno ai comunisti un nuovo clima di consensi, e nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975 il PCI aumentò di oltre 6 punti, arrivando, col 33%, a un passo dal 35% della DC: il risultato fece sì che le maggiori città italiane (Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia) avessero delle giunte “rosse”. Il sorpasso elettorale sarebbe però avvenuto solo alle elezioni europee del 1984, subito dopo la morte di Berlinguer, col PCI al 33,4% e la DC al 33%.

Ma furono anche gli anni di piombo: alcune piccole frange della sinistra extraparlamentare ritennero che la lotta politica così com'era stata finora condotta, anche nelle forme più dure, era del tutto inefficace e quindi l'unico modo di combattere il capitalismo era la lotta armata. Un disegno che non poteva che avere come uno dei bersagli principali proprio il PCI, nemmeno più "revisionista" ma solamente "traditore". Le principali vittime del terrorismo furono in verità uomini dello Stato, imprenditori, giornalisti, ma quando in una fabbrica di Genova il sindacalista comunista Guido Rossa denunciò apertamente alcune connivenze col terrorismo, le Brigate Rosse lo uccisero. E per tutto quel periodo - culminato nel momento più difficile della storia repubblicana, il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, 1978 - il PCI fu sicuramente la forza politica più impegnata a contrastare il proliferare della violenza e le trame eversive.

Quanto il PCI fosse ben radicato nella società, in particolare fra le masse lavoratrici, lo si vide anche in due sfortunate battaglie: alla fine del ‘79 la Fiat licenziò 61 operai accusandoli di aver commesso atti di violenza dentro la fabbrica e nell’autunno dell’80 annunciò la cassa integrazione per 24.000 lavoratori, metà dei quali dopo un anno sarebbero stati licenziati. Il sindacato rispose con lo sciopero a oltranza e lo stesso Berlinguer andò davanti ai cancelli di Mirafiori a portare la solidarietà del PCI. Che la Fiat puntasse a una resa dei conti divenne esplicito quando la direzione aziendale annunciò la sospensione dei licenziamenti e la riduzione del periodo di cassa integrazione: dopo quasi un mese di sciopero c’era stanchezza fra i lavoratori e soprattutto paura per il futuro, e molti premevano per sospendere la lotta e cercare qualche compromesso; il colpo decisivo arrivò con la marcia dei 40.000: a metà ottobre un imponente corteo di capireparto, impiegati, dirigenti, insieme alle loro famiglie, sfilò per le strade di Torino chiedendo di poter tornare a lavorare e accusando i sindacati di portare alla rovina l’economia. Non si era mai visto niente del genere, era il segnale di una violenta spaccatura fra operai politicizzati e lavoratori intermedi, e, soprattutto, di una generale perdita di consenso da parte del sindacato: che infatti il giorno dopo firmò un accordo che era un inevitabile atto di resa.
Una delle conseguenze fu che quando qualche anno più tardi (1985) si andò al referendum per l’abolizione della scala mobile (in realtà si trattava di una consultazione proposta proprio dal PCI per abrogare il disegno di legge del governo Craxi che aveva di fatto eliminato la scala mobile): la formidabile mobilitazione nelle fabbriche non riuscì a coinvolgere positivamente il resto della società e quasi il 55% degli italiani votò per la soppressione di questo meccanismo.

In ogni caso tutta la politica italiana di quegli anni era come bloccata tanto era condizionata dal fenomeno terroristico. E forse è anche da questo non poter lavorare davvero per il cambiamento che si è alimentata quella pratica deviata della politica esplosa poi con Tangentopoli.
Un altro effetto collaterale della non alternanza fra chi aveva sempre governato e chi no, coinvolse più direttamente il PCI: il consociativismo, cioè il coinvolgimento diretto delle forze dell'opposizione in decisioni a vari livelli: e non sempre le scelte sono state le migliori.

Un momento drammatico e decisivo fu la morte di Berlinguer, nel giugno del 1984: i suoi funerali furono la più grande manifestazione della storia italiana e videro l'immensa partecipazione non solo del popolo comunista ma anche di cittadini i quali vedevano scomparire uno dei pochi uomini politici che, per serietà e onestà, erano riusciti ad acquisire la fiducia della gente. Qualcosa di simile era accaduto solo vent'anni prima, ai funerali di Togliatti, con un milione di persone che piangevano "l'idea che non muore".

Dal punto di vista della sua fisionomia (anche fisica: nome, simbolo) e del suo progetto per il futuro, la svolta decisiva è stata impressa al PCI fra l''89 e il '91 da Achille Occhetto (divenuto Segretario dopo che il partito era stato guidato per un certo tempo da Alessandro Natta), il quale decise, anche in relazione al crollo dell'URSS e dei regimi satelliti, di accelerare la trasformazione del PCI: un dibattito senza precedenti, appassionato e drammatico, attraversò il partito (su queste vicende e quelle immediatamente successive molto interessante la ricostruzione che ne fanno Oliviero e Alessio Diliberto in La fenice rossa, Robin ed., 1998) coinvolgendo centinaia di migliaia di militanti, quelli per il , cioè favorevoli all'opzione apertamente socialdemocratica proposta da Occhetto, e quelli per il no, convinti della necessità di mantenere viva una forza comunista consapevole della propria storia (a sua volta il fronte del no era diviso fra chi stava già preparando la scissione e chi invece decise di restare).

Al XX Congresso, 1991, il Partito Comunista Italiano si è sciolto e ha promosso una nuova formazione, il Partito Democratico della Sinistra (successivamente trasformatosi ancora, assorbendo schegge socialiste e cattoliche, in Democratici di sinistra, e poi ancora, miscelando ex comunisti - ma molto ex - e democristiani, in PD), mentre l'ala sinistra, guidata da Garavini, Cossutta e Libertini, ha dato vita al Partito della Rifondazione Comunista.
Ma occorre sottolineare che non tutti gli iscritti al PCI (circa 1.200.000) si ritrovarono poi nel PDS (e men che meno nei DS) o in Rifondazione: il primo risultato della brillante operazione di Occhetto fu che 350-400.000 militanti abbandonarono in brevissimo tempo la vita politica attiva, seguiti più avanti da molti altri.

Quando nel 1998 Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione, decise di far cadere il governo Prodi, migliaia di militanti comunisti si opposero a questa scelta avventuristica e diedero vita al Partito dei Comunisti Italiani.
E il triste seguito (litigi, scissioni, arcobaleno, federazione minuscola) è noto. Una grottesca appendice: il PdCi dopo aver cambiato nome nel 2014 in PCd'I, due anni dopo ricambia nome, addirittura presentandosi come PCI.

 

Sul retro delle tessere del PCI venivano riportati alcuni punti fondamentali dello Statuto del partito: qui riproduciamo quanto stampato sulle tessere del 1950 e del 1990, sottolineando che, ovviamente, nel corso degli anni queste formulazioni sono molto cambiate, rispecchiando l'evoluzione teorica e politica del PCI. Si noti, ad esempio, che nel 1950 veniva ancora usata l'espressione marxismo - leninismo, poi abbandonata perché riferita all'irrigidimento ideologico imposto da Stalin.
Il Partito Comunista Italiano è l'organizzazione politica dei lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente per la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l'indipendenza e la libertà del Paese, per l'edificazione di un regime democratico e progressivo, per il rinnovamento socialista della società.
Ogni iscritto al Partito Comunista è tenuto:
- a partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di Partito secondo le direttive dell'organizzazione a cui è iscritto;
- a migliorare di continuo la propria conoscenza della linea politica del Partito e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione;
- ad approfondire la conoscenza del marxismo-leninismo;
- ad osservare scrupolosamente la disciplina del partito;
- ad avere rapporti di lealtà e fraternità con gli altri membri del Partito;
- ad avere una vita privata onesta, esemplare;
- ad esercitare la critica e l'autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del Partito;
- a vigilare e difendere il Partito da ogni attacco;
- a fare con la parola e con l'esempio opera continua di proselitismo.

Il Partito Comunista è un partito di donne e di uomini che lottano per la pace e la cooperazione fra i popoli, per l'affermazione dei diritti di tutti gli individui e per il riscatto del lavoro da ogni forma di opppressione e di sfruttamento...